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Musica corale

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Trappola per topi”

gbopera - Mar, 19/11/2024 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
La Pirandelliana

presenta
TRAPPOLA PER TOPI
di Agatha Christie
traduzione e adattamento Edoardo Erba
con Ettore Bassi, Claudia CampagnolaDario MerliniStefano AnnoniMaria Lauria, Marco Casazza, Matteo PalazzoRaffaella Anzalone
scene Luigi Ferrigno
costumi Francesca Marsella
musiche Paolo Silvestri
luci Antonio Molinaro
regia Giorgio Gallione
Roma, 19 Novembre 2024
La tormenta di neve che avvolge la pensione Monkswell Manor non è soltanto un mero sfondo atmosferico, ma un simbolo pregnante di mistero e di isolamento, che avvolge i protagonisti e ne acuisce il senso di vulnerabilità. In questo microcosmo sospeso, dove il tempo sembra perdere consistenza, Mollie e Giles Ralston accolgono un eterogeneo consesso di ospiti, ciascuno dei quali reca con sé un bagaglio di segreti irrisolti e un’aura di ambiguità. L’arrivo del sergente Trotter, col compito di svelare il nesso tra un recente omicidio a Londra e i presenti nella pensione, rappresenta l’elemento catalizzatore di una tensione già palpabile: una tensione che Christie dosa magistralmente, alternando sprazzi di ironia a momenti di suspense di impeccabile precisione. La storia di “Trappola per topi” non è solo una pietra miliare nella produzione della giallista inglese, ma anche un capitolo significativo della storia teatrale stessa. Debuttato all’Ambassadors Theatre di Londra nel 1952, è oggi lo spettacolo più longevo della scena mondiale. Eppure, il fascino di questo dramma non si limita alla sua longevità: è la straordinaria capacità della Christie di sondare le più riposte pieghe dell’animo umano a conferirgli un carattere universale. La produzione italiana curata dalla Pirandelliana riesce a riproporre l’opera non come una semplice rievocazione nostalgica, ma come una riflessione sui meandri della natura umana, mettendo in luce l’attualità di un testo che ancora oggi suscita domande e inquietudini. Giorgio Gallione firma una regia che si distingue per l’equilibrio tra fedeltà al testo e inventiva interpretativa. La regia evita con saggezza la trappola della riproduzione storica pedissequa, offrendo al pubblico una versione che, pur rispettosa del contesto originale, riesce a dialogare con il nostro presente. In questo senso, la sua regia appare essenziale e al contempo audace: le convenzioni dell’ambientazione britannica vengono decostruite, rimosse da quei cliché che avrebbero potuto farne una fredda ricostruzione d’epoca. La pensione Monkswell diventa un non-luogo, uno spazio simbolico in cui il mistero si traduce in inquietudine psicologica, più che in un mero espediente narrativo. L’ambientazione, curata da Luigi Ferrigno, traduce in scena l’atmosfera di isolamento e mistero evocata dal testo. La pensione è un microcosmo di tensioni latenti, in cui ogni oggetto diviene parte integrante del racconto: i mobili austeri, i colori smorzati, tutto contribuisce a una sensazione di attesa carica di presagi. I costumi di Francesca Marsella, accurati e capaci di delineare con eleganza le personalità dei personaggi, sono parte di una messinscena in cui nulla è lasciato al caso, mentre il disegno luci di Antonio Molinaro, con i suoi passaggi studiati tra toni morbidi e tagli drammatici, amplifica la tensione e guida lo sguardo dello spettatore verso il cuore pulsante dell’azione. Il cast è elemento di primaria importanza in questa produzione, e ogni interprete contribuisce con intensità e partecipazione a restituire il complesso gioco di relazioni e segreti sotteso alla trama. Ettore Bassi, nei panni del sergente Trotter, si distingue per una presenza scenica autorevole, capace di unire rigore e ironia, mentre Claudia Campagnola, come Mollie Ralston, offre una performance che gioca con sapienza tra fragilità e determinazione. Gli altri attori – Dario Merlini, Stefano Annoni, Maria Lauria, Marco Casazza, Matteo Palazzo e Raffaella Anzalone – compongono un quadro corale che ben rende la complessità emotiva dei loro personaggi, ciascuno con le proprie ombre e vulnerabilità. Gallione dimostra di cogliere appieno la modernità dell’opera di Christie, esplorando, al di là dell’intreccio giallo, le tematiche più profonde che la sottendono: il labile confine tra innocenza e colpevolezza, la solitudine che si fa eco delle nostre paure più recondite, la fragilità dell’essere umano di fronte al sospetto e alla rivelazione. “Trappola per topi” non è solo un intricato gioco di indizi e false piste, è un’indagine sull’animo umano, su quel lato oscuro che ciascuno di noi preferirebbe non svelare. La produzione del Teatro Quirino è un omaggio rispettoso e insieme innovativo a un classico immortale, un’opera che riesce a sorprendere ancora oggi, nonostante i decenni trascorsi dalla sua prima rappresentazione. Lo spettatore viene coinvolto non soltanto nella risoluzione dell’enigma, ma anche in una riflessione più ampia sulle dinamiche del sospetto, sulle maschere che ciascuno indossa e sui segreti che vorrebbe celare. “Trappola per topi” si conferma così un capolavoro senza tempo, capace di affascinare e catturare il pubblico, regalando ancora una volta quell’emozione unica che solo il teatro sa dare.

Categorie: Musica corale

Bergamo, Donizetti Opera 2024: “Roberto Devereux”

gbopera - Mar, 19/11/2024 - 19:54

Bergamo, Donizetti Opera 2024
“ROBERTO DEVEREUX”
Tragedia lirica in tre atti di Salvatore Cammarano
Musica di Gaetano Donizetti
Elisabetta JESSICA PRATT
Il duca di Nottingham SIMONE PIAZZOLA
Sara RAFFAELLA LUPINACCI
Roberto Devereux JOHN OSBORN
Lord Cecil DAVID ASTORGA
Sir Gualtiero Raleigh IGNAS MELKINAS
Un famigliare di Nottingham e un Cavaliere FULVIO VALENTI
Orchestra Donizetti Opera
Coro dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Frizza
Maestro del coro Salvo Sgrò
Regia Stephen Langride
Scene e costumi Katie Davenport
Luci Peter Munford
Bergamo, Teatro Donizetti, 15 novembre 2024
Compie dieci il Donizetti Opera, dieci anni che hanno saputo porre questo Festival come punto importante non solo nell’ambito musicale internazionale, ma anche come appuntamento vissuto e partecipato dalla città stessa di Bergamo che vive nel segno di Donizetti. Dieci anni che segnano anche l’ultima stagione di Francesco Micheli che – al netto di qualche distinguo su alcune scelte artistiche – di questa visione aperta del Festival è stato il grande ideatore e artefice.
Decennale che si apre con uno degli estremi capolavori del maestro bergamasco quel “Roberto Devereuxin cui l’anima più oscura del romanticismo penetra nelle fibre più profonde dell’opera italiana, supera le convenzioni della stagione belcantista e apre a una visione drammatica che non solo apre a quella verdiana ma si spinge in avanti a livello d’intensità e coerenza che Verdi raggiungerà solo nella piena maturità.
Grande merito quindi quello di Riccardo Frizza di aver colto ed esaltato queste componenti. Frizza evita la trappola di quella cupezza che tende a caratterizzare l’opera e che può rischiare di schiacciarla per trovare una cifra di autentica drammaticità in cui la cupa cappa del destino che tutto domina si anima di tensione nervose profonde, scoppia di scariche elettriche vanamente represse, si apre in un lirismo che è gemito di cuori sofferenti. Una lettura di estrema coerenza ed efficacia che non solo conferma Frizza tra i massimi interpreti belcantisti del nostro tempo ma dimostra le sue qualità di uomo di teatro. Assai positive le prove dell’Orchestra Donizetti e del Coro dell’Accademia della Scala forgia di quella qualità unica che bisogna riconoscere alla tradizione corale scaligera.“Roberto Devereux” è anche uno degli estremi esiti del belcanto italiano pensato per qualità vocali fuori dal comune e autentico cimento per chiunque sia chiamato a interpretarlo. Protagonista assoluta – cui solo il titolo è negato – Elisabetta trova interprete di sommo interesse in Jessica Pratt. La cantante australiana poteva sulla carta non apparire interprete ideale, virtuosa cristallina ma più portata ad ambiti più lirici che drammatici. La Pratt però ci impone di riflettere sulla vocalità di Elisabetta e su come vada percepita ricollegandosi idealmente Giuseppina Ronzi de Begnis creatrice del ruolo che le fonti ricordano somma mozartiana e più rivolta al passato classico che proiettata ai futuri turgori. Una lettura quindi che si fa recupero di una vocalità che guarda oltre alla tradizione novecentesca per tornare alle origini stesse del titolo. La voce di bellissimo colore, la purezza di una linea di canto ineccepibile, la qualità della vocalista di rango – le puntature aggiunte sono abbaglianti per fermezza e sonorità – si uniscono a un’interprete sensibile e raffinata, capace di cogliere la natura lacerata di Elisabetta, divisa tra affetti e potere e capace di trovare accenti di autentica commozione – quanta verità in quel “Non sia chi dica in terra”.
Al debutto nel ruolo ha tradito un po’ di emozione in “L’amor suo mi fe beata” ma con lo scaldarsi della voce i timori sono scomparsi in uno straordinario crescendo.
John Osborn è un Devereux ideale. La voce unisce solidità e squillo, si è fatta robusta nei centri senza perdere slancio. Anche lui parte un po’ prudente ma passato il primo duetto acquisisce sicurezza e slancio fino a una magistrale esecuzione della grande aria dove alla prestazione vocale si unisce un’autentica partecipazione emotiva. Il suo è un Roberto nobile e sincero tanto nella passione per Sara quanto nella dedizione alla regina, un personaggio vero e profondo.
Raffaella Lupinacci riesce a dare risalto da autentica protagonista a una figura non facile da centrare come Sara. Voce particolare, forse non bellissima ma molto espressiva, timbro da mezzosoprano ma giustamente chiaro e luminoso, sicurissima su una tessitura decisamene alta rende pienamente la natura vocalmente ambigua di queste parti. Interpretativamente tratteggia un personaggio di forte spessore, nobile e appassionato, vittima non passiva del fato inesorabile.
Simone Piazzolla (Nottingham) ha qualche imprecisione nell’aria di sortita ma anche lui va crescendo nel corso dell’opera. Il timbro è davvero bello e lo aiuta non poco. Ci è parso più a suo agio nei furori del marito vendicatore che nell’astratta nobiltà dell’amico generoso. Ottime le prove di David Astorga, Ignas Melkinas e Fulvio Valenti nei ruoli di contorno. Lo spettacolo non manca di suggestione visiva. L’ambientazione è tradizionale anche se non pienamente realistica. Le scene di Katie Davenport sono essenziali e stilizzate e trasmettono un senso di cupa oppressione. Il tema della morte è onnipresente. Lo spettro futuro di Elisabetta si muove tra gli spazi, simboli funerari, teschi e fiori rinsecchiti dominano l’apparato scenico animato da proiezioni di documenti autografi d’epoca. L’immaginario è quello delle Vanitas tanto care all’arte tardo rinascimentale e barocca che ben si adatta al clima dell’opera. Lo stesso tema ritorna nel costume – splendido – di Elisabetta con la grande natura morta dominata da un teschio sepolcrale che ne decora la gonna. Molto belli anche gli altri costumi sospesi tra realismo e simbolo in una sorta di Cinquecento onirico e disturbante.
Ci lascia un po’ perplessi il lavoro registico di Stephen Langridge la cui mano di solida tradizione cede ad alcune cadute di gusto fino al limite del comico involontario – le guardie che giocano all’impiccato con le spade sullo steccato che imprigiona Roberto, l’inspiegata gravidanza di Sara  – che rischiano di compromettere uno spettacolo nel complesso sobrio e funzionale.
Un successo trionfale ha accolto tutti gli interpreti, splendido viatico per il prosieguo del festival e augurio per un futuro che appare ancora nebuloso.

Categorie: Musica corale

Roma, Musei Capitolini: “Tiziano, Lotto, Crivelli E Guercino. Capolavori della Pinacoteca di Ancona” dal 26 novembre 2024 al 30 marzo 2025

gbopera - Mar, 19/11/2024 - 17:03

Roma, Musei Capitolini
“Tiziano, Lotto, Crivelli E Guercino. Capolavori della Pinacoteca di Ancona”
dal 26 novembre 2024 al 30 marzo 2025
La maestosa Pala Gozzi (1520), capolavoro assoluto di Tiziano Vecellio insieme ad altre 5 celebri opere, tutte di carattere religioso e provenienti dalla Pinacoteca Podesti di Ancona, saranno eccezionalmente esposte, per la prima volta a Roma, in occasione del prossimo Giubileo, dal 26 novembre nelle sale di Palazzo dei Conservatori ai Musei Capitolini. 6 prestigiose tele – delle quali 5 pale d’altare di grandi dimensioni e una piccola ma lussuosa tempera su tavola – saranno protagoniste di un percorso espositivo che racconta l’importanza della collezione della Pinacoteca Podesti e, in filigrana, la ricchezza della città dorica committente dei maggiori artisti italiani fra Cinquecento e Seicento. Si potranno quindi ammirare la Circoncisione dalla chiesa di San Francesco ad Alto, opera di Olivuccio Ciccarello, interprete principale del rinnovamento della pittura anconetana che fiorì fra Trecento e Quattrocento; la preziosa Madonna con Bambino di Carlo Crivelli, icona della collezione dorica e somma realizzazione del pittore veneto che visse e operò nelle Marche; la Pala dell’Alabarda di Lorenzo Lotto, per la chiesa di Sant’Agostino, in cui si esplicita l’emozionante talento del pittore veneziano, esule a più riprese nella regione. Ancora di Tiziano sarà esposta la monumentale Crocifissione realizzata per la chiesa di San Domenico in cui l’artista esplora la tragedia e la sofferenza umana. Chiude la rassegna l’imponente Immacolata di Guercino, in cui la delicata figura della Vergine si staglia su un paesaggio marino il cui modello potrebbe essere la baia di Ancona. Con questa mostra si intende avviare un percorso di valorizzazione nazionale della collezione anconetana, con lo scopo di restituire ai cittadini e ai visitatori lo spaccato di un periodo cruciale della storia del gusto, del collezionismo e della museologia nella città marchigiana. Un lavoro che proseguirà con il riallestimento della Pinacoteca Civica Podesti, aperta nel dopoguerra dall’allora soprintendente Pietro Zampetti, con le opere salvate dai bombardamenti da un altro grande protagonista della storia della tutela, Pasquale Rotondi, l’eroico direttore del Palazzo Ducale di Urbino a cui si deve la salvaguardia del patrimonio artistico nazionale negli anni tumultuosi del secondo conflitto mondiale. La mostra romana, con questa importante esposizione delle pale d’altare della città dorica, oltre a testimoniare la sacralità e l’importanza che assunse l’arte adriatica del ‘500, anticipa gli eventi culturali previsti per il prossimo Giubileo. Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni culturali, con il patrocinio di Giubileo 2025 – Dicastero per l’Evangelizzazione, la mostra è organizzata da Arthemisia in collaborazione con Comune di AnconaAncona CulturaPinacoteca Civica di AnconaRegione Marche e Palazzo Ducale di Urbino – Direzione Regionale Musei Nazionali Marche ed è curata da Luigi Gallo, Direttore della Galleria Nazionale delle Marche e da Ilaria Miarelli Mariani, Direttrice della Direzione dei Musei Civici della Sovrintendenza Capitolina. Servizi museali di Zètema Progetto Cultura.

Categorie: Musica corale

Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: Federico Maria Sardelli e Bruno de Sá, in concerto

gbopera - Mar, 19/11/2024 - 16:49

Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Stagione Lirica “Autunno 2024”
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Federico Maria Sardelli
Sopranista Bruno De Sá
Johann Anton Filtz: Sinfonia op.II n.2 in Sol minore; Wolfgang Amadeus Mozart: Aria di Sifare “Lungi da te mio bene” (da Mitridate, re di Ponto); Luigi Cherubini: Aria di Lauso “No, non cercar per ora” (da Mesenzio, re d’Etruria); Carl Philipp Emanuel Bach: Sinfonia in Re maggiore Wq 176, H 651; Wolfgang Amadeus Mozart: “Exultate, jubilate” K 165; Sinfonia n.39 in Mi bemolle maggiore K 543
Firenze, 15 novembre 2024
Quando due artisti fuori dal comune si uniscono all’interno dello stesso recital non desta stupore che un luogo enorme come la Sala Metha del Teatro del Maggio registri il tutto esaurito. Da un lato c’è  squisito direttore d’orchestra che è anche compositore, flautista, romanziere, saggista, vignettista e pittore (di tale livello da venire esposto in modo permanente alla Galleria degli Uffizi); dall’altro il sopranista brasiliano, non ancora trentacinquenne, Bruno De Sá, fulgida stella in quel firmamento dei cantanti falsettisti che continua a esercitare grande fascino presso un pubblico sempre più trasversale, anche sul piano anagrafico. Se a tale vocalità è impossibile surrogare l’arte perduta dei castrati, è al contrario assai agevole diventare un simbolo di quella ‘fluidità di genere’ che in molti paesi viene a tutt’oggi osteggiata. Ascolteremmo, dunque, con lo stesso entusiasmo le performances di De Sá se fosse un soprano donna con la fascia delle note gravi che perde assai di volume (chi scrive distava dalla sua ugola sette metri) e nei sovracuti fa avvertire una certa contrazione? Probabilmente sì per il bellissimo e ottimamente proiettato suono del range medio-acuto, impreziosito da frequenti ‘filati’ (che di norma non associamo al repertorio barocco) o per i sempre ben sgranati passaggi di coloratura; ma ancor più per aver il coraggio di recuperare brani dimenticati di autori eccelsi (come Cherubini) o di carneadi (come il Luigi Caruso del bis, l’aria tratta dal Fanatico per la musica “In mezzo a mille affanni”) e confezionare con essi un CD per Warner Classic (il titolo è Mille affetti; oltre ai brani offerti in questo concerto contiene pagine inedite di Seydelmann, Reichardt e Alessandri). Di questa passione nell’indagare il repertorio serio e comico più scognito De Sá è capace di trasmettere tutta l’energia, conferendo una spiccata teatralità alle arie, specie nelle ampie cadenze (funzionali, va da sé, a esaltare i preziosi acuti che mandano il pubblico in visibilio). Non si dovrebbe mai giudicare un cantante dall’abbigliamento bizzarro o dalle stravaganze delle movenze sul palco, bensì dalla sua intelligenza interpretativa e De Sá ne possiede molta; non avrebbe raggiunto altrimenti un esito così intenso nella splendida aria di Sifare dove il suo timbro si sposava alla perfezione con quello del corno concertante, suonato in modo sublime da Alessio Dainese. Più tradizionale è apparsa l’interpretazione del mottetto Exultate, jubilate sulla quale gravava forse il ‘peso’ dei tanti falsettisti che, sin da Aris Christofellis, ne hanno fatto un cavallo di battaglia. Negli affondi verso il registro grave dell’aria di Lauso dal Mesenzio cherubiniano si è ben percepito il ‘lato maschile’ di questo ‘male soprano’ (come ama definirsi) che sul fattore androgino punta per consolidare il proprio successo ma che, glielo si augura, farà sempre più leva sui suoi preziosi progetti di riscoperta del secondo Settecento dimenticato o, meglio, obnubilato dalla presenza titanica di Mozart. Sardelli, da tutti conosciuto come il custode del ‘verbo’ vivaldiano, è un fine conoscitore anche del genio salisburghese che egli interpreta ricollocandolo nel contesto stilistico d’appartenenza e quindi sottraendolo a una mitografia che lo vuole antesignano dei maestri del grande Ottocento e che, pertanto, esige sia cantato come Verdi, Wagner e Puccini o suonato come Brahms. La direzione di Sardelli fa sembrare nuovo un brano arcinoto come la terzultima Sinfonia di Mozart grazie ai tempi più rapidi negli Allegro, ai giochi di contrasti dinamici più spiccati (quegli sforzando indicati come fp nei manoscritti e trascurati da tanti direttori), alle distinzioni sofisticate fra diversi tipi di staccato o di articolazioni degli archi, alla presenza del cembalo (qui l’ottimo Andrea Perugi) come retaggio del basso continuo ancora ben presente nella Vienna del 1788. Stesso discorso si può fare per i brani assai meno conosciuti (ma oggi facilmente reperibili sul web) del violoncellista Filtz (morto a soli 26 anni ma autore di centinaia di brani sinfonici e cameristici alla corte di Mannheim) e di Carl Philipp Emanuel Bach, interpretati rimarcando il nervosismo di fraseggio e la varietà di colori dinamici. Sardelli dirige senza bacchetta perché concerta secondo la prassi di un’epoca in cui la classica figura del direttore d’orchestra era di là da venire; e lo fa con una sicurezza di gesto che gli deriva dal cospicuo studio condotto sulle fonti originali. Lo segue attenta e partecipe l’Orchestra del Maggio, pienamente a suo agio con un repertorio che non è certo abituale nella programmazione concertistica invalsa nei grandi enti lirico-sinfonici e che potrebbe essere ben più spesso frequentato considerando l’entusiasmo di un pubblico tanto numeroso quanto variegato. Foto Michele Monasta

Categorie: Musica corale

Roma, Sala Umberto: ” Jannacci e d’intorni. Una storia raccontata e cantata” dal 21 novembre al 01 dicembre 2024

gbopera - Mar, 19/11/2024 - 11:42

Roma, Sala Umberto
JANNACCI E DINTORNI
UNA STORIA RACCONTATA E CANTATA
Con Simone Colombari e Max Paiella
e con Attilio Di Giovanni
(pianoforte e direzione musicale), Gino Marinello (chitarra classica ed elettrica), Alberto Botta (batteria e percussioni), Flavio Cangialosi (basso e fisarmonica), Mario Caporilli (tromba e flicorno), Claudio Giusti (sax, tenore e contralto)
regia di Lorenzo Gioielli
Un concentrato di Jannacci in un’epoca non lontana, e di chi c’era nei dintorni Giorgio Gaber, Adriano Celentano, Dario Fo. Ma anche i pazzi artistoidi che hanno prodotto capolavori come “El purtava i scarp del tenis” oppure “Vengo anch’io no tu no”. L’amore per il rock, per il jazz ma soprattutto per le persone e le loro storie raccontate nelle canzoni di Jannacci, qualcosa di indefinibile, leggere come aria e allo stesso tempo spesse e profonde, definitive. Jannacci noi lo possiamo vedere in tanti modi diversi, nei dialoghi al bar nel rigore sbagliato, nella foto di un figlio senza motorino, in Cochi e Renato, in Paolo Conte, in Walter Chiari, in Dario Fo, nel Jazz in un locale fumoso, nel cielo grigio ma anche n un prato verde in una foto in bianco e nero di una donna davanti ad una fabbrica in inverno che si chiamava vincenzina. La storia minima di Jannacci vista da un toscano e un romano, un po’ narrata, concentrata, un po’ cantata da Simone Colombari e Max Paiella. Qui per tutte le informazioni.

 

Categorie: Musica corale

Roma, Castel Sant’Angelo: “Forme e Colori dall’Italia Preromana. Canosa di Puglia”

gbopera - Lun, 18/11/2024 - 23:53

Roma, Castel Sant’Angelo
“FORME E COLORI DELL’ITALIA PREROMANA, CANOSA DI PUGLIA”
Curata da Massimo Osanna (Direttore Generale Musei) e Luca Mercuri (Direttore Regionale Musei Puglia)
Roma, 18 Novembre 2024
Nel maestoso abbraccio di Castel Sant’Angelo, luogo intriso di storia millenaria, si è aperta la mostra “Forme e Colori dall’Italia Preromana. Canosa di Puglia”. Questo straordinario evento non è una semplice esposizione di reperti, ma un viaggio emotivo e intellettuale attraverso il tempo, una celebrazione della civiltà Dauna che fiorì tra il IV e il II secolo a.C. Curata con maestria da Massimo Osanna, Direttore Generale Musei, e Luca Mercuri, Direttore Regionale Musei Puglia, la mostra è un trionfo di rigore scientifico e sensibilità artistica, capace di trasportare il visitatore in un universo di simboli, rituali e bellezza senza tempo. Il percorso espositivo è stato concepito con un’attenzione minuziosa alla narrazione visiva e spaziale, trasformando le sale di Castel Sant’Angelo in un teatro dove i reperti diventano protagonisti di una storia dimenticata. La luce, morbida e direzionale, accarezza le superfici degli oggetti, esaltando i dettagli dei mosaici, la lucentezza dei bronzi e le sfumature cromatiche delle ceramiche. La scelta di una palette luminosa calda e dorata non è casuale: essa richiama i toni del tufo pugliese, materiale che ha dato forma agli ipogei dauni, creando un legame simbolico tra il luogo d’origine dei reperti e lo spazio espositivo. Gli oggetti sono collocati in teche di vetro minimaliste, che sembrano sospese nell’aria, quasi a voler sottolineare la loro natura eterea e il loro ruolo di testimonianze di un passato che sfida il tempo. Ogni teca è accompagnata da pannelli esplicativi che coniugano rigore accademico e una prosa evocativa, permettendo al visitatore di comprendere non solo l’oggetto in sé, ma anche il contesto culturale e sociale in cui esso fu creato e utilizzato. Tra i protagonisti della mostra spiccano gli ipogei, tombe scavate nel tufo locale che ospitavano le sepolture delle élite daune. Ogni oggetto recuperato da queste necropoli racconta una storia: le armature, simbolo di potere e prestigio, evocano il ruolo dei guerrieri nelle dinamiche sociali; le ceramiche dipinte con motivi geometrici o figurativi narrano di un’estetica raffinata e di una cultura che intrecciava il sacro e il profano. E poi vi sono i gioielli, ornamenti preziosi che non erano solo simboli di ricchezza, ma amuleti carichi di significati apotropaici, strumenti di comunicazione tra il mondo terreno e quello ultraterreno. Uno dei pezzi più affascinanti è una corona d’oro, finemente decorata con motivi vegetali, che, come una voce sussurrata attraverso i secoli, ci parla della sacralità attribuita al rito funebre e del legame indissolubile tra i vivi e i morti. Accanto ad essa, le statuette votive in terracotta sembrano dialogare con il visitatore, invitandolo a immaginare il fervore religioso e il senso di appartenenza comunitaria che permeava la vita quotidiana dei Dauni. L’allestimento si sviluppa in un crescendo emotivo, conducendo il visitatore attraverso un percorso che alterna la grandiosità degli oggetti cerimoniali alla delicatezza dei manufatti di uso quotidiano. Le sale, scandite da archi e nicchie, amplificano l’effetto scenografico, mentre una colonna sonora discreta, composta da suoni naturali e melodie evocative, accompagna il visitatore, immergendolo in un’atmosfera che oscilla tra il reale e l’immaginario. Un’installazione multimediale posta al centro di una delle sale principali proietta immagini degli ipogei di Canosa, ricostruiti con tecnologie avanzate. Questa scelta non solo arricchisce l’esperienza visiva, ma rende tangibile l’architettura funeraria dauna, permettendo al pubblico di entrare, seppur virtualmente, in quegli spazi sacri. È un’esperienza che amplifica la percezione del tempo come fluido, dove passato e presente si intrecciano in una danza eterna. Canosa, definita dal sindaco Vito Malcangio “una piccola Roma”, è un gioiello dell’archeologia italiana. Situata nella regione della Daunia, questa città fu un crocevia culturale dove convivevano influenze greche, romane e locali. Tra i suoi tesori più celebri si annoverano l’Ipogeo del Cerbero, l’Ipogeo Lagrasta e l’Ipogeo degli Scocchera, complessi monumentali che testimoniano l’abilità tecnica e artistica delle popolazioni antiche. Oltre agli ipogei, Canosa vanta un patrimonio archeologico che include il Battistero di San Giovanni, un esempio unico di architettura paleocristiana, e i resti del tempio dedicato alla dea Minerva. Questi luoghi, insieme ai reperti esposti a Castel Sant’Angelo, raccontano una storia di connessioni culturali e trasformazioni che continua ad affascinare studiosi e appassionati. La mostra, che rimarrà aperta fino al 2 febbraio 2025, non è solo un omaggio al passato, ma un invito a riflettere sul valore della tutela del patrimonio culturale. Ogni reperto esposto è un testimone silenzioso che ci ricorda l’importanza di custodire e tramandare le radici della nostra identità. Come ha sottolineato l’europarlamentare Francesco Ventola, questa esposizione è solo l’inizio di un viaggio che porterà le meraviglie di Canosa in altre città, consolidando il ruolo della cultura come ponte tra passato e presente, tra locale e globale. La scelta di Castel Sant’Angelo come luogo ospitante non è casuale: esso stesso è un simbolo di stratificazione storica, un monumento che unisce in sé epoche e stili, creando un dialogo tra le diverse anime del nostro patrimonio. “Forme e Colori dall’Italia Preromana. Canosa di Puglia” significa intraprendere un viaggio nell’essenza dell’umanità, un viaggio che ci ricorda quanto il passato sia una bussola per orientare il nostro presente e costruire il futuro. Qui il nostro link sulla mostra a Città del Messico.

Categorie: Musica corale

Pompei, Parco Archeologico:” Riapre la Casa della Fontana Piccola”

gbopera - Lun, 18/11/2024 - 23:19
Pompei, Parco Archeologico
RIAPERTURA DELLA CASA DELLA FONTANA PICCOLA
Con la riapertura al pubblico della casa della Fontana Piccola giovedì 21 novembre
, a seguito della conclusione del cantiere di restauro, si inaugura la nuova stagione dell’iniziativa Raccontare i cantieri”. L’iniziativa, alla sua quarta edizione, consentirà ogni giovedì fino al 17 aprile 2025 (alle ore 10,30), ai possessori della MyPompeii Card la visita ai cantieri di valorizzazione e restauro in corso presso i siti del Parco archeologico di Pompei.  Il primo cantiere della Casa della Fontana Piccola sarà illustrato ai visitatori dai funzionari e restauratori del Parco che hanno seguito i lavori, giovedì 21 novembre a partire dalle ore 10,30. Collocata in una posizione importante lungo Via di Mercurio, la casa è organizzata in modo tale che sin dall’ingresso sia possibile scorgere la splendida fontana che decora il giardino della parte posteriore, e intuire l’elevato stato sociale del proprietario. La preziosa fontana è rivestita di mosaici colorati e conchiglie ed è ornata dalla statua bronzea di un pescatore e di un Amorino (esposti in copia). Tutto intorno, le pareti laterali del peristilio sono affrescate con grandi vedute di paesaggio eseguite pochi anni prima dell’eruzione, tra cui notevole è la rappresentazione di una città marittima, tema molto in voga nelle rappresentazioni dell’epoca e particolarmente adatto alla decorazione di giardini. Le coperture in cemento dei due atri, riposizionate all’altezza originaria, risalgono ad un restauro del 1971 e restituiscono la percezione della volumetria antica dell’abitazione. La casa è stata oggetto di interventi di manutenzione straordinaria delle coperture. Tra le principali operazioni condotte, spicca il rinforzo strutturale delle travi in calcestruzzo dell’atrio principale, effettuato con l’impiego di materiali FRP, insieme alla completa sostituzione del suo manto di copertura. Un’attenzione particolare è stata dedicata alla revisione della copertura del peristilio, per garantire una protezione ottimale dagli agenti atmosferici, e all’impermeabilizzazione di tutti i solai piani, intervento fondamentale per prevenire infiltrazioni d’acqua che potrebbero danneggiare le strutture storiche. Inoltre, è stata effettuata la messa in sicurezza degli apparati decorativi del peristilio, preservandone l’integrità e la bellezza. Questo ciclo di lavori è stato completato dal restauro dei blocchi in muratura della facciata della Fontana Grande, domus adiacente alla Fontana Piccola, intervento complesso per la movimentazione dei singoli blocchi, e testimonianza del continuo impegno del Parco nella salvaguardia e nella valorizzazione del patrimonio storico di Pompei. L’iniziativa “Raccontare i cantieri” fino al 17 aprile 2025, consentirà di conoscere 20 cantieri del sito di Pompei e del sito di Oplontis. Dalla Casa della Fontana Piccola allo Scavo IX-10, dalla Casa dell’Atrio all’Insula Occidentalis. E poi, ancora, le Terme del Foro, l’Insula Meridionalis, la Necropoli di Porta Stabia, l’Insula dei Casti Amanti, il cantiere di Civita Giuliana, la Casa di Leda, i Granai del Foro, la casa di Cesio Blando, la casa di Giulio Polibio a vari altri cantieri. Un’occasione per conoscere la delicata e al tempo stesso complessa attività di scavo, di messa in sicurezza, restauro e manutenzione, attraverso il racconto e la visione in diretta degli esperti sul campo – archeologi, architetti, restauratori e ingegneri. Ma anche un’occasione di poter fruire in anteprima assoluta di dimore di eccezionale pregio e raffinatezza o di straordinaria condizione di ritrovamento . L’iniziativa è organizzata dall’ufficio Tecnico del Parco.  Tutti i possessori della MyPompeii Card o i nuovi acquirenti potranno prenotare la visita prescelta, secondo il seguente calendario, al seguente indirizzo mail: mypompeiicard@cultura.gov.it  Le prenotazioni dovranno pervenire almeno un giorno prima rispetto alla data prescelta, ed entro le ore 14.00.  I gruppi di visitatori dovranno essere costituiti da un massimo di 20 persone per turno.
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Napoli, Teatro San Carlo: “Respiro/ Breath”. La stagione 2024 – 2025.

gbopera - Lun, 18/11/2024 - 21:33

Napoli, Teatro San Carlo
RESPIRO/ BREATH
LA STAGIONE 2024 – 2025
Dodici titoli operistici, quattro balletti e ventuno concerti, insieme alla quarta edizione del Festival Pianistico e della rassegna di Musica da Camera: il Teatro di San Carlo presenta “Respiro / Breath”, la Stagione 2024-2025 che inaugura mercoledì 20 novembre 2024 con Rusalka di Antonín Dvořák per la regia di Dmitri Tcherniakov, al suo debutto al Lirico di Napoli. Sul podio il direttore musicale Dan Ettinger. Respiro / Breath è il claim individuato per questa stagione, un invito alla riflessione, a “prendere fiato” – come in musica – e ascoltare il canto del silenzio prima di diventare suono. Respiro / Breath è la possibilità di acquisire una sempre maggiore consapevolezza nel quotidiano, un segno leggero nel flusso del tempo che scorre, la forza indelebile, quanto evanescente, dell’arte che genera il soffio della vita. È il respiro dell’essere umano che duetta col respiro della terra, a tutela della quale bisogna operare adottando importanti azioni di salvaguardia ambientale; è il respiro del mare, dimensione vitale la cui biodiversità è soggetta a continue minacce. A partire dall’opera inaugurale Rusalka, i cui universi hanno ispirato queste e altre suggestioni, la nuova Stagione del Teatro di San Carlo desidera essere un respiro di pace come forte auspicio per il presente. La Stagione d’Opera vedrà per la prima volta al Lirico napoletano non soltanto Tcherniakov, ma con lui vi debuttano in veste di regista Stéphane Braunschweig, Giorgia Guerra e Daniel Jeanneteau. Tornano Hugo De Ana, Edoardo De Angelis, Massimo Gasparon, Claus Guth, Damiano Michieletto, Jetske Mijnssen e Manfred Schweigkofler. Nel cast vocale dei titoli in cartellone, invece, risaltano i nomi di Alessio Arduini, Gábor Bretz, Gianluca Buratto, Javier Camarena, Marianne Crebassa, Luciano Ganci, Ruzil Gatin, Asmik Grigorian, Ekaterina Gubanova, Jonas Kaufmann, Emily Magee, Roberta Mantegna, Ricarda Merbeth, Beate Mordal, Martin Muehle, Brian Mulligan, Anna Netrebko, Ernesto Petti, Anna Pirozzi, Piero Pretti, Anna Prohaska, Anita Rachvelishvili, Sondra Radvanovsky, Alberto Robert, Cameron Shahbazi, Nadine Sierra, Adam Smith, Annalisa Stroppa, Ludovic Tézier, Alexander Tsymbalyuk, Christian Van Horn, Gabriele Viviani, Charles Workman, Pretty Yende. La Stagione di Danza apre con Lo Schiaccianoci di Čajkovskij, per il quale si presenta una nuova coreografia curata da Simone Valastro. Chiuderà Giselle di Adolphe Adam, con un omaggio a Patricia Ruanne, di cui si riproporrà la coreografia. Tre titoli operistici vedranno impegnato il direttore musicale Dan Ettinger, a sua volta protagonista di quattro appuntamenti della Stagione di Concerti. In questa, il Teatro di San Carlo accoglierà il ritorno di grandi direttori quali Marco Armiliato, Renaud Capuçon, Michele Mariotti, Pablo Mielgo e Constantin Trinks. Per la prima volta al Lirico di Napoli, invece, saranno sul podio Constantinos Carydis, Oksana Lyniv e George Petrou. Una particolare attenzione è dedicata alle grandi voci della lirica contemporanea con, in calendario, i recital di Franco Fagioli, Rosa Feola, Elīna Garanča, Asmik Grigorian, Lisette Oropesa e Luca Salsi mentre, in concerto con l’Orchestra del Teatro di San Carlo, vi saranno Maria Agresta ed Ekaterina Gubanova. Numerosi sono i debutti anche per i solisti che condivideranno il palcoscenico con la compagine orchestrale sancarliana: Truls Mørk al violoncello, Simone Lamsma al violino, Sergei Babayan, Marc-André Hamelin e Juan Pérez Floristán al pianoforte. Quattro debutti anche per i quattro appuntamenti del Festival Pianistico: Daniil Trifonov, Jean-Paul Gasparian, Igor Levit ed Elena Bashkirova. QUI PER TUTTE LE INFORMAZIONI.

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Napoli, Teatro San Carlo: “Rusalka” dal 20 novembre al 10 dicembre 2024

gbopera - Lun, 18/11/2024 - 21:08

Napoli, Teatro San Carlo
Inaugurazione Stagione d’Opera 2024/25
RUSALKA
di Antonín Dvořák
firmata da Dmitri Tcherniakov
diretta da Dan Ettinger
Nel cast vocale Asmik Grigorian, Adam Smith, Ekaterina Gubanova e Anita Rachvelishvili
È Rusalka, la fiaba lirica di Antonín Dvořák, a inaugurare la Stagione 2024-2025 del Teatro di San Carlo.Il sipario si alzerà mercoledì 20 novembre alle ore 20:00 sulla nuova produzione per la regia di Dmitri Tcherniakov, per la prima volta al Lirico napoletano. La direzione è affidata al direttore musicale Dan Ettinger, sul podio alla guida di Orchestra e Coro del Teatro San Carlo, quest’ultimo preparato da Fabrizio Cassi. Come di consueto per ogni sua produzione, Dmitri Tcherniakov firma, per Rusalka, anche la scenografia. I costumi sono di Elena Zaytseva, le luci di Gleb Filshtinsky. Video Designer è Alexej Poluboyarinov con Maria Kalatozishvili come Lead Animation Artist. La drammaturgia è di Tatiana Werestschagina. Un cast internazionale vede in primo piano Asmik Grigorian nel ruolo del titolo. è una Rusalka che segna il debutto sul palcoscenico del Teatro San Carlo non solo per il soprano lituano, ma anche per Adam Smith, che dà voce e volto al Principe. Ekaterina Gubanova sarà La Principessa Straniera, Anita Rachvelishvili Ježibaba. Interpreta Vodník Gabor Bretz. Peter Hoare e Maria Riccarda Wesseling vestiranno i panni del Guardiacaccia e dello Sguattero, che nella inedita visione del regista saranno rispettivamente il Padre e la Madre di Rusalka. Completano il cast vocale le tre Ninfe del Bosco, Julietta Aleksanyan, Iulia Maria Dan e Valentina Pluzhnikova, con Andrey Zhilikhovsky nel ruolo del Cacciatore. Tra i più rinomati registi d’opera della scena contemporanea, Tcherniakov ha ricevuto nel corso della sua carriera numerosi riconoscimenti a livello internazionale. Tra gli altri, vince nel 2008 il Premio della Critica Musicale Franco Abbiati e nel 2014 il Premio Lírico Campoamor. Nella sua rilettura, l’opera sarà lontana dal suo immaginario fiabesco: Lo scopo è di avere una Rusalka diversa, non una Rusalka da fiaba, ma una Rusalka vera” – afferma. “Quando andiamo in teatro deve esserci sempre una scossa elettrica e per questo prendo molto sul serio Rusalka. Che sia una fiaba lo sappiamo tutti. Ma a cosa serve portare in scena un’altra volta una fiaba per far vedere allo spettatore ciò che sa già? È inutile. Importante è invece decifrare quello che cela, il suo segreto.” Prosegue: “La passionalità e complessità della musica fanno intendere un complesso ed intrecciato puzzle dei rapporti e conflitti umani. Parleremo proprio di questo. Tutte le situazioni saranno per noi riconoscibili. E racconteremo delle difficoltà di interazioni umane: della paura dell’abbandono, della vergogna, del sacrificio in nome di qualcuno, di una prolungata situazione di abuso, dell’impossibilità di esprimere qualcosa di doloroso, della dipendenza, dello stalking, dell’ossessione amorosa che oltrepassa tutti i limiti.” Il Sovrintendente Stéphane Lissner dichiara: “Per l’Inaugurazione della mia ultima Stagione al Teatro di San Carlo ho voluto Dmitri Tcherniakov, che considero il più importante regista sulla scena della regia lirica contemporanea. È da anni che gli propongo questo titolo e la conferma è avvenuta proprio quando Asmik Grigorian ha dato la sua disponibilità al regista: una straordinaria congiuntura artistica ha permesso di costruire questa speciale produzione. Rusalka è un’opera meravigliosa, sia dal punto di vista musicale che drammaturgico e Tcherniakov, con la sua rilettura, la arricchisce di uno sguardo inedito per la sua abilità nel trasporre personaggi e vicende delle opere liriche nel mondo contemporaneo.” È una Rusalka che dialoga in maniera speciale anche con la città di Napoli. Una delle immagini create appositamente dai videoartisti per questa produzione ha invaso le strade di Napoli attraverso le opere di Trisha, artista di strada. E su questo progetto di comunicazione, che connette arte e città, la Direttrice Generale Emmanuela Spedaliere afferma: “L’immaginario di Rusalka, che richiama il tema del mito acquatico e della leggenda, è perfettamente in sintonia con il legame storico della città con la figura di Parthenope, la sirena simbolo di Napoli. La sua leggenda continua a essere un’ispirazione per la città e per i suoi abitanti, che celebrano l’unione tra umano e sovrannaturale, tra il reale e l’immaginario. È una fusione che si riflette anche in Rusalka, un’opera che, proprio come la leggenda partenopea, mette in scena il mistero della natura e dell’amore attraverso il destino di una creatura che abita mondi diversi.” QUI PER TUTTE LE INFORMAZIONI.

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Roma, Galleria Borghese: “Poesia e Pittura nel Seicento. Giovan Battista Marino e la meravigliosa passione”

gbopera - Lun, 18/11/2024 - 15:30

Roma, Galleria Borghese
POESIA E PITTURA NEL SEICENTO. GIOVAN BATTISTA MARINO E LA MERAVIGLIOSA PASSIONE
Curata da Emilio Russo, Patrizia Tosini e Andrea Zezza
“Pittore, hai colori, hai la tela e il pennello; ma non perciò dipingi, se il merto ha più cervello”
G.B. Marino
Roma, 18 Novembre 2024
Con la mostra “Poesia e Pittura nel Seicento. Giovan Battista Marino e la meravigliosa passione”, la Galleria Borghese propone un raffinato viaggio che abbraccia le profonde connessioni tra poesia, pittura, sacro e profano, letteratura, arte e potere, immergendosi nel cuore del primo Seicento italiano. Dal 19 novembre 2024 al 9 febbraio 2025, questo inedito percorso espositivo guida i visitatori attraverso un dialogo tra i capolavori della pittura rinascimentale e barocca, da Tiziano a Tintoretto, da Correggio ai Carracci, da Rubens a Poussin, ispirandosi alla “meravigliosa” passione per la pittura del più grande poeta del Seicento, Giovan Battista Marino. Curata da Emilio Russo, Patrizia Tosini e Andrea Zezza, l’esposizione celebra l’età d’oro del Barocco, un periodo durante il quale il rapporto tra poesia e pittura raggiunse il suo apice. Giovan Battista Marino, autore di capolavori come “Adone” (1623) e “La Galeria” (1619), è protagonista di un viaggio artistico e letterario in cui poesia e pittura si fondono, sfidandosi reciprocamente e giocando con riflessi e rimandi simbolici. Marino, noto per la sua abilità di sedurre i lettori con immagini evocative, trasforma l’arte figurativa in versi poetici che descrivono opere reali e immaginarie, creando un continuo scambio tra immagine e parola. La mostra guida i visitatori attraverso questo intricato mondo di riflessi artistici, invitandoli a riscoprire le connessioni profonde tra le arti visive e la letteratura del Seicento. Il poeta, immerso nelle corti e nei circoli intellettuali più prestigiosi dell’epoca – dalla corte di Matteo di Capua a Napoli, alla corte papale di Clemente VIII Aldobrandini a Roma, fino alle corti genovesi di Giovan Carlo Doria e Giovan Vincenzo Imperiali e quella torinese di Carlo Emanuele I – riuscì a intrecciare relazioni con artisti di primo piano come il Cavalier d’Arpino, Bernardo Castello, Caravaggio, Agostino Carracci, Ludovico Cigoli e Palma il Giovane. La figura di Marino, costretto a lasciare l’Italia nel 1615 a causa delle persecuzioni dell’Inquisizione, è centrale nella mostra. Rifugiatosi a Parigi alla corte di Luigi XIII e Maria de’ Medici, Marino vi restò fino al 1623, stringendo rapporti con artisti come Nicolas Poussin, per il quale scrisse una lettera di presentazione destinata a Roma, una sorta di passaggio del testimone tra poesia e pittura che si rinnova nel contesto romano. Questo momento è simbolicamente significativo, in quanto sancisce l’incontro tra la parabola letteraria del poeta e il definitivo approdo del grande pittore francese a Roma, segnando una congiunzione tra le due arti. La Galleria Borghese, con la sua collezione unica di capolavori iniziata dal cardinale Scipione Borghese nei primi decenni del Seicento, offre il contesto ideale per rileggere la figura del poeta e il suo legame con le arti figurative. Le opere esposte, disposte in un allestimento che celebra la teatralità barocca, sono scelte per illustrare il dialogo continuo tra poesia e pittura: un dialogo che è stato non solo simbolico, ma anche profondamente pratico, influenzando la produzione artistica e letteraria del tempo. “La Galeria” di Marino è una testimonianza chiave di questo rapporto. Composta da 624 componimenti poetici, questa raccolta è divisa in sezioni dedicate a pitture, sculture, favole e storie, e rappresenta un omaggio alle arti figurative dell’epoca. Ogni componimento è un viaggio poetico, una descrizione che vuole tradurre l’immagine in parola, esaltando la bellezza delle opere, spesso presenti solo nella mente dell’autore, e trasformandole in un’esperienza estetica per il lettore. La mostra mette in luce proprio questa fusione creativa: un gioco continuo di rispecchiamenti tra testi poetici e opere d’arte che ben rappresenta l’ambizione barocca di superare i limiti di ogni singola forma artistica per raggiungere la “meraviglia”. L’allestimento scenografico della Galleria Borghese, fedele allo spirito barocco, accentua il senso di stupore e coinvolgimento estetico, immergendo il visitatore nell’universo artistico di Giovan Battista Marino. La “meravigliosa passione” di Marino per l’arte figurativa non era solo un esercizio intellettuale, ma un vero e proprio modo di vivere e sentire l’arte, in cui la poesia diveniva uno strumento per esaltare la pittura e la pittura si nutriva del linguaggio poetico per acquisire nuovi significati e profondità. La mostra è quindi non solo un omaggio a Marino, ma anche un’esplorazione del Barocco come epoca di meraviglia, in cui l’arte figurativa e la letteratura si compenetrano a vicenda. Attraverso il percorso espositivo, i visitatori possono osservare opere di artisti come Tiziano, Tintoretto, Rubens e Poussin, messe in relazione con i versi di Marino, in un dialogo che restituisce il senso di stupore e di bellezza tipico del Seicento. Ogni sala della mostra rappresenta un capitolo di questa narrazione intrecciata, una finestra aperta su un’epoca in cui l’arte non conosceva confini tra i generi e la poesia poteva diventare pittura, e viceversa. “Poesia e Pittura nel Seicento. Giovan Battista Marino e la meravigliosa passione” è un invito a esplorare le meraviglie di un’epoca in cui le arti vivevano in simbiosi, e a riscoprire l’eredità di un poeta capace di elevare la parola al livello dell’immagine, creando un connubio inscindibile tra letteratura e arte figurativa. La Galleria Borghese, con la sua atmosfera unica e la sua straordinaria collezione, rappresenta il luogo perfetto per rivivere questa stagione d’oro dell’arte italiana, offrendo al pubblico un’occasione preziosa per entrare in contatto con la “meraviglia” barocca e con l’eredità di uno dei più grandi poeti e intellettuali del Seicento.

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Roma, MAXXI: “Bvlgari Prize 2024” dal 25 ottobre al 02 marzo 2025

gbopera - Dom, 17/11/2024 - 20:43

Roma, MAXXI
BVLGARI PRIZE 2024
Nel panorama dell’arte contemporanea, ogni iniziativa che si propone di mettere in dialogo la creatività emergente con istituzioni consolidate costituisce un evento che va oltre la mera celebrazione estetica. Il MAXXI BVLGARI PRIZE 2024 non fa eccezione. Si presenta come un complesso intreccio di significati, un dispositivo che riflette, plasma e interroga il sistema artistico attuale, esplorando al contempo le tensioni sociali, culturali e tecnologiche del presente. Il premio, con le sue molteplici componenti, si configura non solo come una piattaforma espositiva, ma come un vero e proprio campo di forze semiotiche, dove ogni elemento concorre alla costruzione di un discorso stratificato. Le opere site-specific presentate dai finalisti – Riccardo Benassi, Monia Ben Hamouda e Binta Diaw – costituiscono non tanto una risposta quanto una domanda posta allo spettatore, al sistema dell’arte e alla contemporaneità stessa. Ogni lavoro si inserisce in uno spazio che è sia fisico che simbolico, il Museo MAXXI, il quale, con la sua architettura e il suo ruolo istituzionale, diventa il contesto necessario per un dialogo complesso tra tradizione e innovazione, tra la specificità locale e l’apertura globale. La mostra, a cura di Giulia Ferracci, trova nella sala Gian Ferrari non solo una cornice, ma una cassa di risonanza che amplifica la pluralità di voci rappresentate dai tre artisti. Benassi, nato a Cremona nel 1982, esplora attraverso le sue installazioni il rapporto tra corpo, spazio e tecnologia, sfidando le convenzioni narrative dell’arte visiva. Monia Ben Hamouda, milanese classe 1991, intreccia nella sua ricerca le radici culturali e le identità stratificate, offrendo opere che sono al contempo meditazioni intime e riflessioni universali. Binta Diaw, anch’essa milanese ma di origini senegalesi, nata nel 1995, pone al centro della sua pratica la memoria collettiva, declinata attraverso materiali e forme che evocano una profonda connessione tra presente e passato. Questi tre protagonisti sono stati selezionati da una giuria internazionale che, lungi dall’essere un semplice organo decisionale, rappresenta un mosaico di prospettive critiche e geografie culturali. Composta da personalità di spicco come Francesco Stocchi, Direttore artistico del MAXXI, e Diana Campbell, Direttrice artistica della Samdani Art Foundation, la giuria riflette una visione ampia e inclusiva, capace di cogliere le sfide dell’arte contemporanea su scala globale. È significativo che l’annuncio dei finalisti sia avvenuto a Parigi, presso l’Ambasciata d’Italia: un gesto che non è solo logistico, ma simbolico, sottolineando l’intreccio tra rappresentanza nazionale e vocazione internazionale che caratterizza il premio. Il processo di selezione, rigoroso e articolato, vede il coinvolgimento di figure autorevoli del panorama artistico italiano, le quali, attraverso la loro sensibilità curatoriale, contribuiscono a delineare una mappa delle tendenze più innovative. Tra i nomi spiccano quelli di critici e curatori come Antonia Alampi, Maria Alicata e Martina Angelotti, ciascuno portatore di una visione unica che arricchisce il dialogo complessivo. Questa pluralità di sguardi conferisce al premio una profondità che trascende la dimensione individuale, rendendolo un evento collettivo in cui convergono molteplici narrazioni. Un elemento distintivo di questa edizione è l’introduzione del MAXXI BVLGARI PRIZE for Digital Art, che premia progetti capaci di esplorare i confini tra arte e tecnologia. Roberto Fassone, insignito della menzione speciale per il suo lavoro, rappresenta una voce che indaga i limiti dell’immaginazione e le possibilità offerte dall’intelligenza artificiale, mettendo in discussione le logiche autoreferenziali del sistema artistico. Questa nuova sezione non è solo un ampliamento del premio, ma una riflessione sulla direzione che l’arte potrebbe prendere in un’epoca sempre più dominata dal digitale. Il percorso del premio, che culminerà nel gennaio 2025 con l’annuncio del vincitore, non si esaurisce nella celebrazione di un singolo artista, ma si configura come un processo continuo di negoziazione e scoperta. La possibilità per il pubblico di esprimere una preferenza sull’opera più apprezzata introduce un elemento di partecipazione che sfida la tradizionale distanza tra arte e spettatore. In questo senso, il MAXXI BVLGARI PRIZE diventa anche un esperimento sociale, un campo in cui si ridefinisce il ruolo del visitatore, chiamato non solo a osservare, ma a contribuire attivamente alla costruzione del significato. Nato nel 2001 come Premio per la Giovane Arte, e trasformato nel 2018 grazie al supporto di Bulgari, il premio ha assunto un ruolo centrale nel panorama culturale italiano. Non è solo un trampolino di lancio per giovani talenti, ma un punto di riferimento che documenta e promuove le espressioni più sperimentali e innovative dell’arte contemporanea. Attraverso le sue edizioni, il premio ha costruito un nucleo fondamentale della collezione del MAXXI, contribuendo a definirne l’identità. Ciò che rende il MAXXI BVLGARI PRIZE un fenomeno unico è la sua capacità di intersecare i piani del discorso istituzionale e dell’esplorazione creativa. Le opere selezionate non sono solo oggetti estetici, ma dispositivi che interrogano il presente, esplorandone le contraddizioni e le possibilità. Ogni installazione, ogni progetto digitale, ogni intervento curatoriale diventa un tassello di una narrazione più ampia, che coinvolge non solo gli artisti e i curatori, ma anche il pubblico e il contesto sociale in cui si inseriscono. Il MAXXI BVLGARI PRIZE non è dunque semplicemente una mostra, ma un’esperienza che invita a riflettere sul senso dell’arte e sul suo ruolo nel mondo contemporaneo. Ogni elemento – dall’allestimento al coinvolgimento del pubblico, dalla giuria internazionale alla nuova sezione digitale – contribuisce a creare un discorso stratificato, in cui la bellezza, l’innovazione e la critica convivono in un equilibrio dinamico. È in questo dialogo costante, in questa tensione tra passato e futuro, che risiede la vera essenza del premio, che non si limita a premiare, ma a interrogare, ispirare e trasformare.

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Napoli, Gallerie d’Italia: “Sir William e Lady Hamilton”

gbopera - Dom, 17/11/2024 - 17:32

Napoli, Gallerie d’Italia
SIR WILLIAM E LADY HAMILTON 
a cura di Francesco Leone e Fernando Mazzocca
Napoli accoglie, con lo splendore che le è proprio, una mostra che non si limita a celebrare il passato ma lo trasforma in una narrazione viva e pulsante. “Sir William e Lady Hamilton“, inaugurata alle Gallerie d’Italia di via Toledo il 25 ottobre 2024 e visitabile fino al 2 marzo 2025, è un viaggio raffinato e suggestivo nel cuore del Settecento, secolo di grandi scoperte, di estetiche rivoluzioni e di appassionate vicende umane. L’esposizione, curata con maestria da Francesco Leone e Fernando Mazzocca, offre una lettura profonda della figura di Sir William Hamilton, ambasciatore inglese presso la corte di Ferdinando IV di Borbone, e della sua celebre consorte, Lady Emma Hamilton. Napoli, crocevia del Grand Tour e fucina di ispirazioni per artisti, scienziati e intellettuali, fu per Hamilton una patria elettiva, un laboratorio di esperienze che intrecciarono il fascino dell’antico con la modernità nascente. Questa mostra non è solo un tributo al loro lascito culturale, ma una celebrazione del dialogo incessante tra passato e presente, tra mondi apparentemente lontani che si incontrano nell’arte e nella storia. L’allestimento, che si sviluppa attraverso settantotto opere tra dipinti, ceramiche, sculture e manufatti, rivela il respiro internazionale di un progetto ambizioso. Provenienti da collezioni pubbliche e private di grande prestigio – tra cui la Reggia di Caserta, il British Museum, la National Portrait Gallery e il Thyssen-Bornemisza – i capolavori in mostra delineano un ritratto complesso di William Hamilton, figura poliedrica che seppe coniugare diplomazia, scienza, collezionismo e arte. È impossibile non restare affascinati dall’intensità dei ritratti di Lady Emma, dipinti da maestri come George Romney e Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, che ne immortalano la bellezza radiosa e il carisma magnetico. Emma, figura leggendaria per la sua avvenenza e la sua audacia, incarna lo spirito del tempo, un’epoca in cui il mito classico tornava a vivere attraverso il filtro dell’immaginazione moderna. Nei tableaux vivants che la resero celebre presso la corte napoletana e oltre, Lady Hamilton interpretava le dee e le eroine dell’antichità con una teatralità che esaltava il fascino della sua personalità. La mostra esplora anche questa dimensione performativa della sua figura, amplificata da un video della Fondazione Cineteca Italiana che raccoglie rappresentazioni cinematografiche ispirate alla sua storia. Accanto alla dimensione mondana e mitologica, il percorso espositivo illumina l’originalità del collezionismo di Hamilton. La sua raccolta di vasi greci, molti dei quali provenienti da Ercolano e Pompei, non era solo un esercizio estetico, ma una manifestazione di un’intuizione profonda: l’antichità non è un semplice passato, ma un modello capace di dialogare con il presente. La pubblicazione delle Antiquités étrusques, grecques et romaines, magnificamente illustrata e acquerellata, testimonia questa visione. Hamilton, con il contributo dell’erudito Pierre-François Hugues d’Hancarville e, in parte, di Johann Joachim Winckelmann, non intendeva solo documentare, ma ispirare. Le raffinate illustrazioni dei vasi diventarono un riferimento per gli artisti del Neoclassicismo, come John Flaxman e Josiah Wedgwood, i cui lavori dimostrano come la pittura vascolare potesse rivivere attraverso nuovi linguaggi artistici. Ma Hamilton non fu solo un collezionista. La sua curiosità si estendeva alla scienza, in particolare alla vulcanologia, disciplina in cui fu un pioniere. Attraverso le magnifiche illustrazioni dei Campi Phlegraei, realizzate da Pietro Fabris, la mostra rende omaggio alla passione di Hamilton per i vulcani, simboli potenti del dinamismo della natura e dell’irrequietezza dell’animo umano. Queste opere, colorate a mano con straordinaria perizia, non sono solo documenti scientifici, ma vere e proprie opere d’arte, che catturano l’essenza della terra napoletana, dalle eruzioni del Vesuvio ai paesaggi suggestivi delle sue pendici. Il legame di Hamilton con Napoli si intrecciò anche con il fermento artistico dell’epoca. La mostra dedica uno spazio significativo al suo rapporto con pittori come Giovanni Battista Lusieri, Joseph Wright of Derby e Thomas Jones, che trovavano nelle vedute napoletane e nei fenomeni naturali locali una fonte inesauribile di ispirazione. Hamilton, ospitandoli e incoraggiandoli, contribuì a trasformare Napoli in un centro nevralgico per l’arte del paesaggio moderno, un luogo in cui la tradizione del vedutismo si evolveva in una nuova sensibilità estetica, capace di catturare l’atmosfera fugace e la luce mutevole. Non meno affascinante è la dimensione politica e sociale della mostra. Hamilton, con il suo secondo matrimonio, divenne un protagonista della mondanità europea, intrecciando relazioni che spaziavano dal mondo aristocratico a quello intellettuale. La figura di Lady Emma, con il suo spirito libero e la sua relazione con l’ammiraglio Horatio Nelson, aggiunge un elemento di scandalo e leggenda che permea tutta l’esposizione. I ritratti esposti, impregnati di classicismo, non solo celebrano la bellezza di Emma, ma riflettono il ruolo che la donna ebbe come musa e intermediaria culturale. La mostra “Sir William e Lady Hamilton” non si limita a narrare una storia, ma invita a riflettere sul significato stesso della memoria culturale. Napoli, con la sua stratificazione di epoche e civiltà, diventa il luogo ideale per questa celebrazione. Attraverso un allestimento che combina arte, scienza e storia, il visitatore è chiamato non solo a osservare, ma a immergersi in un’esperienza che restituisce l’atmosfera di un’epoca irripetibile. Le Gallerie d’Italia, grazie al sostegno di Intesa Sanpaolo e al dialogo con istituzioni internazionali, si confermano come un polo culturale di eccellenza, capace di portare avanti una visione moderna del museo come spazio vivo, in cui passato e presente si incontrano. Il catalogo della mostra, pubblicato da Skira, arricchisce questa esperienza, offrendo una testimonianza duratura di un progetto che non è solo espositivo, ma profondamente culturale. Così, nell’intreccio tra la dimensione personale di William ed Emma e il loro contributo al panorama artistico e scientifico, la mostra si rivela un’opera corale, un’ode alla bellezza e alla complessità della Napoli del Settecento. Sir William e Lady Hamilton non sono solo personaggi storici, ma simboli di un’epoca in cui l’arte, la scienza e la vita mondana si fondevano in un’unica, luminosa visione del mondo.

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Paestum, Museo Archeologico Nazionale: “Paestum: dalla città romana a oggi”

gbopera - Dom, 17/11/2024 - 14:52

Paestum, Museo Archeologico Nazionale
PAESTUM: DALLA CITTA’ ROMANA A OGGI
La riapertura della Sezione Romana a Paestum rappresenta un evento straordinario, un ponte tra presente e passato che getta nuova luce sulle radici di una città dalla storia complessa e stratificata. Il Parco Archeologico di Paestum, rinomato per le sue grandiose vestigia greche, si rivela nuovamente come un luogo in cui epoche differenti si sovrappongono e si intersecano, generando nuove narrazioni e identità. La Sezione Romana, finalmente restituita al pubblico, testimonia il passaggio del sito dal periodo lucano e greco a quello romano, quando Paestum cambiò volto, accogliendo una nuova popolazione, nuove architetture e nuovi costumi, in un processo di trasformazione che segnò profondamente la storia della città. A venticinque anni dal primo allestimento, ha aperto al pubblico la sezione “Paestum: dalla città romana a oggi” del Museo Archeologico Nazionale di Paestum, intitolata all’archeologo Mario Torelli. La mostra è un viaggio attraverso il tempo, dedicato al racconto della città dalla fondazione romana del 273 a.C. fino al Medioevo, esplorando la religiosità, gli spazi pubblici e privati, e la vita quotidiana attraverso reperti inediti. L’esposizione si sviluppa attraverso incisioni e acquerelli del Grand Tour provenienti dalla collezione della Fondazione Giambattista Vico, per concludersi con documenti e fotografie del XX secolo che illustrano gli scavi e gli studi ancora in corso, restituendo un legame immediato tra romanità e contemporaneità. Il taglio del nastro di questo importante traguardo per i Parchi Archeologici di Paestum e Velia è avvenuto venerdì 15 novembre 2024, alle ore 12. Alla cerimonia di inaugurazione hanno partecipato figure di spicco del panorama culturale italiano: Massimo Osanna, Direttore Generale Musei; Tiziana D’Angelo, Direttrice dei Parchi Archeologici di Paestum e Velia; e Teresa Marino, Funzionario Archeologo dei Parchi. Ha concluso l’intervento Alfonsina Russo, Capo Dipartimento per la Valorizzazione del Patrimonio Culturale. A seguito della cerimonia, si è svolta la visita alla domus del mosaico di Nettuno, offrendo ai presenti l’opportunità di immergersi ulteriormente nelle testimonianze della romanità di Paestum. La Sezione Romana si trova all’interno del Museo Archeologico di Paestum e si distingue per l’accurata esposizione di reperti che documentano l’importante trasformazione della colonia a partire dal 273 a.C., quando Paestum entrò ufficialmente a far parte dell’orbita romana. Tra i reperti più significativi si annoverano frammenti di decorazioni architettoniche, statue, iscrizioni e oggetti di uso quotidiano, che delineano il profilo di una città pienamente integrata nella sfera romana. Paestum, un tempo conosciuta come Poseidonia, assunse un nuovo volto, romano, che si intrecciò con le tradizioni e la cultura greco-lucana, creando un esempio emblematico dell’integrazione culturale che ha caratterizzato la storia del sud della penisola italiana. Una delle caratteristiche più affascinanti della Sezione Romana è la narrazione della monumentalità pubblica e della vita privata, due dimensioni imprescindibili della città romana. Le nuove scoperte comprendono tratti della viabilità romana che attraversava Paestum, nonché i resti delle antiche domus, le abitazioni che raccontano il vissuto di una classe sociale composita, formata da proprietari terrieri di origine romana e popolazioni locali. I mosaici, con i loro motivi geometrici e dettagli floreali, evocano l’atmosfera delle dimore dell’epoca, suggerendo un’estetica del bello che permeava ogni angolo della casa. L’attenzione ai dettagli decorativi riflette il gusto romano per la simmetria e l’equilibrio, creando una continuità tra architettura e vita quotidiana. Di particolare rilevanza è la rappresentazione del foro, l’antica piazza principale che costituiva il cuore pulsante della Paestum romana. Qui, tra il II e il I secolo a.C., vennero edificati i principali edifici pubblici: la basilica, luogo in cui si amministrava la giustizia e si svolgevano le attività economiche, e il tempio, simbolo dell’integrazione delle divinità romane in un contesto già sacralizzato dalla presenza del pantheon greco. La ricostruzione del foro all’interno del museo è estremamente suggestiva, con pannelli illustrativi e modellini che permettono al visitatore di comprendere la trasformazione della topografia urbana e la centralità degli spazi pubblici nella vita della comunità. La riapertura della Sezione Romana è stata accompagnata da un lavoro minuzioso di restauro e riallestimento, che ha riportato alla luce i colori, le forme e la vivacità della città romana. I visitatori possono ammirare non solo i resti materiali, ma anche immergersi in una narrazione che restituisce la quotidianità dell’epoca, grazie all’ausilio di supporti multimediali che rendono l’esperienza più immersiva. Camminando tra le strade lastricate, è possibile intravedere le botteghe aperte lungo le vie principali e percepire l’eco delle voci che animavano il foro. Le ricostruzioni digitali offrono uno sguardo inedito sul modo in cui i Romani adattarono la città al loro stile di vita, con infrastrutture come le terme e le strade ben progettate che facevano di Paestum una città moderna e ben collegata. La nuova Sezione Romana rappresenta anche uno spunto di riflessione sull’importanza della conservazione del patrimonio archeologico e sulla responsabilità collettiva di tutelare la memoria storica. Ogni frammento, ogni iscrizione ci parla non solo di un passato lontano, ma anche della nostra identità culturale, offrendo una chiave di lettura del presente. Paestum non è solo una finestra sul mondo greco, con i suoi templi dorici maestosi e il santuario di Hera, ma è anche un racconto della romanità, del modo in cui Roma seppe assorbire e ridefinire le culture locali, dando vita a un tessuto sociale e culturale ricco e articolato. Come ha osservato Italo Calvino nelle sue “Città invisibili”, ogni città è fatta di stratificazioni, di storie che si sovrappongono e dialogano tra loro, ed è proprio questo dialogo incessante che rende i luoghi affascinanti e degni di essere esplorati e compresi. La Sezione Romana è un invito a scoprire quelle storie, a comprendere come la città, pur cambiando volto e nome, abbia mantenuto una continuità culturale e sociale che giunge fino a noi.  Con la riapertura della Sezione Romana, Paestum non è solo la culla dei templi dorici meglio conservati d’Italia, ma diventa anche una testimonianza eloquente del dialogo tra civiltà, del passaggio dalla cultura greca a quella romana, e di come questo passaggio abbia forgiato l’identità del territorio.

 

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Johann Sebastian Bach (1685-1750): Trio Sonatas for Organ BWV525-530

gbopera - Dom, 17/11/2024 - 08:45

Sonata No.1 in E-flat BWV 525; Sonata No.2 in C minor BWV 526; Sonata No.3 in D minor BWV 527; Sonata No.4 in E minor BWV 528; Sonata No.5 in C BWV 529; Sonata No.6 in G BWV530. Manuel Tomadin (organo). Registrazione: 20 e 21 ottobre 2021 presso Hervormde Gemeente Vollenhove, The Netherlands. T. Time: 79′ 33″ 1 CD Brilliant Classics 96438
Composte tra il 1727 e il 1732 a scopo didattico per il figlio maggiore Wilhelm Friedemann, le Sei sonate in trio per organo di Bach si ispirano alle composizioni per due violini, ma anche per flauto, oboe o altri strumenti e basso continuo. Anzi secondo un’ipotesi, non del tutto verificabile, ma suggestiva e basata sul fatto che il primo movimento della quarta sonata è la trascrizione della sinfonia di apertura della seconda parte della cantata Die Himmel erzählen die Ehre Gott, questi lavori deriverebbero da precedenti composizioni di Bach che, però, non sono attestate. A prescindere dalla loro origine si tratta comunque di piccoli gioielli del genio di Bach che, in questo caso, sfrutta benissimo le possibilità di colore offerte dai due manuali, suscettibili di essere utilizzati con registrazioni diverse, e del pedale dell’organo per creare dei trii particolarmente elaborati anche sul piano contrappuntistico. Ad interpretarle in modo impeccabile, con senso dello stile e con grande attenzione alla polifonia costitutiva di questi lavori è Manuel Tomadin che si avvale dell’organo della Hervormde Gemeente Vollenhove, del quale sfrutta le possibilità timbriche attraverso una registrazione adeguata a queste composizioni, di cui si rende conto nell’esaustivo, sebbene sintetico, Booklet.

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Le Cantate di Johann Sebastian Bach: Venticinquesima Domenica dopo la Trinità

gbopera - Dom, 17/11/2024 - 00:27

La seconda e ultima Cantata per la venticinquesima Domenica dopo la Trinità è Du Friedefürst, Herr Jesu Christ BWV 116 eseguita la prima volta a Lipsia il 26 novembre 1724. A caratterizzare questa Cantata è lo stile concertante del brano iniziale, con il primo violino  che emerge su una articolazione  del discorso vocale ben differenziata nell’intonare i primi 2 versetti del Corale di Jakob Ebert alla base di questa partitura che viene esposto dai soprani con il rinforzo di un corno a valori larghi e dal quale si distacca autonomamente. I versetti 3 e 4 sono invece in stile mottettistico, polifonico, con le parti strumentali che raddoppiano quelle vocali. Nei versetti 5 e 6 si instaura invece una sorta di condotta dialogica tra la linea di canto del soprano e le altre voci che si inseriscono a contrasto tra le maglie delle melodia con valori larghi, al “superior”, mentre gli strumenti hanno una funzione autonoma. L’ultimo versetto, il nr.7 ripropone lo stile già adottato nella coppia iniziale. e quelli interni.  Subito nella delicata aria per contralto (Nr.2) che segue il coro iniziale la scrittura è cromatica e angosciosa. La voce è accompagnata da una linea di oboe d’amore di carattere completamente diverso da quello spesso assegnato da Bach a questo strumento. Dopo il recitativo  (Nr.3) c’è un rarissimo esempio di terzetto per soprano, tenore e basso, con il solo supporto del Continuo. Nelle Cantate sacre gli esempi di terzetto vocale sono solo 2. 
Nr.1 – Coro
Principe della pace, Signore Gesù Cristo,
vero uomo e vero Dio,
vero soccorso nel bisogno,
nella vita e nella morte.
Dunque solamente
nel tuo nome
possiamo invocare tuo Padre.
Nr.2 – Aria (Contralto)
Ah, indicibile è la nostra sofferenza
e la minaccia di un furioso giudizio!
Siamo appena capaci, nella nostra angoscia,
di invocare Dio nel tuo nome,
come tu stesso, o Gesù, ci chiedi.
Nr.3 – Recitativo (Tenore)
Ah, non farci sanguinare troppo
sotto le frustate delle verghe!
O Dio, tu che sei un Dio di ordine, 
tu sai quanta crudeltà e ingiustizia
c’è nella collera dell’avversario.
Allora stendi la tua mano
su questo paese impaurito e tormentato,
essa può vincere la potenza del nemico
e portarci una pace durevole!
Nr.4 – Terzetto (Soprano, Tenore, Basso)
Ah, riconosciamo la nostra colpa,
chiediamo solo la tua pazienza
ed il tuo amore incommensurabile.
Il tuo cuore misericordioso si è spezzato
quando il dolore di coloro che sono caduti
ti ha condotto a noi nel mondo.
Nr.5 – Recitativo (Contralto)
Ah, non farci sanguinare troppo
sotto le frustate delle verghe!
O Dio, tu che sei un Dio di ordine, 
tu sai quanta crudeltà e ingiustizia
c’è nella collera dell’avversario.
Allora stendi la tua mano
su questo paese impaurito e tormentato,
essa può vincere la potenza del nemico
e portarci una pace durevole!
Nr.6 – Corale
Illumina i nostri cuori e le nostre menti
con lo spirito della tua grazia,
affinchè non ci comportiamo con leggerezza
danneggiando le nostre anime.
O Gesù Cristo,
tu solo puoi compierlo.
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Du Friedefürst, Herr Jesu Christ” BWV 116

 

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Roma, Teatro Sala Umberto: “Azzurro”

gbopera - Dom, 17/11/2024 - 00:01

Roma, Teatro Sala Umberto
AZZURRO
tratto dal libro “Azzurro, stralci di vita” di CURZIO MALTESE
con SERGIO COLICCHIO (il pianista)
musiche NICOLA PIOVANI 
luci DANILO FACCO
costumi ARABELLA BETTAZZI 
coordinamento artistico NORMA MARTELLI
voci registrate Federico Baudino, Irene Colicchio, Carmen Giardina
elaborazione suoni Lorenzo Gardena
direttore di produzione Rosi Tranfaglia
produzione Viola Produzioni – Centro di produzione teatrale
Roma, 15 novembre 2024
“Azzurro” è uno spettacolo che affascina e coinvolge il pubblico, trasportandolo nelle vicende personali e professionali di Curzio Maltese, una figura poliedrica del panorama italiano. Interpretato con maestria da Antonio Catania, questo atto unico si ispira all’ultimo libro di Maltese “Azzurro. Stralci di vita” ed è frutto della penna di Paola Ponti, con la regia di Carmen Giardina.  Le musiche originali, composte dal premio Oscar Nicola Piovani ed eseguite dal vivo da Sergio Colicchio, donano un ulteriore strato di profondità emotiva e contribuiscono a sottolineare i momenti più intensi della narrazione. La scenografia, essenziale e suggestiva, è dominata da un’insegna al neon con la scritta “Azzurro” posta al centro in alto. Tre poltrone centrali e uno schermo sullo sfondo creano l’impressione di trovarsi in una sala cinematografica. Una scrivania con un moderno computer completa l’ambiente, suggerendo il luogo in cui Curzio Maltese riflette e rivive le sue esperienze. In questo spazio, Curzio diventa anch’egli spettatore della propria esistenza, mentre diverse proiezioni di filmati, che sembrano vecchie registrazioni, lo accompagnano nel suo racconto; sono le voci registrate di Federico Baudino, Irene Colicchio e Carmen Giardina che contribuiscono ancora di più a rendere tangibile il confine tra memoria e realtà. Sul lato destro del palco, un pianoforte accompagna i momenti salienti, mentre l’apertura affidata alle note di un carillon trasporta immediatamente gli spettatori nell’intimità dei suoi ricordi. L’entrata e l’uscita del protagonista, orchestrate con precisione, contribuiscono a creare un sottile gioco di assenza e presenza, simbolo degli sprazzi di vita narrati e ri-vissuti. Gli abiti, di Arabella Bettazzi, caratterizzano il protagonista nella sua essenza. La scelta di un semplice abito da uomo, con la giacca che viene indossata e tolta in momenti chiave. Gesti che riflettono la routine e la resilienza di un uomo che porta con sé il peso della sua storia, invitando il pubblico a partecipare a questa esperienza vissuta con autenticità. La narrazione si sviluppa con maestria, intrecciando il vissuto personale di Curzio con gli eventi storici e politici che hanno segnato l’Italia, creando un percorso ricco di memorie, emozioni e riflessioni. L’interpretazione di Curzio evoca incontri straordinari con figure iconiche come Roman Polanski e Sharon Tate, mentre ricorda anche i grandi protagonisti della scena culturale italiana, da Mariangela Melato a Giorgio Armani e Carla Fracci. Un potente rimando al “Macbeth” di Shakespeare, simbolo delle battaglie interiori, viene abilmente inserito nella trama, stabilendo un parallelo tra le turbolenze del protagonista e del suo tempo. Tra gli eventi storici trattati, la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 emerge come uno dei momenti più traumatici, che ha inciso profondamente sulla sua coscienza collettiva e del paese. L’ingresso di Silvio Berlusconi nel panorama politico, invece, è analizzato con uno sguardo critico, da giornalista, e allo stesso tempo ironico, evidenziando l’impatto che la sua ascesa ha avuto sui media e sull’intero assetto sociopolitico dell’Italia contemporanea. La musica riveste un ruolo fondamentale, attraversando e arricchendo ogni momento dello spettacolo. Curzio canta le canzoni che hanno segnato la sua crescita, come “Azzurro” di Paolo Conte e Vito Pallavicini, o “L’Internazionale”, simbolo di speranza e lotta collettiva. Questi brani, insieme ad altri, fanno parte dell’archivio intimo della sua memoria. La musica, insieme agli oggetti scenici, si intreccia con i suoi ricordi e le sue esperienze, creando un tessuto emotivo che rende lo spettacolo autenticamente umano e condiviso. Tali frammenti disegnano il ritratto di un uomo e danno vita a un affresco collettivo di un’epoca vibrante, segnata da passioni, contraddizioni e cambiamenti. Le luci, curate da Danilo Facco, si fondono perfettamente con la musica, amplificando l’intensità emotiva e avvolgendo gli spettatori in un’atmosfera intima. Gli oggetti scenici, come una valigia, una palla da gioco e una macchinina rossa, non sono semplici elementi di scena, ma simboli di amicizie, viaggi e ricordi lontani. Rappresentano frammenti dell’archivio personale di Curzio, evocando una profonda nostalgia. Quegli oggetti diventano preziosi grazie ai ricordi.  Antonio Catania, con la sua interpretazione magistrale, conferisce al personaggio un equilibrio perfetto tra ironia e profondità, dando vita a una figura ricca di sfumature emotive. Le sue pause ponderate e le modulazioni vocali fanno sì che ogni ricordo diventi un momento di coinvolgimento, invitando il pubblico a condividere quel viaggio emotivo. E le osservazioni pungenti servono come monito: “La democrazia, se svuotata, apre la strada alla dittatura”. “Azzurro”, prodotto da Viola Produzioni – Centro di produzione teatrale, è un tributo alla memoria e alla potenza delle parole. “Noi siamo fatti di parole. Ed io le parole le ho perse” è la frase emblematica che ha racchiuso l’essenza dello spettacolo. L’importanza delle parole, non solo per raccontare, ma per vivere e ricordare la vita di un grande uomo. Tra momenti di intensa commozione e sprazzi di leggerezza, lo spettacolo rappresenta la vita con autenticità e complessità.  Antonio Catania, con la sua straordinaria interpretazione, regala al pubblico un ritratto vibrante e universale dell’esistenza umana, capace di farci ridere e commuovere, rendendoci spettatori dei nostri stessi ricordi e delle somiglianze che ci uniscono come esseri umani. E, in tutto questo, ci ricorda che è la bellezza che spesso ci salva.

 

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Milano accoglie la meditazione nelle sue strade: l’arte pubblica diventa introspezione collettiva con URBAN PROJECT di The Prism

gbopera - Sab, 16/11/2024 - 17:22

Milano
URBAN PROJECT
progetto artistico ideato da Stefano Simontacchi
curato da Marco Senaldi
The Prism, progetto artistico ideato da Stefano Simontacchi e curato da Marco Senaldi, presenta URBAN PROJECT, un’esperienza immersiva di meditazione a cielo aperto che attraverserà il cuore della città per due settimane. L’iniziativa prende vita in Piazza San Fedele questo fine settimana (16-17 novembre) e continuerà fino al 1° dicembre coinvolgendo altre cinque zone di Milano: Porta Lodovica, Corso Como, San Babila, Buenos Aires, e Via de Amicis. L’arte di The Prism si trasferisce sugli imponenti ledwall metropolitani, offrendo un invito a guardare in alto, a prendere un momento per respirare davvero e a riconnettersi con sé stessi. Una proposta unica che rende la meditazione accessibile a tutti nelle vie di Milano, trasformando l’arte pubblica in un’esperienza tanto intima quanto collettiva. “URBAN PROJECT” rappresenta un’opportunità inedita: l’arte di The Prism, nota per i suoi portali energetici, viene amplificata in dimensioni monumentali per regalare ai cittadini uno spazio di introspezione e crescita personale, direttamente nei centri nevralgici della città. Il percorso di meditazione prende il nome di THE PRISM WAY, strutturato in sette passi che guidano verso una maggiore consapevolezza e armonia interiore. Tramite un QR code proiettato insieme alle opere, ogni persona può accedere a meditazioni guidate dalla voce dell’artista, scoprendo un viaggio di trasformazione profonda attraverso sette portali energetici, ognuno rappresentante una diversa tappa del percorso. Stefano Simontacchi descrive THE PRISM WAY come un manifesto di trasformazione: “È un invito a guardare oltre l’apparenza e ad ascoltare quella voce interiore troppo spesso dimenticata. Il percorso inizia con la scoperta del proprio scopo e la definizione di una visione chiara, fino alla manifestazione delle intenzioni con amore, passando per la presa di decisioni consapevoli e arrivando ad agire con determinazione, sempre con gratitudine verso la vita.” Il progetto è reso possibile grazie al supporto del mecenate Vincenzo Acone e della sua azienda Acone Associati, leader nelle sponsorizzazioni pubblicitarie per il restauro di edifici e monumenti. Acone Associati ha messo a disposizione non solo il ledwall di Piazza San Fedele per l’intero weekend del lancio, ma anche altri grandi impianti pubblicitari nelle aree strategiche di Milano fino al 1° dicembre, garantendo così oltre un milione e mezzo di contatti visivi. Il curatore Marco Senaldi spiega l’unicità dell’iniziativa: “L’arte contemporanea ha sempre cercato di uscire dagli spazi tradizionali, come musei o gallerie, ma URBAN PROJECT va oltre l’uso degli spazi pubblicitari urbani: non è soltanto una questione estetica. Qui si recupera una pratica sciamanica in cui forme, colori, suoni e parole diventano vibrazioni in grado di generare una risonanza energetica, sia individuale che collettiva. L’intento è tornare a concepire l’arte come un dono al servizio dell’uomo, capace di offrire una vera guarigione dell’anima, per tornare a vivere ed esistere nella piena consapevolezza del Sé.” Nella frenesia della vita quotidiana, URBAN PROJECT offre un’opportunità rara per fermarsi e guardarsi dentro, un atto rivoluzionario che restituisce valore al singolo individuo all’interno della collettività urbana. Il progetto porta i portali emozionali di The Prism fuori dal The Prism Core Center, inaugurato nel marzo 2024 in Piazza Napoli 22 a Milano, per incontrare le persone là dove vivono la loro quotidianità. Parallelamente all’installazione pubblica, il The Prism Core Center ospiterà workshop e seminari dedicati alla crescita personale e spirituale, in collaborazione con esponenti del benessere olistico. Un modo per approfondire l’esperienza e per scoprire nuove modalità di connessione con sé stessi e con il mondo. The Prism è un progetto di ricerca artistica interattiva che connette il pubblico attraverso portali emozionali e opere luminose, veri e propri varchi per l’indagine spirituale. Dopo essere stato presentato nel 2023 con il percorso “Project Revelation” a Milano, The Prism ha ampliato il proprio raggio d’azione, conquistando anche il pubblico internazionale. Nel maggio 2024, il progetto ha raggiunto il Consolato Generale d’Italia a New York e ha partecipato alla New York Design Week, portando le sue opere iconiche oltreoceano. Stefano Simontacchi, alias The Prism, è una figura di rilievo nel panorama italiano: avvocato di successo e presidente di uno dei più importanti studi legali del paese, è stato insignito dell’onorificenza di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Con The Prism, Simontacchi coniuga la sua lunga esperienza professionale con una profonda crescita spirituale, esplorando lo sciamanesimo e la meditazione come strumenti di trasformazione personale. The Prism è la sintesi del suo percorso interiore, un progetto che vuole offrire al pubblico la possibilità di “vedere” ciò che solitamente sfugge, aprendo la luce in una miriade di sfaccettature e rendendo l’arte uno strumento per l’elevazione interiore e la conoscenza profonda. URBAN PROJECT di The Prism è molto più di una semplice installazione artistica: è un viaggio nella spiritualità, un’esperienza di meditazione collettiva che sfida i ritmi convulsi della città per riconnettere i cittadini con la parte più autentica di sé. Attraverso la potenza visiva e spirituale delle opere di Simontacchi, Milano diventa teatro di una riflessione profonda, un luogo in cui l’arte e la meditazione si fondono per offrire un momento di autentica rigenerazione. Fino al 1° dicembre, Milano è il palcoscenico di un’arte che è allo stesso tempo rifugio e rivelazione, che ci invita a fermarci, respirare e riscoprire la bellezza di essere presenti.

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Roma, Villa Farnesina: ” Il Seicento a Villa Farnesina”

gbopera - Sab, 16/11/2024 - 16:15

Roma, Villa Farnesina
IL SEICENTO A VILLA FARNESINA
Villa Farnesina si rivela ancora una volta come uno scrigno inesauribile di sorprese, capace di riscoprire il dialogo fra le epoche, dove la decorazione pittorica diventa il mezzo per reinterpretare l’incessante stratificazione storica di questo gioiello rinascimentale. La recente scoperta degli affreschi seicenteschi dell’antico soggiorno, emersi in un’intercapedine sopra la volta ottocentesca, offre uno spunto per una rilettura della villa in chiave barocca, illuminando angoli nascosti rimasti celati per secoli. Grazie all’utilizzo di tecnologie digitali avanzate, questi affreschi vengono restituiti allo sguardo del pubblico, attraverso video e immagini curate da Luigi Spina, che ci permettono di sfiorare con lo sguardo il cielo popolato da putti in volo intorno allo stemma Farnese, e di ammirare i delicati paesaggi autunnali ad adornare le lunette. Questa piccola ma preziosa mostra, intitolata “Il Seicento a Villa Farnesina”, diventa una finestra sull’evoluzione iconografica e stilistica della villa, ponendo l’accento sulle reinterpretazioni seicentesche delle celebri decorazioni di Raffaello. La mostra, aperta fino al 12 gennaio, svela infatti come i soggetti iconografici ideati dal maestro di Urbino abbiano continuato a ispirare generazioni di artisti, offrendo uno sguardo sulla fortuna dei suoi temi nella Roma del Seicento. L’iniziativa è frutto di una collaborazione tra Villa Farnesina e Palazzo Farnese, condotta in sinergia con l’École française de Rome, un ente che da quasi 150 anni si impegna nella valorizzazione del patrimonio storico e artistico italiano. Questo progetto si inserisce all’interno di una più ampia strategia di cooperazione culturale che coinvolge anche le celebrazioni per l’anniversario dell’École. Le collaborazioni fra Villa Farnesina e Palazzo Farnese, situati sulle opposte rive del Tevere, rievocano simbolicamente il Ponte di Michelangelo, mai costruito, ma concepito nel 1540 come collegamento ideale tra due delle più importanti residenze storiche di Roma. Questo dialogo architettonico e culturale si fa oggi metafora del tentativo di costruire ponti tra passato e presente, tra luoghi che condividono un’eredità comune e la responsabilità della sua trasmissione. Il progetto vuole essere anche un atto di riscoperta del legame profondo tra le due residenze, simboli di un’eleganza e di una raffinatezza senza tempo. La collaborazione tra l’École française de Rome e Villa Farnesina si inserisce in un contesto più ampio di promozione culturale, volto a rinnovare la percezione e la fruizione di queste meraviglie storiche attraverso nuove tecnologie e narrazioni contemporanee. Questo connubio di storia e innovazione offre al pubblico un’esperienza immersiva, che va oltre la semplice esposizione delle opere, ma si configura come un dialogo aperto con il passato. Grazie alle attività di conservazione e restauro portate avanti dall’Accademia Nazionale dei Lincei e dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, la mostra è riuscita a far emergere nuove prospettive sulla decorazione seicentesca della villa, mettendo in luce l’influenza che lo stile di Raffaello ebbe sulla Roma barocca. I lavori di restauro hanno rivelato dettagli pittorici di straordinaria bellezza, dai cromatismi delicati ai motivi decorativi che adornano la volta e le lunette. Per la prima volta, sei dipinti che si ispirano agli affreschi dell’Urbinate e dei suoi collaboratori sono esposti nella Loggia di Amore e Psiche, due dei quali sono rielaborazioni dei pennacchi dipinti da Giulio Romano, giunti dalle collezioni del Museo e Real Bosco di Capodimonte e attualmente custoditi presso la Camera dei Deputati. Il percorso espositivo include anche opere paradigmatiche del classicismo seicentesco, come le Galatee di Pietro da Cortona e Andrea Sacchi, che accolgono i visitatori nella Loggia di Galatea, dialogando idealmente con l’affresco di Raffaello. La presenza di una copia seicentesca della Galatea, proveniente dall’École française de Rome, aggiunge un ulteriore tassello alla narrazione espositiva, rappresentando la continuità del mito e del linguaggio raffaellesco nei secoli. La mostra diventa così un’occasione per riflettere su come i temi e i modelli raffaelleschi siano stati assimilati e reinterpretati dagli artisti del Seicento, generando un repertorio iconografico che si è arricchito di nuovi significati e suggestioni. L’influenza di Raffaello non si esaurisce nella celebrazione del suo genio, ma si espande nel tempo, diventando patrimonio condiviso e fonte di continua ispirazione. Brigitte Marin, direttrice dell’École française de Rome, sottolinea come questa iniziativa non solo valorizzi le collezioni dell’École, ma testimoni anche l’importanza del legame storico fra l’istituzione francese e il patrimonio artistico italiano. Uno dei quadri esposti, una Galatea seicentesca, ha infatti un valore personale per la Marin, essendo parte del suo ufficio sin dal suo arrivo a Roma nel 2019. Il dipinto, donato all’École nel 1913, rappresenta un frammento di memoria che collega storie personali e istituzionali, oggi riportato alla luce grazie ad un meticoloso lavoro di restauro. La mostra diventa quindi anche un viaggio nelle memorie individuali, che si intrecciano con quelle collettive, creando un tessuto narrativo ricco di significati. L’impegno dell’École française de Rome nel campo della ricerca storica e archeologica, che coinvolge giovani studiosi e personalità del mondo accademico, si riflette in questa mostra, che invita il pubblico a intraprendere un viaggio di bellezza e scoperta attraverso gli affreschi della Villa Farnesina. Ancora una volta, la villa si conferma come luogo di ricerca e valorizzazione culturale, capace di restituire al presente la vitalità del passato. Questa mostra non è solo una celebrazione del Seicento romano, ma un’occasione per ripensare la storia dell’arte come un continuo dialogo, in cui ogni epoca lascia una traccia per la successiva. Il percorso di riscoperta della Villa Farnesina proseguirà anche dopo la conclusione di questa mostra, con nuovi progetti di restauro e valorizzazione, che mirano a riportare alla luce ulteriori tesori nascosti. “Il Seicento a Villa Farnesina” rappresenta un invito a guardare oltre la superficie, a scoprire i legami sottili che uniscono epoche diverse e a lasciarsi ispirare dalla bellezza che ci circonda. La villa, con la sua storia complessa e affascinante, continua a raccontarci storie di artisti, mecenati e studiosi, offrendo un rifugio di meraviglia nel cuore di Roma.

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Napoli, Teatro Bellini: “Tragudia – Il canto di Edipo”

gbopera - Sab, 16/11/2024 - 12:36

Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2024/25
“TRAGÙDIA – IL CANTO DI EDIPO”
Spettacolo di Alessandro Serra
Liberamente ispirato alle opere di Sofocle e ai racconti del mito
Traduzione in lingua grecanica Salvino Nucera
Con: ALESSANDRO BURZOTTA, SALVATORE DRAGO, FRANCESCA GABUCCI, SARA GIANNELLI, JARED MCNEILL, CHIARA MICHELINI, FELICE MONTERVINO
Regia, Scene, Luci, Suoni, Costumi Alessandro Serra
Voci e Canti Bruno de Franceschi
Collaborazione ai Movimenti di Scena Chiara Michelini
Collaborazione al Suono Gup Alcaro
Collaborazione alle Luci Stefano Bardelli
Collaborazione ai Costumi Serena Trevisi Marceddu
Direzione Tecnica e Tecnica del Suono Giorgia Mascia
Direzione di Scena Luca Berettoni
Costruzione Scene Daniele Lepori, Serena Trevisi Marceddu, Loic Francois Hamelin
Produzione Sardegna Teatro, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Due Parma
In collaborazione con Compagnia Teatropersona, I Teatri di Reggio Emilia
Napoli, 13 novembre 2024
Quando Edipo arriva a capire – afferma Pasolini intervistato, nel 1968, da Jon Halliday –, non gli serve più. E non gli serve più capire proprio perché, quando è costretto a fare i conti con la realtà, quando comprende che non è possibile modificare la realtà, preferisce «uscir fuori» da essa; preferisce, cioè, collocare e costringere se stesso in una degradante condizione autopunitiva, quella della cecità. Gli occhi, quando non sanno cercare e osservare la verità, servono a poco. Forse, se Edipo avesse vissuto razionalisticamente, se avesse «affrontato» la realtà (e se l’avesse studiata analiticamente, come un poeta o come un «intellettuale», per dirla ancora con Pasolini), avrebbe anche potuto modificarla. Però, in quel caso, sarebbe stato «accecato» da altri. È una tragedia dal carattere irreversibilmente «pessimistico», perché destinata a un’eterna irresolutezza o a risoluzioni fatalmente drammatiche. Tragùdia – Il canto di Edipo, di Alessandro Serra, è tutto ciò che resta d’un teatro sottratto a se stesso e fatto a pezzi. Il corpo d’un teatro dal carattere «neoavanguardistico»; martire stupendo di una «rivoluzionaria» operazione di squartamento dell’elemento di potere per eccellenza, il linguaggio – parafrasando il filosofo Gilles Deleuze che, in Sovrapposizioni, scrive di «teatro esperimento» in riferimento proprio al «non-teatro» di Carmelo Bene, artefice di un atipico teatro neoavanguardista, anche se quest’etichetta è puramente convenzionale. È, dunque, un teatro d’ispirazione beniana; un teatro linguisticamente «crudele» – determinato, soltanto contenutisticamente, dai testi tragici di Sofocle. Non è un teatro borghese, proprio perché non è una culla consolatoria entro cui poter dormire «beatamente», e non ha pretese moralistiche. È un irrazionalistico momento di «crisi collettiva», i cui sintomi risiedono nella potenza sonora d’un linguaggio antico e «nuovo», morto e vivo, tragicamente brillante e robusto: il grecanico (nella traduzione di Salvino Nucera); una lingua che, ancora oggi, sopravvive in angoli remoti di ciò che fu la Magna Grecia, nel profondo Meridione d’Italia. Un linguaggio stupendamente folclorico, a cui viene consegnata una nuova dignità, sia pure soltanto in termini teatrali. Ma, proprio per questo motivo, la rappresentazione appare come mitizzata, perché gonfia di una vaga sacralità; un linguaggio che, dunque, travalica il senso logico o psicologico delle frasi, e che consente allo spettatore di trovare un senso non nella struttura sintattica del testo, ma nella potenza comunicativa ed espressiva del suono, sia pure apparentemente inafferrabile. Un teatro non costituito da dialoghi canonici o da consuete conversazioni, ma fatto di «monologhi a due, tre o a più voci»: sonorità pure, dal carattere poeticamente popolare, organizzate entro una cornice espressiva ed espressionistica più ampia, entro un affresco collettivo, corale; un affresco non costituito da personaggi, ma da figure, la cui funzione è vigorosamente drammatica. Nel coro, risiede la coscienza del re di Tebe: gli attori agiscono attraverso canti (scritti da Bruno de Franceschi) potentemente vigorosi, immersi in un’atmosfera arcaica e ancestrale. Il tono disperato e primitivo dei canti affligge moralisticamente l’incestuoso e parricida Edipo, costretto a scendere a patti con le sue tremende colpe: figlio-sposo di sua madre, fratello-padre dei suoi figli. Ottimi, dunque, gli attori – avvolti in costumi austeri e severi: Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Chiara Michelini, Felice Montervino. Soltanto Edipo, interpretato da Jared McNeill, appare come il testimone (anzi, come il primo testimone) della nevrotica «disperazione» dell’uomo «contemporaneo» (un riferimento, qui, alle teorie psicoanalitiche freudiane è pressoché scontato, ma fatalmente inevitabile). Ed è per questo motivo che soltanto Edipo, proprio perché già «uomo moderno», può e riesce a staccare se stesso dall’affresco corale, agendo e cantando sotto il segno d’una angoscia realisticamente umana, tra brusche variazioni di tono e momenti di commovente introspezione. Un teatro, dunque, assimilabile alla poetica teatrale del drammaturgo francese Antonin Artaud, il papà del cosiddetto «Teatro della crudeltà», la cui «invivibilità» non è dettata da princìpi sadomasochistici, ma dalla «crudele» operazione di «esemplificazione», a cui il registascenografocostumista, Alessandro Serra, sottopone il contenuto originario della tragedia, inserito in una struttura scenica estremamente stilizzata e nitidamente illuminata (costruita da Daniele Lepori, Serena Trevisi Marceddu e Loic Francois Hamelin). Un rigore matematico e schematicamente geometrico determina le danze e i movimenti dei cantanti-attori: atti teatrali che vanno a comporre un complesso sistema di segni linguistici, inquadrati entro un’astratta struttura sintattica: la potenza comunicativa viene affidata a gesti netti, taglienti e tragicamente asciutti; viene, dunque, affidata a una «scrittura-di-scena»: locuzione «sottratta» alla poetica teatrale di Carmelo Bene – svuotata, qui, però, della sua funzione originaria: in questo caso, la scrittura scenica non determina il linguaggio orale, ma quello gestuale. Linguaggio sostenuto da suoni violenti e drammatici, ideati dal regista medesimo. Un pubblico, attento e commosso, accoglie entusiasticamente questa gemma drammatica del teatro contemporaneo. Foto Alessandro Serra

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Milano, Teatro alla Scala: “Trittico Balanchine / Robbins”

gbopera - Ven, 15/11/2024 - 22:15

Milano, Teatro alla Scala, Stagione 2023/ 24
“TRITTICO BALANCHINE/ ROBBINS”
“THEME AND VARIATIONS”
Coreografie George Balanchine
Musica Pëtr Il’ič Čajkovskij
Coppia principale NICOLETTA MANNI, TIMOFEJ ANDRIJASHENKO
Quattro soliste GAIA ANDREANÒ, CATERINA BIANCHI, CAMILLA CERULLI, LINDA GIUBELLI
Quattro solisti DOMENICO DI CRISTO, EDWARD COOPER, RINALDO VENUTI, ALESSANDRO PAOLONI
Scene e costumi Luisa Spinatelli
Luci Andrea Giretti
“DANCES AT A GATHERING”
Coreografie Jerome Robbins
Musica Fryderyk Chopin
Pink AGNESE DI CLEMENTE
Mauve VITTORIA VALERIO
Apricot CAMILLA CERULLI
Green MARTINA ARDUINO
Blue GIORDANA GRANATA
Brown SAÏD RAMOS PONCE
Purple MARCO AGOSTINO
Green Boy NAVRIN TURNBULL
Brick DOMENICO DI CRISTO
Blue Boy GIOACCHINO STARACE
Pianoforte Leonardo Pierdomenico
Costumi Joe Eula
Luci Jennifer Tipton, riprese da Perry Silvey
“THE CONCERT”
Coreografia Jerome Robbins
Musica Fryderyk Chopin orchestrazione Clare Grundman
The Ballerina CATERINA BIANCHI
The Husband MARCO AGOSTINO
The Wife MARTA GERANI
Shy Boy ALESSANDRO PAOLONI
The Angry Lady ANTONELLA ALBANO
First Man EMANUELE CAZZATO
Second Man MASSIMO DALLA MORA
2 Matinée Ladies REBECCA LUCA, MARTINA MARIN
Usher ANDREA RISSO
Pianoforte Leonardo Pierdomenico
Scene Saul Steinberg
Costumi Irene Sharaff
Luci Jennifer Tipton
Corpo di ballo e Orchestra del Teatro alla Scala di Milano
Direttore Fayçal Karoui
Milano, 13 novembre 2024
Al teatro alla Scala è in cartellone una serata dedicata a due coreografi importanti del Novecento: uno è l’arcinoto George Balanchine, l’altro Jerome Robbins. Gli spettacoli portati in scena sono tre: quello di Balanchine fu rappresentato solo una volta vent’anni fa circa, mentre Robbins è un debutto assoluto sulle scene scaligere nonostante le coreografie risalgano agli anni 50 e 60. Ma procediamo con ordine.Theme and variations di Balanchine è danzato sulla Suite 3 op. 55 di Čajkovskij. Questa coreografia è del 1947, e, nonostante l’amore e la stima che nutriamo per Balanchine, ci ha lasciati abbastanza freddi, non sappiamo se per l’allestimento o se per la coreografia in sé, omaggio dello stile russo a cui Balanchine era legato dalle sue origini (e che ha ulteriormente omaggiato ad esempio in Jewels, vent’anni dopo). Ma puntando tutto sullo stile, forse è stato danzato in maniera troppo algida, maggiori legato avrebbero giovato. Ad ogni modo tutto il corpo di ballo ha danzato in maniera tecnicamente solida, e rileviamo soprattutto Timofej Andrijashenko nella sua variazione. Notiamo anche il primo violino nel suo momento da protagonista nell’undicesima variazione (con una musica già di per sé incantevole). Segue Robbins con Dances at a gathering. Per circa un’ora di spettacolo dieci danzatrici e danzatori si avvicendano sul palco con i loro avvenimenti, manifestando una varietà di sentimenti dai più eterei e quasi melanconici a quelli più spiritosi… e anche se non sappiamo quali siano questi avvenimenti, essi ci hanno incantato. Al suo debutto, nel 1969, Clive Barnes, sulle pagine del New York Times, saluta questa coreografia “una delle serate più significative nel teatro americano dai tempi di O’Neill”, e definendola “onesta come il respiro, aggraziata come il canto di un’allodola e, in un modo molto speciale, più una cosa da vivere che semplicemente un altro balletto da vedere”, suggerendo che si tratta della “visione di un ballerino di Chopin, ma allo stesso modo potrei dire che è la visione di un americano dell’Europa”. Ci ritroviamo anche nella considerazione per cui questa coreografia è una miscela, anzi fusione di elementi di danza classica e popolare. Balanchine paragonò questo spettacolo ai popcorn. Infatti, questa coreografia era stata concepita come più breve, ma Balachine disse a Robbins: “fanne di più, fallo come popcorn”; e ci sembra che paragone più azzeccato non potesse essere fatto. Proprio come i popcorn, i pezzi danzati di questa coreografia, scaldati al fuoco della musica di Chopin, esplodono ciascuno assumendo una propria forma sempre diversa: a un’occhiata veloce d’insieme ci possono sembrare tutti uguali, ma con attenzione ci accorgiamo che sono uno diverso dall’altro: più piccoli, più grandi, più chiusi, più aperti, e ognuno ha una forma diversa dall’altro, con un proprio carattere. E sempre come i popcorn possono provocare forse indigestione, ma se piacciono danno sicuramente piacere! I danzatori sono stati tutti eccellenti tecnicamente, ma notiamo per l’animo soprattutto Agnese Di Clemente, Vittoria Valerio, Navrin Turnbull e Domenico Di Cristo; il giovanissimo Saïd Ramos Ponce è molto promettente, ma ancora un po’ acerbo nei sentimenti. La serata è terminata con The concert, sempre di Robbins, anch’essa alla prima rappresentazione assoluta qui in Scala. Risalente al 1956, quindi tredici anni prima di Dances, è decisamente figlia del suo tempo, ma una figlia ancora in ottima forma. Il pianista è sulla scena, ed è lui il protagonista iniziale, alla maniera di John Cage e del suo celebre 4’33” del 1952: si prepara, pulisce il piano, per i primi minuti fa di tutto tranne che suonare. Poi inizia il concerto, che si trasforma pian piano in una parodia di alcune coreografie che solitamente vengono portate in scena. La risposta del pubblico c’è, si ride, anche grazie al corpo di ballo che spesso ha avuto buoni tempi comici. In un crescendo lo spettacolo si conclude con un improbabile balletto pseudo-romantico che ha per protagoniste delle farfalle, a cui il pianista verso la fine dà la caccia con un enorme retino! Deve essere tutto ciò ad aver fatto scrivere a John Martin, sempre sul New York Times, che questo spettacolo era “una specie di revisione da incubo in cui una serie di personaggi mantiene le stesse relazioni attraverso una sequenza infinita di situazioni diverse. C’è una parodia esilarante del pubblico, e una ancora più ridicola di un ensemble di balletto in conflitto con un ruvido individualismo, che potrebbe essere la sezione migliore. Una lunga serie di vuoti di memoria [dei ballerini ndr] […] un’idea molto divertente, ma potrebbe essere più efficace in uno spettacolo di Broadway”. Noi la pensiamo diversamente, e crediamo che si possa fare in maniera seria una ridicola “revisione da incubo” di alcuni tipi di balletti senza dover per forza confinare i generi in luoghi autorizzati alla messa in scena. Speriamo quindi che questo debutto di Robbins alla Scala abbia un seguito nel repertorio della compagnia.Prossime repliche: 16, 17 e 20 Novembre. Foto Brescia & Amisano

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