Azione tragica in due su libretto di Leone Tottola. Serena Farnocchia (Ermione), Aurora Faggioli (Andromaca), Moisés Marín (Pirro), Patrick Kabongo (Oreste), Chuan Wang (Pilade), Junsung Gabriel Park (Fenicio), Mariana Poltorak (Cleone), Katarzyna Guran (Cefisa), Bartosz Jankowski (Attalo). Kraków Philharmonic Chorus, Marcin Wróbel (maestro del coro), Kraków Philharmonic Orchestra, Antonino Fogliani (direttore). Registrazione. Bad Wildbad. Trinkhalle, 16 e 23 giugno 2023. 2 CD NAXOS
La collaborazione tra la casa editrice Naxos e il festival di Bad Wildbad è ormai rodata e ha fornito anche ottime registrazioni. Questa volta oggetto di pubblicazione è “Ermione” , l’opera seria di Rosini allestita per l’edizione 2022 del festival. “Ermione” è uno dei lavori più originali e al contempo più complessi del pesarese. Quintessenza della tragedia neoclassica da un lato si arricchisce di una cura orchestrale in cui è evidente la conoscenza delle esperienze viennesi e più ampliamente mitteleuropee – qui Rossini comincia a essere quel “tedeschino” che sarà pienamente in “Zelmira”, opera che per molti versi è il compimento di quanto seminato con “Ermione” – dall’altro è il cimento della più estrema vocalità belcantista chiamata a esaltare le doti di una compagnia di fuoriclasse – Colbran, David, Nozzari – spinti fino al limite delle loro possibilità.
Un piccolo festival con possibilità ridotte come quello tedesco compie sicuramente un azzardo non da poco ad allestire un titolo così impegnativa ma bisogna riconoscere che il risultato finale risulta migliore di quanto le premesse lasciassero presagire.
Direttore di lunga esperienza rossiniana e presenta abituale sul podio del festival Antonino Fogliani fornisce una prestazione altalenante. Sicuramente il direttore ha mestiere e riesce a far rendere al meglio e con buon rigore stilistico complessi dignitosi ma di certo non di primissimo livello come quelli della Filarmonica di Cracovia. Non aiuta a riguardo la registrazione che se concede una bella presenza alle voci risulta un poco sorda per quanto riguarda l’orchestra. Lasciamo invece qualche perplessità le scelte agogiche non nei momenti più lirici e distesi, colti nel giusto clima e con belle sonorità, ma in quelli più concitati dove il direttore sembra dominato da una smania di forzare i ritmi rischiando più volte di far scivolare la concitazione drammatica di molti momenti in toni da opera buffa. Si ascoltino le strette così rapide e caricate da perdere di coerenza drammatica sostituita da eccessi sonori e dinamici poco in linea con l’atmosfera generale.
Il cast non può contare su autentiche stelle come quelle per cui vennero pensati i singoli ruoli ma può contare su professionisti volenterosi e attenti che riescono a portare in porto i loro cimenti quasi oltre le loro possibilità. Unica veterana del cast Serena Farnocchia affronta il ruolo della protagonista con una voce solida e sicura, capace di reggere con professionalità una tessitura ampia e non certo agevole. Il timbro non manca di asprezza ma per fortuna il ruolo concede non poco al riguardo specie quando l’interprete può far valere un temperamento ardente e un accento drammatico e intenso. Sul piano prettamente vocale si nota qualche durezza mentre su quello interpretativo la Farnocchia, cantante dal repertorio ecclettico in cui il bel canto non gioco un ruolo centrale, manca un po’ di aplomb stilistica virando il personaggio verso moduli espressivi che saranno dei repertori a venire.
Il congolese Patrick Kabongo ci era parso fuori ruolo nella “Lucie de Lammermoor” bergamasca, qui ci appare più in parte e regge con sicurezza la tessitura acutissima della parte di Oreste. La voce non è grande ma la buona ripresa sonora lo favorisce al riguardo, il timbro piacevole, gli acuti falici e squillanti. La cavatina “Reggia abborrita” è cantata con gusto e in modo più che convincente anche nei passaggi di coloratura in zone acute e nei duetti con Ermione trova anche un interessante accento drammatico. Non può competere con i mostri sacri che hanno in passato affrontato il ruolo ma gli va riconosciuto di uscirne con onore.
La parte di Pirro con la sue tessitura amplissima da autentico baritenore è forse ancor più impegnativa. Il giovane tenore spagnolo Moisés Marin l’affronta con slancio e facendo affidamento su una voce robusta nei centri e timbricamente ben distinta da quella di Kabongo. Gli acuti sono ricchi e svettanti mentre il settore grave non ha sempre la ricchezza di suono che si vorrebbe. La prestazione risulta però più che sufficiente anche sul piano interpretativo dove riesce a trasmettere l’autorità regale del personaggio.
Andromaca è Aurora Faggioli giovane mezzosoprano dal timbro morbido e scuro, assai interessante. Ancora un po’ acerba sul versante espressivo – il ruolo nella sua passivita tende naturalmente a ridursi alla sola dimensione musicale – è però molto musicale e risolve con precisione tutte le difficoltà delle parte.
Tra i ruoli di contorno spicca lo squillante Pilade di Chuan Wang, giovane tenore cinese che avevamo già apprezzato nelle sue esibizioni rossiniane a Novara. Solido ed efficacie il Fenicio di Jungsung Gabriel Park, nel complesso funzionali il Cleone di Mariana Potronak e la Cefisa di Katarzyna Guran, abbastanza sgraziato Bartosz Jakowski come Attalo.
Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia
Miti Greci per Principi Dauni: Una Restituzione di Prestigiosi Reperti Archeologici all’Italia
La diplomazia culturale tra Italia e Germania celebra il ritorno di venticinque reperti di inestimabile valore, restituiti grazie a un’intesa internazionale e alla cooperazione delle più alte istituzioni di tutela del patrimonio culturale.
Roma, 22 novembre 2024
Oggi a Roma, presso il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, si è tenuta l’inaugurazione della mostra “Miti greci per principi dauni”, un evento di altissimo pregio culturale che sancisce la restituzione all’Italia di venticinque reperti archeologici di inestimabile valore. Alla cerimonia, presieduta dal Ministro della Cultura Alessandro Giuli, hanno preso parte eminenti personalità nel campo della tutela e della valorizzazione del patrimonio culturale. Tra questi, la direttrice del Museo, Luana Toniolo; il Direttore generale Musei e curatore della mostra, Massimo Osanna; il Capo Dipartimento per la tutela del patrimonio culturale e co-curatore Luigi La Rocca; il Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Roma, Giovanni Conzo; il Comandante dei Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale, Generale Francesco Gargaro; il Capo Dipartimento per la valorizzazione del patrimonio culturale, Alfonsina Russo, e l’Ambasciatore tedesco in Italia, Lucas Hans-Dieter. La mostra celebra il ritorno di un prestigioso gruppo di vasi apuli e attici a figure rosse, rinvenuti in contesti funerari e rappresentativi delle raffinate tradizioni pittoriche del IV secolo a.C., realizzati da ceramografi di acclamata maestria quali il Pittore di Dario e il Pittore dell’Oltretomba. Tali reperti, originariamente parte delle collezioni dell’Altes Museum di Berlino, sono stati restituiti all’Italia grazie a una sofisticata operazione di diplomazia culturale e di cooperazione giuridica, condotta dal Ministero della Cultura italiano in sinergia con i Carabinieri del Comando Tutela del Patrimonio Culturale. La restituzione è il frutto di un’intesa siglata il 13 giugno scorso tra i Ministeri della Cultura italiano e tedesco, la Fondazione per l’Eredità Culturale della Prussia (SPK) e l’Altes Museum di Berlino. L’accordo si inserisce in una più ampia strategia di contrasto al traffico illecito di beni archeologici, facilitato dalle indagini coordinate dalle Procure della Repubblica di Roma e Foggia. Grazie a tale sinergia, è stato possibile ricostruire le intricate vicende di esportazione illecita che coinvolsero i reperti, inizialmente acquisiti dal noto trafficante d’arte Giacomo Medici e successivamente venduti all’Altes Museum nel 1984, tramite il commerciante di antichità Christopher Leon, per la somma di 3 milioni di marchi. La collezione comprende anche vasi attici e lucani, testimonianze della complessità degli scambi culturali tra la Grecia e le popolazioni indigene della Penisola Italica. Il progetto espositivo – curato da Luigi La Rocca, Massimo Osanna e Luana Toniolo – rappresenta un esempio virtuoso di collaborazione tra istituzioni italiane e tedesche, ed è stato concepito con un allestimento immersivo e didattico, capace di restituire al pubblico la dimensione mitologica delle rappresentazioni figurate, nonché di narrare il contesto rituale e sociale in cui i vasi furono originariamente utilizzati. I materiali dauni, dopo l’esposizione a Villa Giulia, faranno ritorno in Puglia, dove saranno destinati all’istituendo Museo di Foggia presso Palazzo Filiasi, una volta completati i lavori di restauro e adeguamento funzionale in corso, che mirano alla realizzazione di un museo dedicato al contrasto allo scavo clandestino e alla tutela del patrimonio archeologico.
Roma, Teatro Anfitrione
IL FAVOLOSO VIAGGIO
di e con Cinzia Grande e Andrea Lattari
Prod. Maner Manush, Roma
Lo spettacolo Il Favoloso Viaggio racconta la storia e le avventure dei commedianti Isabella Canali e Francesco Andreini, capocomici della Compagnia dei Gelosi, creatori di lazzi, storie, maschere e celebri personaggi: l’Innamorata Isabella e Capitan Spavento da Vall‘Inferna. Nel Rinascimento, attori girovaghi, viaggiando in carovane dall‘Italia in tutta Europa, presentarono nuovi personaggi in maschera.
I comici, attraversando paesi sconosciuti, incontrando differenti popoli e culture, si raccolsero nelle prime Compagnie professionistiche del Teatro, inventando un nuovo linguaggio, in seguito chiamato Commedia dell‘Arte. Francesco Andreini fu uno dei primi drammaturghi del Teatro Moderno e il suo personaggio, Capitano, ispirò attori e scrittori. Isabella Canali, talentuosa attrice e poetessa, incantò un pubblico internazionale, in tempi in cui recitare su un palcoscenico era ancora prerogativa esclusiva degli uomini, rappresentando un‘icona femminile rivoluzionaria. Dalla nascita delle prime compagnie di attori professionisti in Italia, continua il lungo viaggio del Teatro di Maschera sino ad oggi. Il Favoloso Viaggio percorre le tracce delle carovane dei comici, entrando nella vita degli attori, nel loro profondo rapporto con maschere e personaggi. Lo spettacolo mette in scena lazzi, canovacci antichi e originali, raccontando una storia reale e contemporanea di Teatro e attori. Qui per tutte le informazioni.
L’inaugurazione della Stagione d’Opera e di Balletto 2024/2025 del Regio è sabato 23 novembre alle ore 19 con “Le nozze di Figaro” di Wolfgang Amadeus Mozart. Sul podio dell’Orchestra e del Coro del Regio debutta il maestro Leonardo Sini, il Coro del Regio è istruito da Ulisse Trabacchin. I protagonisti sono artisti carismatici e affermati: Vito Priante (già Conte nell’edizione del 2015) e Monica Conesa sono il Conte e la Contessa, Giorgio Caoduro è Figaro, Giulia Semenzato Susanna, Josè Maria Lo Monaco (già apprezzata Rosina sul palcoscenico torinese) è Cherubino. Monica Conesa per indisposizione non potrà prendere parte alle prime due recite e sarà sostituita da Ruzan Mantashyan.
L’allestimento – per la prima volta in Italia – è del Teatro Regio di Torino e si basa sulla produzione originale del Teatro Real di Madrid (2009) in coproduzione con Asociación Bilbaína de Amigos de la Ópera (A.B.A.O.) la regia è di Emilo Sagi con scene di Daniel Bianco e costumi di Renata Schussheim.
Torino e il Teatro Regio si confermano protagonisti della scena culturale, alternando due eventi di spicco: il 22 novembre il Teatro ospiterà l’inaugurazione del Torino Film Festival, collocata tra l’Anteprima Giovani e l’apertura della Stagione d’Opera e di Balletto 2024/2025. Questo connubio tra opera e cinema, già messo in luce con la trilogia Manon, testimonia la stretta collaborazione tra il Regio e il Museo Nazionale del Cinema, valorizzando il dialogo tra le due istituzioni e le rispettive arti.
Nei ruoli dei protagonisti si alternano: Jarrett Ott (il conte d’Almaviva), Kirsten MacKinnon (la contessa d’Almaviva), Christian Federici (Figaro), Martina Russomanno (Susanna), Siphokazi Molteno (Cherubino). Il cast si completa con: Chiara Tirotta (Marcellina), Andrea Concetti/ Giovanni Romeo (Bartolo), Juan José Medina (Basilio), Cristiano Olivieri (Don Curzio), Janusz Nosek (Antonio), Albina Tonkikh (Barbarina), Eugenia Braynova/Caterina Borruso (Prima contadina) e Daniela Valdenassi/Ivana Cravero (Seconda contadina). Molteno, Medina, Nosek, Tonkikh sono Artisti del Regio Ensemble.
Va in scena grazie al sostegno di Italgas, Socio Sostenitore del Teatro Regio di Torino.
Le recite proseguiranno fino al 1 dicembre, in alcune recite sarà attivo Opera Buffet il nuovo servizio al pubblico che permette di gustare un aperitivo in un’area dedicata nel Foyer del Toro. La durata prevista dello spettacolo è di circa tre ore e cinquanta minuti comprensiva degli intervalli.
Tutte le informazioni sono reperibili sul sito del Teatro Regio
https://www.teatroregio.torino.it/opera-e-balletto-2024-2025/le-nozze-di-figaro
Roma, Sala Umberto
“JANNACCI E DINTORNI”
Una storia raccontata e cantata
con Simone Colombari e Max Paiella
Attilio Di Giovanni (pianoforte e direzione musicale), Gino Marinello (chitarra classica ed elettrica), Alberto Botta (batteria e percussioni), Flavio Cangialosi (basso e fisarmonica), Mario Caporilli (tromba e flicorno), Claudio Giusti (sax, tenore e contralto)
Regia di Lorenzo Gioielli
produzione Viola Produzioni – Centro di produzione teatrale | JANDO MUSIC
Roma, 20 Novembre 2024
“Jannacci e dintorni” è molto più di uno spettacolo teatrale. È un omaggio appassionato a Enzo Jannacci, uno dei più grandi cantautori italiani, medico e poeta del quotidiano, scomparso nel 2013. Lo spettacolo, in scena alla Sala Umberto, si snoda attraverso un dialogo continuo tra narrazione, musica e teatro, intrecciando episodi di vita e successi musicali. Con grande maestria, Simone Colombari e Max Paiella raccontano le tappe fondamentali della carriera di Jannacci. Simone Colombari e Max Paiella, accompagnati da un ensemble di straordinari musicisti, guidano il pubblico in un viaggio emozionale e coinvolgente, capace di divertire, commuovere e far riflettere. “Jannacci e dintorni” è costruito come un viaggio nella vita e nell’universo creativo di Jannacci, dagli esordi fino alla piena maturità artistica. Gli spettatori sono trasportati nei luoghi e negli incontri che hanno segnato la carriera del cantautore milanese: dagli inizi con Adriano Celentano, al sodalizio con Giorgio Gaber nel duo “I due corsari”, fino alle collaborazioni con Dario Fo, Cochi e Renato, con Fabrizio De André. Attraverso canzoni iconiche come “El purtava i scarp del tenis”, “Vengo anch’io no tu no”, “Ho visto un re”, emergono la profondità e l’universalità del mondo poetico di Jannacci, capace di raccontare con leggerezza e malinconia la vita degli ultimi e delle persone comuni. Simone Colombari e Max Paiella sono i narratori e gli interpreti di questo omaggio, e la loro alchimia sul palco è palpabile. Insieme riescono a far rivivere il mondo di Jannacci, alternando momenti di pura leggerezza a scene di profonda introspezione. La loro performance trasforma la musica in un racconto e il racconto in un’esperienza teatrale che cattura e commuove. La stessa musica diventa narrazione, viene interpretata perfettamente attraverso la loro performance, attraverso gestualità e voce. L’ensemble diretta da Attilio Di Giovanni è il cuore pulsante dello spettacolo. Con precisione e creatività, i musicisti ricreano l’atmosfera musicale di Jannacci, spaziando dal jazz al rock, senza dimenticare il cabaret e il folk, che hanno caratterizzato il suo stile unico. Attilio Di Giovanni, al pianoforte e alla direzione musicale; Gino Marinello dalla chitarra classica a quella elettrica; Alberto Botta, alla batteria e percussioni, regala momenti di pura energia, tra cui un assolo sorprendente che coinvolge ogni oggetto a portata di mano, trasformando sedie e superfici in strumenti ritmici; Flavio Cangialosi, con il basso e la fisarmonica; Mario Caporilli alla tromba e flicorno e Claudio Giusti ai sassofoni. Un dialogo musicale che oscilla tra delicatezza e potenza. I loro sorrisi, le intromissioni giocose, le smorfie e i piccoli balli diventano parte integrante dello spettacolo, regalando al pubblico un’atmosfera di complicità e gioia. Rende visibile un brano di Jannacci: “Quando un musicista ride è perché sente dentro una gioia vera.” Gli arrangiamenti musicali rendono omaggio anche alle influenze più importanti per Jannacci: il jazz dei suoi inizi, condiviso con Giorgio Gaber, l’ironia pungente ereditata da Dario Fo, e l’intensità poetica che lo avvicinò a Fabrizio De André. Questi incontri, richiamati nei brani e nella narrazione, sottolineano la ricchezza e la complessità del suo universo artistico. Le luci, curate con grande attenzione, alternano tonalità calde e intime per i momenti più riflessivi a colori vivaci e dinamici per i brani più ironici e ritmati. Questa alternanza riflette perfettamente la doppia anima di Jannacci, capace di mescolare sorriso e malinconia in modo unico. La scenografia lascia spazio alla musica e alla narrazione, evocando l’atmosfera di un piccolo cabaret milanese, di un salotto musicale. La regia di Lorenzo Gioielli è precisa e attenta. Ogni momento dello spettacolo è studiato per mantenere vivo il ritmo e l’attenzione del pubblico. Spazio e tempo sono gestiti perfettamente. Gioielli, infatti, riesce a bilanciare perfettamente gli elementi narrativi e musicali, la narrazione diventa un continuum della musica. Lascia spazio alla spontaneità e alla freschezza degli attori, creando un climax emotivo che tiene il pubblico incollato alla sedia per oltre un’ora e mezza. “Jannacci e dintorni” è un viaggio nell’anima dell’Italia, un racconto di storie comuni che diventano poesia, un’ode alla capacità di sorridere anche di fronte alle difficoltà. Enzo Jannacci, con il suo linguaggio universale e il suo sguardo unico sul mondo, è celebrato con rispetto, ironia e affetto. Come diceva lui stesso: “La tristezza è buona quando diventa musica.” Ed è proprio questa alchimia che lo spettacolo riesce a catturare, mescolando teatro, musica e narrazione in un’esperienza che lascia il pubblico con un sorriso, una lacrima e una riflessione nel cuore. “Jannacci e dintorni” è un invito a vivere la vita con leggerezza, a trovare la bellezza nell’assurdo, e a cantare, anche quando piove.
Milano, MTM – Teatro La Cavallerizza
“P COME PENELOPE”
dal 21 al 24/11
Il teatro più raccolto del circuito delle Manifatture Teatrali Milanesi ospita in questi giorni “P come Penelope” monologo scritto e interpretato da Paola Fresa in collaborazione con Christian Di Domenico, per la quale l’interprete ha vinto il Premio Enriquez 2024. Penelope è emblema dell’attesa. Aspetta Ulisse, sposo ed eroe, partito vent’anni prima per una guerra dalla quale tutti gli altri Achei hanno fatto ritorno. Perso nel mar Mediterraneo, naufrago su diversi lidi per volere di Poseidone, Ulisse è protagonista leggendario di una narrazione che attraversa i secoli. Penelope invece la guerra ce l’ha in casa: sola al comando di Itaca, assediata da pretendenti che rappresentano una minaccia per suo figlio, attende e sopporta, si oppone al potere maschile con i mezzi che il suo tempo le offre, contrapponendo all’arroganza dei Proci la sua caparbietà femminile. Nonostante questo, ben poco si conosce della vita di Penelope, la sua storia personale è narrata da un punto di vista maschile, per lo più in relazione al suo ruolo di moglie e madre. La domanda dalla quale siamo partiti è dunque chi è Penelope oggi. Una donna che aspetta per anni un uomo che non sa dire se sia vivo o morto, di cui riceve nel tempo informazioni frammentarie, più vicine al “si dice” che alla realtà dei fatti. Una madre che cresce da sola un figlio che, a sua volta, non ha mai conosciuto il padre e che, nutrito dal suo ricordo, si appresta a diventare un uomo. In uno spazio chiuso, asettico, come un laboratorio di analisi, mettiamo sotto il microscopio l’iconica storia di Penelope, cerchiamo di restituire alla figura universale del mito il suo sguardo negato, quello della donna che l’ha subito-vissuto, riconoscendole così una funzione attiva nella narrazione della sua vita. DURATA: 55 minuti INFO E BIGLIETTI: qui
Roma, Palazzo Barberini
CARAVAGGIO. IL RITRATTO SVELATO
curata da Thomas Clement Salomon e Paola Nicita
Roma, 22 Novembre 2024
Dal 23 novembre 2024 al 23 febbraio 2025, le Gallerie Nazionali di Arte Antica presenteranno al pubblico un evento di straordinaria rilevanza presso la Sala Paesaggi di Palazzo Barberini: la prima esposizione pubblica del “Ritratto di monsignor Maffeo Barberini” di Caravaggio. Questa opera, proveniente da una collezione privata e mai esposta al pubblico, rappresenta uno dei prestiti più significativi nella storia recente del museo e offre agli studiosi e agli appassionati un’opportunità unica per approfondire la comprensione dell’evoluzione stilistica e della ritrattistica di Caravaggio. Il ritratto, realizzato intorno al 1598 e attribuito con certezza a Michelangelo Merisi da Caravaggio, fu presentato alla comunità scientifica per la prima volta da Roberto Longhi nel 1963. Longhi, uno dei massimi esperti dell’opera caravaggesca, pubblicò un articolo intitolato “Il vero ‘Maffeo Barberini’ del Caravaggio” sulla rivista “Paragone“, delineando un’attribuzione che rimane, ancora oggi, condivisa dalla maggior parte degli studiosi di Caravaggio e della pittura del Seicento. Longhi descrisse il dipinto come un capolavoro di ritrattistica, in grado di rivelare non solo le fattezze del futuro papa Urbano VIII, ma anche la profondità intellettuale e l’ambizione politica che avrebbero caratterizzato la sua figura. L’esposizione, intitolata “Caravaggio. Il ritratto svelato“, curata da Thomas Clement Salomon e Paola Nicita, si pone l’obiettivo di mettere in luce un’opera fino ad oggi nota esclusivamente agli studiosi. La mostra è il frutto di anni di delicate trattative con il proprietario dell’opera, che fino a oggi non aveva mai acconsentito a far uscire il dipinto dal caveau in cui era custodito. Questo prestito, definito “storico” dai promotori dell’iniziativa, segna un momento fondamentale per la riscoperta dell’opera ritrattistica di Caravaggio, un aspetto spesso trascurato in favore delle sue celebri tele religiose. Il percorso del dipinto è avvolto nel mistero, essendo riemerso improvvisamente a Roma privo di una documentazione chiara riguardante il suo percorso collezionistico. Secondo Longhi, il quadro fece parte della collezione della famiglia Barberini per secoli, prima di essere disperso negli anni Trenta, durante una delle frequenti vendite delle proprietà nobiliari, dovute alle difficoltà economiche del periodo. Una recente pubblicazione della corrispondenza tra Longhi e Giuliano Briganti, risalente al 2021, ha gettato ulteriore luce sulla storia del dipinto: fu infatti Briganti a individuare il ritratto e a cederne a Longhi il diritto di pubblicazione. In una lettera del 2 luglio 1963, Longhi riconosceva il contributo di Briganti, ma alla fine pubblicò il dipinto senza menzionare il collega, concentrandosi piuttosto sul restauro eseguito da Alfredo De Sanctis. Si conosce l’esistenza di un secondo ritratto di Maffeo Barberini, conservato in una collezione privata di una nobile famiglia fiorentina e attribuito solo di recente a Caravaggio. Questo secondo ritratto, precedentemente considerato opera di Scipione Pulzone, continua a suscitare dibattiti tra gli studiosi, mentre l’attribuzione dell’opera esposta a Roma ha trovato consenso unanime tra i principali esperti di Caravaggio, tra cui Gianni Papi, Alessandro Zuccari, Keith Christiansen, Sebastian Schütze, Francesca Cappelletti e Rossella Vodret. L’importanza del “Ritratto di Maffeo Barberini” non si limita al suo valore iconografico, ma risiede anche nel suo ruolo nella produzione ritrattistica di Caravaggio. Longhi lo descrisse come una chiave di volta per la comprensione dell’opera del maestro, rivelando il potere dell’artista di cogliere la complessità psicologica del soggetto. Caravaggio affronta il tema del potere con la stessa intensità e realismo che caratterizzano i suoi dipinti religiosi. Il volto di Barberini è scolpito dalla luce caravaggesca, che sottolinea i lineamenti fieri e determinati del futuro papa. Questa luce, che nei dipinti religiosi di Caravaggio illumina i martiri e i santi, qui si posa su un uomo del potere terreno, rivelandone il carisma e la forza interiore. Maffeo Barberini, che sarebbe divenuto papa Urbano VIII, fu una figura di grande rilievo nella Roma barocca, promotore di importanti trasformazioni artistiche e architettoniche nella città. Nel ritratto di Caravaggio, Barberini appare in abito clericale scuro, immerso in uno sfondo essenziale che mette in risalto la forza espressiva del suo volto. Caravaggio, con il suo straordinario talento per la resa psicologica dei personaggi, riesce a far emergere non solo la fisicità del soggetto, ma anche l’intelligenza e l’ambizione che lo caratterizzavano. Le Gallerie Nazionali di Arte Antica hanno inoltre deciso di arricchire l’esposizione con un ciclo di conferenze e incontri dedicati alla figura di Maffeo Barberini e al contesto storico dell’opera, offrendo così al pubblico l’occasione di riflettere sul rapporto tra arte e potere nella Roma del Seicento. Non è solo l’unicità del prestito a rendere questo evento eccezionale, ma anche la possibilità di riflettere sul ruolo delle collezioni private e sulla loro influenza nella storia dell’arte. Questo ritratto, rimasto celato al pubblico per decenni, viene oggi restituito alla comunità grazie alla disponibilità del collezionista, sollevando interrogativi sulla fruizione del patrimonio artistico e sull’equilibrio tra proprietà privata e bene comune, un tema che ha suscitato l’interesse di molti critici, tra cui lo stesso Longhi. La possibilità di mostrare un’opera di tale importanza al pubblico rappresenta un momento di crescita collettiva e di arricchimento culturale. L’evento costituisce, dunque, non solo una mostra, ma anche un’occasione di dialogo culturale e di riscoperta. La possibilità di ammirare un’opera così significativa offre un’opportunità unica di approfondire la conoscenza dell’arte di Caravaggio attraverso la lente della sua produzione ritrattistica, un aspetto spesso oscurato dalle sue opere più drammatiche e celebri. Il “Ritratto di monsignor Maffeo Barberini” consente di esplorare la capacità di Caravaggio di immortalare la complessità dell’animo umano, di rappresentare il potere e l’ambizione, e di farlo attraverso l’uso magistrale della luce e dell’ombra, cifra inconfondibile del suo stile. L’esposizione anticipa, infine, una grande mostra dedicata a Caravaggio che si terrà al museo romano a partire da marzo 2025, consolidando ulteriormente il ruolo delle Gallerie Nazionali di Arte Antica come centro di riferimento per lo studio e la divulgazione dell’opera del maestro lombardo.
Milano, Teatro Menotti, Stagione 2024/25
“SHAKESPEARE / POEMETTI. Venere e Adone / Lo stupro di Lucrezia”
di e con Valter Malosti
Progetto sonoro e live electronics Gup Alcaro
Traduzione, adattamento e ricerca musicale Valter Malosti
Produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale in collaborazione con TPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro di Dioniso
Milano, 19 novembre 2024
L’operazione di traduzione e di interpretazione che da circa quindici anni Valter Malosti sta compiendo sui due principali poemetti di Shakespeare – “Venere e Adone” e “Il ratto di Lucrezia” – è tra le più preziose della drammaturgia italiana contemporanea, e ha di recente ottenuto la sua consacrazione con la pubblicazione nella collana di poesia di Einaudi. È un privilegio poter assistere a una live performance di queste traduzioni, che non conoscono una natura fissa, ma negli anni si rigenerano proprio nel momento della parola proferita, della tradizione orale: questi testi senza tempo (che rappresentano il momento più alto della produzione lirica del Bardo) diventano dei veri e propri ipertesti in scena, grazie al lavoro di incessante curatela che Malosti pone alla phonè in tutti i suoi aspetti – intonazione, emissione, proiezione, fraseggio. Sebbene sul piano scenico lo spettacolo sia inesistente – si tratta di una lettura – l’interpretazione si trasforma in rapsodia, tessitura vocale e intreccio con la seconda grande protagonista della performance, la musica, che viene costruita dal vivo da Gup Alcaro sul testo scespiriano e sull’interpretazione di Malosti: a sua volta, tutto questo background sonoro prevede rumori, voci, suoni elettronici, frammenti di musica barocca, suoni ambientali, un vero universo che si scontra, si amalgama e rimodella sulla parola, e a sua volta conferisce nuove forme, nuove evocazioni al testo stesso. In alcuni punti la fusione è così perfetta da indurre quasi stati alterati, visualizzazioni, esperienze metafisiche – e a questa fruizione quasi mistica partecipa senza dubbio il testo in quanto tale, la dizione di Shakespeare: le sue strutture funamboliche, il suo manierismo spinto e tentacolare, che si nutre di similitudini, di subordinazione vertiginosa e di immagini di inesprimibile nitore. Anche l’ordine nel quale vengono letti è importante: “Venere e Adone” ha un’andamento più teatrale, è un soggetto su cui facilmente il barocco può avvilupparsi (pensiamo al nostrano poemetto di Marino, “L’Adone”, del 1623), ma presenta una materia poetica facilmente riconducibile ancora a un canone rinascimentale; “Venere e Adone” è una sublime ubriacatura iniziale, un’implacabile elegia del piacere, che lascia spazio, tuttavia, dopo l’intervallo, a quel gioiello d’originalità del “Ratto di Lucrezia”, ove un gusto veramente barocco – nel senso di inusitato, eccentrico, fascinosamente orrendo – pervade una romanità assolutamente incredibile nel suo rigore cerimonioso. “Il ratto di Lucrezia” è una sorta di studio su personaggi, un’iperbole introspettiva che si nutre di concordanze e rispecchiamenti, e nel quale ci perdiamo: d’un tratto ci troviamo a godere di una violenza carnale, e non sappiamo da dove venga questo piacere, se dal testo così perfettamente architettato, dall’interpretazione congeniata a regola d’arte o dall’animale che ci portiamo dentro – in ogni caso, siamo sconvolti e travolti dalla bellezza di una simile oscenità, come probabilmente non ci saremmo potuti aspettare prima. Nell’ascoltare e nel figurare, noi siamo Tarquinio e la povera Lucrezia allo stesso tempo, giustifichiamo l’uno come bramiamo l’altra, disprezziamo il primo per poter preservare la seconda. E anche nello scrivere queste poche frasi sconnesse ci accorgiamo che, in realtà, non si riesce a esprimere davvero questa interiore battaglia tra Bene e Male, tra Basso e Alto, tra Terreno e Divino, che avviene in noi man mano che Malosti e Alcaro sgranano la loro performance come un rosario, o meglio come una parata dell’umano, possibile e impossibile. Bisogna andare a vederli, per capire. Vi auguriamo di farlo, fino a domenica al Teatro Menotti di Milano, il 29 e il 30 novembre al Teatro Storchi a Modena. Foto Laila Pozzo e Tommaso La Pera
Como, Teatro Sociale
MINOTAURO
Tratto da Durrenmatt
prodotto da LaTâche21 e Teatro Sociale Bellinzona
La programmazione del Teatro Sociale si diffonde “altrove” in tutto il teatro, occupando e reinventando tutti gli spazi e sale. Venerdì 22 novembre alle ore 20.30 e sabato 23 alle ore 17.00 e alle 20.30 andrà in scena “Minotauro”. La suggestiva cornice della platea del Teatro, svuotata dalle sue poltrone, accoglierà lo spettacolo in tutta la sua tragicità a 360°, sotto gli occhi attenti di un pubblico che sarà complice e spettatore dell’ingiustizia. Lo spettacolo, prodotto da LaTâche21 e Teatro Sociale Bellinzona, è tratto da “Minotauro”, una ballata di Friedrich Dürrenmatt. La scrittura di Dürrenmatt procede per immagini e da queste è nato lo spettacolo. Come in un’arena dell’antica Roma, il Minotauro rinchiuso nel suo labirinto fatto di specchi luci e ombre, ci invita a vivere insieme a lui ogni sfaccettatura, ogni riflesso della sua storia. Fin dal suo risveglio il Minotauro danza di gioia. Ci viene presentata una creatura innocente, come in un gioco di specchi tra narratrici e personaggi che raccontano il lento e progressivo cammino di consapevolezza del protagonista, costretto tra le pareti del labirinto che è simbolo di un percorso inevitabile della vita. Minotauro è creatura unica al mondo e duale, come tutto il genere umano del resto, ma in questa creatura la dualità è più evidente perché è anche fisica. Viene indagata la dualità nei sentimenti, nelle intenzioni, nei punti di vista diversi della stessa storia e anche nella maschera, nel corpo e nella sua fine. Minotauro non è consapevole della sua morte e nemmeno dell’inganno, a cui impotenti possiamo solo assistere. Il testo è qui tradotto magistralmente in italiano con tutta la sua musicalità da Donata Berra. La voce che di tanto in tanto prende parte alla rappresentazione, vuole essere veicolo di narrazione e di omaggio alla scrittura originale dell’autore svizzero. Unico elemento scenico è una scala ispirata all’opera visionaria di Maurits Cornelis Escher e alle sue famose scale impossibili e labirintiche. Le luci riflesse nei numerosi specchi che abitano la scena restituiscono uno spazio impenetrabile e chiuso come il labirinto di Dedalo. PER INFO E BIGLIETTI: qui
Torino, Museo Egizio
RIAPERTURA DELLA GALLERIA DEI RE E DEL TEMPIO DI ELLESIYA
Nel contesto delle celebrazioni per il bicentenario del Museo Egizio di Torino, la riapertura della Galleria dei Re e del Tempio di Ellesiya rappresenta un evento di straordinaria rilevanza, segnando l’avvio di una nuova fase nella storia di questa prestigiosa istituzione culturale, la quale, attraverso un articolato e meticoloso processo di rinnovamento, si prefigge di ridefinire il proprio ruolo all’interno del panorama museale internazionale. Dopo otto mesi di accurati interventi di restauro e riallestimento, queste due aree simboliche del museo sono ora pronte per essere ammirate dal pubblico, in una rinnovata sintesi di rigore scientifico e innovazione tecnologica, che mira a unire la dimensione storica alla fruizione contemporanea. L’inaugurazione ufficiale ha visto la partecipazione di figure di spicco come il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il Ministro della Cultura Alessandro Giuli e Khaled Mohamed Ismail, Segretario Generale del Consiglio Supremo delle Antichità dell’Egitto, a testimonianza dell’importanza del progetto anche a livello istituzionale e internazionale. Il Museo Egizio, il più antico al mondo interamente dedicato alla civiltà faraonica, si rinnova grazie a un ambizioso progetto architettonico e museografico sviluppato dallo Studio OMA di Rotterdam, il quale ha concepito un piano di intervento volto a valorizzare il dialogo tra passato e futuro, rendendo il museo un’entità viva e in costante trasformazione, capace di coinvolgere il pubblico in una narrazione che si estende ben oltre la semplice esposizione di reperti antichi. La ristrutturazione della Galleria dei Re e del Tempio di Ellesiya, pertanto, non rappresenta soltanto un’opera di conservazione, ma anche un’iniziativa che ambisce a offrire un’esperienza culturale immersiva, promuovendo una rinnovata consapevolezza del patrimonio archeologico e del suo valore per la società contemporanea. La Galleria dei Re, completamente ridisegnata sotto la direzione di un’équipe internazionale di egittologi, propone un’interpretazione innovativa della regalità egizia, inserendo le statue monumentali dei faraoni in un contesto scenografico suggestivo e illuminato con perizia, così da trasformarle in protagoniste di una narrazione che esplora il contesto storico e culturale in cui queste figure hanno vissuto. Il nuovo allestimento, che si avvale dell’integrazione di tecnologie digitali e strumenti multimediali, arricchisce l’esperienza dei visitatori, con l’obiettivo di coniugare il rigore dell’indagine scientifica con una fruizione accessibile e coinvolgente, capace di stimolare una riflessione profonda sulla storia dell’antico Egitto. Il Tempio di Ellesiya, donato dal governo egiziano all’Italia negli anni Sessanta come riconoscimento per il contributo italiano alla salvaguardia dei monumenti della Nubia, è stato oggetto di un attento e accurato restauro, che ha riportato alla luce la bellezza originaria della Cappella rupestre, ora accessibile tramite una nuova entrata da via Duse, la quale ha ridefinito la struttura architettonica dell’ex Collegio dei Nobili. Un video mapping, sviluppato da Robin Studio, racconta il lungo e complesso viaggio del tempio dall’Egitto all’Italia, restituendo la ricchezza simbolica e storica di questo straordinario reperto, rendendolo al contempo un elemento narrativo capace di evocare la profondità storica e culturale che esso rappresenta. Nell’ambito delle celebrazioni del bicentenario, il Museo Egizio ha altresì avviato un programma di residenze artistiche, il cui obiettivo è quello di esplorare e reinterpretare il ruolo contemporaneo di un museo archeologico, stimolando una riflessione critica sull’eredità storica e sulle modalità attraverso le quali essa viene comunicata. Ali Cherri, vincitore del Leone d’Argento alla Biennale di Venezia 2022, e Sara Sallam, artista egiziana, sono stati i primi partecipanti di questo progetto. Cherri ha realizzato l’installazione “Returning the Gaze”, collocata nel vestibolo della Galleria dei Re, che indaga il concetto di sguardo e il ruolo degli oggetti museali nella società contemporanea, interrogandosi sulla relazione tra chi guarda e chi è guardato. L’opera, sviluppata in collaborazione con il direttore Christian Greco e il curatore Paolo Del Vesco, coinvolge sette reperti privi di occhi, scansionati digitalmente e reinterpretati in bronzo lucido, con l’intento di restituire loro simbolicamente la capacità di guardare, aprendo così una riflessione critica sulla relazione tra pubblico e oggetto museale, e sul significato stesso dell’osservazione museale. Sara Sallam, dal canto suo, offre una prospettiva decoloniale sulla musealizzazione e sulla rappresentazione dell’identità culturale, interrogandosi sulle narrazioni storiche e stimolando una riflessione critica sulle dinamiche di potere che queste comportano. Il suo progetto invita i visitatori a esplorare nuove prospettive sul rapporto tra passato e presente, incoraggiando una comprensione più consapevole delle narrazioni museali e delle loro implicazioni, evidenziando come la rappresentazione museale non sia mai neutra, ma sempre frutto di scelte interpretative e culturali. Il percorso di trasformazione del Museo si completerà nel 2025 con la costruzione di una corte coperta in vetro e acciaio e di un innovativo ipogeo, grazie al sostegno di importanti partner pubblici e privati, tra cui la Fondazione CRT, la Fondazione Compagnia di San Paolo e il Gruppo Ferrovie dello Stato. Questa sinergia tra istituzioni e sponsor permetterà al Museo Egizio di affermarsi come un punto di riferimento internazionale, aperto a un pubblico sempre più vasto e diversificato, nonché capace di offrire esperienze culturali che uniscano il rigore della ricerca archeologica all’emozione della scoperta. Le celebrazioni del bicentenario, che si svolgeranno dal 20 al 22 novembre, includono una serie di eventi, tra cui una Notte Bianca con performance artistiche e conferenze, pensate per promuovere la conoscenza della storia e della cultura egizia presso il grande pubblico. Inoltre, l’incontro del 22 novembre tra Christian Greco e Ali Abdelhalim Ali, direttore del Museo Egizio del Cairo, segna un ulteriore passo verso una cooperazione internazionale per la ricerca archeologica, testimoniando l’importanza di una collaborazione che mira a rafforzare i legami tra le due istituzioni e a promuovere nuovi progetti di ricerca condivisi. Con il bicentenario, Torino riafferma il suo ruolo di polo culturale europeo, capace di legare le radici della civiltà umana a una visione aperta e innovativa del futuro. Il Museo Egizio, così, continua a ridefinire il suo ruolo, divenendo sempre più un mezzo per comprendere il presente e ispirare le generazioni future, ponendosi come un punto di incontro tra passato, presente e futuro, e come un luogo in cui la storia diventa uno strumento per leggere e interpretare la realtà contemporanea. PhotocreditMuseoEgizioTorino
Roma, Nuvola dell’ Eur
ARTE IN NUVOLA: QUARTA EDIZIONE
Dal 22 al 24 novembre, la Nuvola dell’EUR di Roma si trasformerà in un centro vibrante per l’arte moderna e contemporanea con la quarta edizione di Roma Arte in Nuvola. Un evento che promette di coinvolgere non solo gli addetti ai lavori, ma anche il grande pubblico, offrendo un’esperienza immersiva nel mondo della creatività contemporanea. Ideata da Alessandro Nicosia e guidata artisticamente da Adriana Polveroni, la manifestazione è sostenuta da C.O.R. e da Eur S.p.A., ed è ormai un appuntamento fisso per chiunque sia interessato alle nuove tendenze artistiche. L’atmosfera della Nuvola è quella di un laboratorio artistico in continua evoluzione, dove il visitatore ha l’opportunità di immergersi in un viaggio tra diverse discipline e linguaggi. Sono attese 140 gallerie, sia italiane che internazionali, pronte a portare il meglio della produzione contemporanea, creando una rete di relazioni e dialoghi tra artisti, curatori e appassionati d’arte. In questa edizione, spicca la presenza del Portogallo come Paese ospite, arricchendo il panorama con un’importante finestra sulla creatività lusitana, caratterizzata da una commistione di culture e influenze che rendono unico il suo contributo al mondo artistico. Un’altra grande novità di questa edizione è la partecipazione della Direzione Generale Archivi, che per la prima volta si unisce alla manifestazione. L’obiettivo è portare all’attenzione del pubblico l’importanza del patrimonio archivistico come parte integrante della cultura. Il loro spazio espositivo include la riproduzione di documenti storici iconici come lo Statuto Albertino e la Costituzione della Repubblica, nonché materiali originali di grande valore, quali studi per il mosaico del Ristorante uffici all’EUR di Angelo Canevari e prototipi di automobili della Società Bertone Stile, custoditi dall’Archivio Centrale dello Stato. Roma Arte in Nuvola si configura come un’occasione per vivere l’arte non solo come fruizione, ma come partecipazione attiva. Tra installazioni, performance, e opere che spaziano dal figurativo all’astratto, la Nuvola diventa un luogo di esplorazione estetica e culturale. Qui, ogni angolo è pensato per sorprendere, per scuotere lo spettatore dalla quotidianità e portarlo a riflettere, ad immergersi in una dimensione che va oltre la mera visione. Lo spazio dedicato ad Antonio Canova, realizzato grazie al supporto di Banca Ifis, rappresenta uno dei momenti più attesi dell’intera manifestazione. Saranno esposti dodici busti inediti del grande scultore veneziano, recentemente riscoperti e restaurati. Un allestimento raffinato che mira a far emergere tutta la potenza e l’eleganza dell’opera di Canova, ponendo in risalto la sua maestria nel dare vita al marmo con una delicatezza senza pari. Con il coinvolgimento di istituzioni come il Ministero della Cultura, il MAXXI, il Museo delle Civiltà, e grazie a una serie di eventi collaterali che animeranno la tre giorni, Roma Arte in Nuvola si preannuncia un appuntamento imperdibile. Non solo una fiera, ma un vero e proprio viaggio attraverso le mille sfaccettature della creatività contemporanea, capace di attirare l’interesse di un pubblico sempre più ampio, dai collezionisti agli appassionati, fino ai curiosi che vogliono avvicinarsi all’arte per la prima volta. Photocredit: Marino Festuccia
Il 2024 è l’anno del centenario dalla nascita di Franco Mannino (Palermo, 25 aprile 1924 – Roma, 1 febbraio 2005) autentico protagonista del Novecento: pianista, compositore, direttore d’orchestra e scrittore. Personalità talentuosa già nel suo Dna, in seguito l’incontro con i grandi personaggi della cultura diventerà la bussola della sua onestà intellettuale. A 10 anni si esibisce al pianoforte in onore di Pirandello il quale, riconoscendone il talento, lo invita a non dimenticare di essere figlio della Sicilia. Studia a Roma presso il Conservatorio “Santa Cecilia” e conosce molti intellettuali (Guttuso, De Chirico, Savinio, la figlia di Tolstoj, Sartre, Cocteau, Mann, ecc.) e musicisti: De Sabata, Giordano, Zandonai, Toscanini, Horowitz, Stravinskij, Casella, R. Strauss, Dallapiccola, Šostakóvič e l’amico fraterno Franco Ferrara. A 16 anni viene ammesso eccezionalmente a partecipare ad un concorso per direttori d’orchestra organizzato dall’Accademia di Santa Cecilia attirando l’attenzione di Tullio Serafin che nel ’47 lo fa scritturare come direttore di tre opere alla Fenice di Venezia. Svolge un’intensa carriera internazionale come pianista e direttore d’orchestra nei più importanti teatri del mondo, scrive oltre 500 composizioni e ricopre il ruolo di direttore artistico di varie istituzioni musicali. Significativo l’incontro con Luchino Visconti e la sorella Uberta, poi sua compagna di vita. Molto attento verso le nuove generazioni, come esempio si segnala una giovanissima Martha Argerich che si cimenta nel Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra di Chopin diretta dal maestro a Parigi il 1 febbraio 1970 di cui costituisce testimonianza il video.
Ricordiamo il maestro attraverso la testimonianza di Massimo Biscardi, musicista che ha conosciuto e collaborato con Mannino (poco più che ventenne, è stato suo direttore assistente) un protagonista del mondo della musica (inizia giovanissimo una feconda attività di concertista come pianista e direttore d’orchestra) e delle istituzioni italiane, essendo attualmente Sovrintendente della Fondazione Teatro Petruzzelli di Bari. Dal 2022 è Accademico dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e, nel suo perseguire obiettivi sempre più significativi, formuliamo il nostro Ad maiora per l’insediamento, dal febbraio 2025, come nuovo Presidente-Sovrintendente della stessa Istituzione.
Quando ha incontrato il maestro Franco Mannino e quanto l’esperienza di assistente può aver influito nella sua carriera di direttore d’orchestra?
Credo fosse il 1983, frequentavo assiduamente la casa del leggendario Franco Ferrara. Sotto la guida di questo grande maestro avevo seguito due corsi di perfezionamento di direzione d’orchestra e, in seguito, era nato un rapporto di normale frequentazione. Un giorno mi disse di raggiungerlo a casa sua, abitava a piazza Cavour a Roma, a due passi dalla mia abitazione, perché voleva presentarmi un grande musicista e grande suo amico dai tempi della giovinezza, Franco Mannino. Il maestro Mannino apparve subito una persona particolarmente curiosa nei riguardi di un giovane studente di musica. Da allora iniziò una frequentazione assidua. Non fui mai suo assistente nel senso vero del termine, ma ricordo che ogni domenica mattina mi faceva conoscere la sua ultima composizione che suonava al pianoforte del suo studio in via Fleming. Del maestro Mannino mi ha sempre colpito l’intelligenza acutissima, non solo musicale, e il senso di rispetto verso la musica e i musicisti che sono parte determinante del mio bagaglio culturale.
Potrebbe offrire una testimonianza del maestro come uomo e musicista versatile?
Una sua giornata-tipo prevedeva una parte dedicata alla composizione, una parte allo studio del pianoforte e delle partiture che avrebbe diretto e una parte alle pubbliche relazioni: la testimonianza della sua versatilità sta nei suoi normali ritmi di vita, che erano veramente frenetici.
I suoi studi coincidono con quelli di Mannino. È possibile immaginare alcune sue esperienze professionali grazie allo stesso percorso formativo?
Sono gli studi completi che ogni musicista serio doveva aver necessariamente fatto prima di affacciarsi alla professione. Oggi non è più cosi per gli studenti di musica, purtroppo, e ne subiamo le conseguenze.
Nel 1989 lei dirige Le notti bianche di Mannino. Cosa ricorda di quell’ esperienza?
Una composizione fascinosa che serbava lo spirito di un musicista, in fondo, figlio del romanticismo.
Il 2025 ricorrono vent’anni dalla scomparsa di Mannino. Quali le iniziative più urgenti, da parte delle istituzioni italiane, per valorizzare la sua figura di musicista del Novecento?
Come per tutti i musicisti scomparsi nel giro degli ultimi decenni, sarebbe utile fare innanzitutto uno studio di tutta la sua opera e individuare il meglio da poter tramandare alla conoscenza delle generazioni future come testimonianza della sua arte.
Ringraziamo Massimo Biscardi per la sua testimonianza e per aver condiviso con i nostri lettori un tratto della loro strada, l’amicizia e la collaborazione e soprattutto quei valori di cui, per altri aspetti e percorsi, rimangono ancora significative tracce in me.
Cagliari, Teatro Lirico – Stagione lirica e di balletto 2024
“THE TOKYO BALLET”
“La Bayadère”: Il regno delle ombre
Coreografia Natalia Makarova da Marius Petipa
Musica Ludwig Minkus
Scene Pier Luigi Samaritani
Costumi Yolanda Sonnabend
“Petite Mort”
Coreografia e scene Jirí Kylián
Musica Wolfgang Amadeus Mozart
Costumi Joke Visser
Luci Jirí Kylián realizzate da Joop Caboort
“Le Sacre du Printemps”
Coreografia Maurice Béjart
Musica Igor Stravinskij
Prime ballerine KANAKO OKI, AKIRA AKIYAMA
Primi ballerini DAN TSUKAMOTO, ARATA MIYAGAWA, SHOMA IKEMOTO
Orchestra del Teatro Lirico di Cagliari
Direttore d’orchestra Paul Murphy
Cagliari, 17 novembre 2024
Grande successo per la tappa cagliaritana del Tokyo Ballet: difficile al giorno d’oggi vedere il teatro pieno di pubblico entusiasta alla quinta replica di qualunque produzione. Ma era importante la possibilità di ammirare dal vivo uno dei corpi di ballo più celebrati al mondo in un repertorio di grande interesse, con l’evento principe de Le Sacre du Printemps di Stravinskij nella storica coreografia di Béjart. Le aspettative non sono state tradite, con uno spettacolo straordinario per tecnica, sobria eleganza ed espressione. Si può discutere l’evidente intenzione di dare esempi di versatilità della compagnia accontentando i vari gusti del pubblico, ma lo storico estratto ripreso da Petipa de La Bayadère, pur un po’ distante dal resto, ha dato comunque un magistrale esempio di atto bianco romantico. Solo una semplice quinta, vagamente ispirata allo stile ukiyo-e, taglia lo spazio scenico per l’entrata delle ombre, senza gli esotismi che spesso appesantiscono le scenografie di genere: tutto è ridotto alle geometrie essenziali e a un’espressione minimale sia nella gestualità che nella compostezza degli atteggiamenti. Una lettura dove è facile vedere il collegamento con la contemporaneità, in cui l’etereo mondo notturno e la levigatezza dell’atto bianco diventano un medium ideale per espressioni coreografiche più recenti. Inutile sottolineare la perfezione tecnica nei vari Pas, l’impressionante sincronia ed eleganza delle file, la bellezza e facilità di ogni variazione: puro godimento visivo. Dalla funzionale ma modesta musica di Minkus a Mozart il salto è grande: Petite Mort di Jirí Kylián, sul secondo tempo dei concerti K 488 e K 467, sublima fin dalla musica l’aspetto di diafana e notturna bellezza anticipato dalla coreografia precedente. La “petite mort” in francese indica l’orgasmo, il momento in cui il culmine del piacere sembra fondersi col presagio della morte: sei uomini entrano in silenzio e accompagnano i primi movimenti con delle spade il cui rumore nell’aria è l’unico elemento sonoro. L’allusione palesemente sessuale è mitigata dall’incontro con sei donne la cui unione è sempre solo suggerita, all’insegna di una sobrietà che è la cifra stilistica di tutto lo spettacolo. Il collegamento col mondo classico appare citato apertamente nel secondo numero musicale, con le donne che scivolano con leggerezza incredibile dentro degli stilizzati costumi-sagome settecenteschi, da cui si distaccano e uniscono in una serie di effetti in chiaroscuro di rara efficacia. Ma l’attesa era chiaramente per il pezzo forte della serata: il capolavoro di Stravinskij non ha segnato solo musicalmente il ‘900 ma anche l’allora criticata coreografia di Nijinsky ruppe definitivamente con il secolo passato introducendo una serie di novità con cui le numerose riprese dovettero fare sempre i conti. Di tutte le più importanti creazioni de Le Sacre du Printemps sicuramente quella di Béjart è una delle più belle e celebrate: cavallo di battaglia da sempre del Tokyo Ballet, che ne ebbe per anni l’esclusiva, è stata quindi imperdibile l’occasione di poterla ammirare in questa performance con la complessità dell’esecuzione orchestrale dal vivo, opportunità tutt’altro che comune per quest’opera. L’attrazione e la seduzione prima sublimate ora diventano palesi, lotta e sfida maschile, contatto, tensione animale, generi in incontro-scontro nell’eterno rito della fecondità primaverile, con la novità, per questa versione, del sacrificio finale proiettato non sull’eletta ma su una coppia uomo-donna. Difficile descrivere il perfetto equilibrio dei gruppi, il coordinamento delle figurazioni, la potenza dei salti, il contrappunto impeccabile dei movimenti coordinati con le continue varianti metriche, le simmetrie e il riempimento armonico degli spazi sgombri di qualunque orpello scenografico: un grande spettacolo, con momenti veramente emozionanti come il finale della prima parte, illuminato da un efficacissimo taglio laterale a guidare l’uscita degli uomini. Straordinarie le prime parti, ma ha impressionato soprattutto l’uguaglianza e il livello del corpo di ballo, specialmente nella componente femminile, frutto sicuramente di una profonda cultura d’assieme. Completa il quadro l’ottima prestazione dell’orchestra del Teatro Lirico che, sotto la guida di un esperto specialista come Paul Murphy, ha dato un eccellente esempio da ogni punto di vista. Se si possono liquidare Minkus come routine e Mozart come repertorio, un discorso a parte merita Le Sacre, proverbialmente pietra di paragone per il virtuosismo di qualunque orchestra: l’ensemble di Cagliari è stato protagonista di un’interpretazione precisa e scintillante in tutte le sezioni, brillante nei colori e nelle dinamiche, solida nell’infernale articolazione metrica e ritmica della celebre partitura. Una scommessa produttiva vincente, impreziosita dalla prestigiosa proposta coreografica, che merita sicuramente degli approfondimenti futuri.
Verona, Teatro Filarmonico, Stagione Lirica 2024
“LA CENERENTOLA”
Dramma giocoso in due atti su libretto di Jacopo Ferretti
Musica di Gioachino Rossini
Don Ramiro PIETRO ADAINI
Dandini ALESSANDRO LUONGO
Don Magnifico CARLO LEPORE
Clorinda DANIELA CAPPIELLO
Tisbe VALERIA GIRARDELLO
Angelina MARIA KATAEVA
Alidoro MATTEO D’APOLITO
Orchestra e Coro della Fondazione Arena di Verona
Direttore Francesco Lanzillotta
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia Manu Lalli
Scene Roberta Lazzeri
Costumi Gianna Poli
Luci Vincenzo Apicella riprese da Sergio Toffali
Allestimento del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Verona, 17 novembre 2024
Il dubbioso Rossini, reduce dal successo del suo Barbiere e già incaricato di scrivere un’opera buffa da rappresentarsi nella stagione di carnevale del 1817, accolse con entusiasmo l’idea di mettere in musica il soggetto di Cendrillon dall’omonima fiaba di Perrault. Per adattarla al gusto italiano, ancor più a quello romano, il librettista Ferretti sostituì gli elementi fiabeschi con situazioni più realistiche ed arricchite da effetti comici. Così il tronfio Don Magnifico, patrigno desideroso di un riscatto sociale, sostituisce la matrigna, la fata diventa il saggio Alidoro, precettore di Don Ramiro, e la celebre scarpetta di cristallo lascia il posto ad un più veritiero braccialetto. Punto di forza della vicenda è lo scambio di ruolo tra il principe Don Ramiro ed il suo cameriere Dandini, operato per valutare la condotta delle sorellastre Clorinda e Tisbe. Scritta a tempo di record, grazie ad una vera e propria catena di montaggio nella quale Ferretti scriveva i versi consegnandoli poi a Rossini che li metteva prontamente in musica, La Cenerentola è tornata al Filarmonico dopo gli allestimenti del 1996 e del 2016 nell’allestimento del Maggio Musicale Fiorentino recentemente andato in scena nella città gigliata, a firma di Manu Lalli. Per idee e contenuti, l’impianto registico strizza l’occhio al celebre film di Ponnelle del 1981 anche se talvolta eccede in mossette e caricature che comunque non disturbano lo spettacolo; vi è comunque da sottolineare che si tratta di un allestimento facilmente proponibile anche ad un pubblico giovanissimo in tempi di grande necessità culturale per le nuove generazioni. Il messaggio della regista è comunque forte e chiaro: Angelina vive e spera in un riscatto sociale, rivendicando i suoi diritti calpestati da una stupida e cieca ignoranza (come nel caso delle sorellastre che strappano le pagine dei libri che la ragazza conserva e con cui nutre le sue speranze) ma anche alimentando i propri sogni e desideri. Sogni che lasceranno il posto ad un futuro certo e basato non sull’interesse sociale ma sull’amore vero; l’autentica magìa non è quella della bacchetta ma della bontà e benevolenza, come nel perdono finale concesso proprio a coloro che l’avevano sempre maltrattata. La tradizione è presente anche nelle scene essenziali di Roberta Lazzeri, nei costumi di Gianna Poli (sui quali svetta il rosso di Don Magnifico) e nelle luci di Vincenzo Apicella, qui riprese da Sergio Toffali. Sul fronte musicale Maria Kataeva si dimostra interprete di livello con un bel colore vocale ed ottima resa scenica, conferendo al ruolo di Angelina una dimensione sospesa tra il sogno ed il reale anelito alla felicità, giungendo alle battute finali in trionfo come ampiamente sottolineato dai vibranti ed entusiasti applausi del pubblico. Pietro Adaini, nei panni di Don Ramiro, restituisce al personaggio tutta la sua dignità aristocratica con una cantabilità nobile e lineare e facilità negli acuti, che però non sempre risultano a fuoco. Nulla da eccepire sul Don Magnifico di Carlo Lepore, ormai interprete rossiniano di riferimento, che si rivela sempre più degno erede della grande tradizione nel solco tracciato da Dara e Montarsolo, con voce potente ed indiscusse doti attoriali, oltre ad un’invidiabile disinvoltura nei passaggi di agilità e nei frenetici sillabati. Bene anche Alessandro Luongo il quale riesce efficacemente, nel ruolo del cameriere Dandini, a reggere adeguatamente un’ affettata regalità non priva di una certa ironia soprattutto nella sua cavatina Come un’ape ne’ giorni d’aprile. In sostituzione del previsto Gabriele Sagona, Matteo D’Apolito (già interprete del ruolo a Firenze) è il saggio consigliere Alidoro, personaggio che rende con fierezza intellettuale e nobiltà vocale. Le due terribili sorellastre erano rispettivamente Daniela Cappiello (Clorinda) e Valeria Girardello (Tisbe), entrambe perfettamente calate nelle loro parti, che riescono a gestire nel contrasto timbrico tra le due tessiture; forse un tantino eccessive nell’aspetto scenico, hanno comunque condotto felicemente in porto la loro recita. La direzione di Francesco Lanzillotta è brillante seppur tesa ad assecondare la cantabilità delle voci con tempi adeguati, tanto nelle arie quanto nei concertati grazie all’ottimo apporto dell’orchestra della Fondazione Arena. Molto bene il coro, sempre preciso e puntuale nei suoi interventi. Pubblico numeroso ed entusiasta, come testimoniato dagli applausi, soprattutto quello seguito al rondò finale Nacqui all’affanno, partito spontaneamente sulla coda orchestrale. Repliche il 22 e il 24 novembre. Foto Ennevi per Fondazione Arena.
Bergamo, Teatro Donizetti, Donizetti Opera 2024
“DON PASQUALE”
Dramma buffo in tre atti di Giovanni Ruffini
Musica di Gaetano Donizetti
Don Pasquale ROBERTO DE CANDIA
Norina GIULIA MAZZOLA
Ernesto JAVIER CAMARENA
Dottor Malatesta DARIO SOGOS
Un notaro FULVIO VALENTI
Orchestra Donizetti Opera
Coro dell’Accademia del Teatro alla Scala
Direttore Iván López-Reynoso
Maestro del coro Salvo Sgrò
Regia Amélie Niermeyer
Scene e costumi Maria-Alice Bahra
Luci Tobias Löffer
Coreografie Dustin Klein
“CASA E BOTTEGA” – Pagine per violino e pianoforte
Gaetano Donizetti: Sonata in fa minore per violino e pianoforte, “Impromptu” in re maggiore, Variazioni in fa maggiore
Violino Massimo Spadano
Pianoforte Francesco Libetta
Presentazione Paolo Fabbri
Bergamo, 17 novembre 2024
Titolo tra i più noti e rappresentati del catalogo donizettiano “Don Pasquale” sembra quasi sfuggire alle dinamiche festivaliere, l’allestimento bergamasco è stata però occasione per risentire l’opera integralmente come ricostruita dall’edizione critica a cura di Roger Parker e Gabriele Dotto. Non si tratta di stravolgimenti radicali ma di piccole modifiche e della riapertura di qualche inciso che non cambia la struttura generale ma puntualizza alcuni passaggi soprattutto sul piano narrativo. Finalmente sentiamo Norina chiedere quel “Pranzo da cinquanta” di cui solitamente Don Pasquale si lamenta senza che venga richiesto.
L’Orchestra Donizetti Opera era affidata per l’occasione a Iván López-Reynoso, giovane direttore messicano – poco più che trentenne – in fase di affermazione sulla scena internazionale. López-Reynoso vede nell’opera soprattutto la dimensione di commedia con ritmi rapinosi e sonorità brillanti mentre resta forse un po’ in secondo piano la componente patetica. Il suono orchestrale e nel complesso assai piacevole – pur con qualche eccesso fonico che si sarebbe potuto meglio controllare – così come sempre ben gestita è la fusione tra buca e palcoscenico nonostante l’estrema concitazione imposta dalla regia ai movimenti scenici.
Il cast ci presenta qualche problema: Javier Camarena tenore che nelle scorse edizioni aveva elettrizzato il pubblico è apparso infatti in precarie condizioni di salute – un annuncio al riguardo sarebbe forse stato auspicabile – che l’hanno costretto a giocare in difesa. La classe resta sopraffina, la voce è ideale per la parte e la simpatia scenica impagabile, però è parso evidente la prudenza resa necessaria da una palese raucedine. Nessuna ombra sulla prova di Roberto De Candia, vero mattatore della serata. L’allievo di Sesto Bruscantini fornisce qui una prestazione degna del maestro. In un ruolo che sembra scritto per le sue corde De Candia non solo canta benissimo e con una assai bella come colore e facilissima nell’emissione – i sillabati sono al limite del credibile – ma soprattutto interpreta in modo superlativo. De Candia possiede ogni singola fibra del ruolo, sa dare il giusto colore, la giusta inflessione a ogni parola, a ogni accento. Non c’è nulla che sia neppure lontanamente fuori posto, non c’è nulla che non sia calibrato alla perfezione e che al contempo non trasmetta il senso di più totale naturalezza. Il risultato è un personaggio umanissimo per il quale è impossibile non provare empatia”. Gli altri interpreti sono giovani della Bottega Donizetti chiamati a cimentarsi con ruoli decisamente impegnativi. Giulia Mazzola è una Norina interessante. La voce è bella e ben proiettata, gli acuti sono facili e brillanti, il fraseggio già ricco e vario. Scenicamente simpatica e molto partecipe si cala bene nella parte ottenendone meritato successo. Dario Sogos è un Malatesta di bella presenza vocale, tecnicamente ben impostato e sicuro in tutta la gamma. Interpretativamente è però ancora un po’ scolastico e si sente l’inesperienza dovuta alla giovane età.
Alterno l’allestimento di Amélie Niermeyer tra buone idee di parenza e perdita di controllo progressiva. L’impianto scenico è moderno, una grande villa razionalista un po’ alla Pizzi dove abita Don Pasquale, attempato ma giovanile benestante alla moda – ci si chiede solo per quale ragione Norina voglia cambiare un arredamento di design all’ultimo grido. Ernesto è uno sfaccendato che vive alle spalle dello zio, Norina veramente una spiantata ridotta a vivere in un’auto parcheggiata dietro alla villa e sulla professionalità del Dottore si può nutrire qualche dubbio nel suo essere parte dello stesso mondo sub-proletario di Norina.
Il primo atto è nel complesso ben gestito, brillante e recitato con gusto. Forse i giovani sono un po’ troppo macchiettistici il che non li rende troppo simpatici e qualche scena e troppo caricata – davvero sguaiato per essere credibile il finto notaio – ma nell’insieme il gioco funziona. Il secondo atto è invece dominato da un horror vacui che tutto travolge, la regista riempie la scena di figure di cui sfugge il significato – il rosa elefante che apre l’atto apparentemente fuggito dagli incubi alcolici del Dumbo disneyano, fornitori vestiti con pigiami da orsetti, camerieri trasformati in ospiti di una festa di dubbio gusto, striscioni ideologici – senza che tutto questo riesca a comporsi in un racconto coerente.
La mattina del 17 novembre, presso la casa natale del compositore in Borgo Canale si è svolta – con introduzione di Paolo Fabbri – l’anteprima del nuovo CD – previsto in primavera per Sony Music – della registrazione integrale delle composizioni per pianoforte e violino di Donizetti affidate a Massimo Spadano e Francesco Libetta. La presentazione è stata accompagnata da alcuni brani eseguiti dal vivo. Per l’occasione Spadano ha suonato sul violino settecentesco con accordatura di budello usato per la registrazione mentre Libetta ha utilizzato un pianoforte moderno. Nel disco saranno invece utilizzati tre pianoforti d’epoca di fabbricazione napoletana, viennese e parigina ad accompagnare gli snodi fondamentali della carriera d’occasione.
Musiche d’occasione ma nel complesso assai piacevoli che tradiscono un modo di comporre che interpreta il pianoforte come orchestra e il violino come voce solista. Esemplare al riguardo l’Impromtu in re maggiore che sfugge alle convenzioni del genere – in generale le forme sono assai libere e lontane dal rigore delle coeve esperienze mitteleuropee – per presentarsi come una scena composta da recitativo, aria e da capo con variazioni.
Roma, Teatro Vascello
LA SCORTECATA
liberamente tratto da Lo cunto de li cunti
di Giambattista Basile
testo e regia Emma Dante
con Salvatore D’Onofrio, Carmine Maringola
elementi scenici e costumi Emma Dante
luci Cristian Zucaro
produzione Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale, e Carnezzeria.
coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone
Roma, 20 Novembre 2024
“Ahi, sfortunata vecchiaia, quanto sei schernita e ingannata, non tanto dagli altri quanto da te stessa!”
Emma Dante, con La Scortecata, affronta l’arduo compito di trasporre per la scena una delle fiabe di Giambattista Basile, tratte dalla celeberrima raccolta Lo cunto de li cunti. Questa operazione, che di per sé potrebbe apparire come un mero esercizio filologico, si trasforma invece in un profondo studio sulla natura del linguaggio, della teatralità e della condizione umana. la regista non si limita a rievocare le radici dialettali e popolari del testo: ella compie un atto di riscrittura che restituisce modernità senza sradicare la fiaba dalla sua matrice barocca. Il dialetto napoletano di Basile, ricco di proverbi e lazzi, si riflette nella partitura drammatica con una cadenza ritmica che non tradisce mai l’oralità del testo originario, offrendo una densità semiotica che sollecita la partecipazione attiva del pubblico. La vicenda narrata è quella del decimo trattenimento della iornata primma del Pentamerone: due sorelle anziane, Rusinella e Carolina, vivono miseramente in una catapecchia finché la voce di una di loro non seduce un re che, ingannato dall’apparenza di un dito giovanile, la porta nel proprio letto. L’esito è grottesco: la vecchia, scoperta, viene gettata dalla finestra, ma salvata da una fata che la trasforma in una bellissima giovane. La morale della fiaba, con la seconda sorella che, cercando di imitarla, finisce scorticata, non si riduce a una semplice denuncia della vanità femminile. La regista ne fa un’indagine antropologica sulla solitudine, sull’inganno e sull’ossessione per un ideale di bellezza che trascende epoche e culture. L’analisi psicologica si fa tagliente, esaminando le ambiguità umane con un tono disincantato, quasi cinico, ma capace di far emergere la profondità dell’animo. Il cuore dell’opera non è solo la narrazione di una fiaba, ma un’esplorazione del senso esperienziale della storia stessa. Le due sorelle anziane rappresentano la disperazione umana nel tentativo di sfuggire alla propria condizione. L’illusione della bellezza, l’inganno che perpetuano su loro stesse e sugli altri, è simbolo di un desiderio universale: il bisogno di trasformazione, di redenzione dalla miseria quotidiana. Tuttavia, la trasformazione fisica non equivale mai a una metamorfosi interiore. Questo divario crea una tensione che risuona fortemente con il pubblico, suggerendo una riflessione filosofica sul rapporto tra l’essenza e l’apparenza, sul valore effimero dell’estetica rispetto alla sostanza dell’essere. La regista sembra quasi suggerire che la ricerca della bellezza, come forma di riscatto, sia un inganno crudele e, al contempo, un impulso inevitabile della natura umana ed allo stesso tempo imprime al suo lavoro la consueta capacità di trasformare il minimalismo scenico in un universo simbolico. La scena, affidata alla stessa la regista, è spoglia: due sedie, una porta e un castello in miniatura bastano a delineare spazi fisici e mentali. La catapecchia delle due sorelle diviene metafora di un’esistenza ridotta all’essenziale, mentre il castello in miniatura rappresenta un’illusione di grandezza, una trappola per sogni irrealizzabili. la regista crea una drammaturgia che non cerca di stupire con effetti visivi, ma che indaga l’essenza stessa della teatralità, esprimendo il contrasto tra l’illusione scenica e la realtà psicologica dei personaggi. L’ironia è palpabile: il castello in miniatura, con la sua pretesa di grandezza, è un’ironica metafora delle ambizioni che ci fanno inciampare. Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola offrono una prova attoriale che trascende la semplice interpretazione di un ruolo. Essi diventano corpi narranti, capaci di trasmettere la comicità farsesca e, al contempo, il dramma esistenziale. Le loro voci modulano il dialetto, facendolo oscillare tra il lirico e il grottesco, mentre i gesti amplificano la condizione deformata delle due anziane. la regista sembra voler mostrare il grottesco come elemento inevitabile della condizione umana, dando voce ai desideri più intimi e contraddittori. Gli attori si fanno autori di un linguaggio scenico che vibra di autenticità, con una sottile ironia che rivela la tragica comicità delle loro esistenze. Le luci di Cristian Zucaro disegnano i contorni di una scena che vive di chiaroscuri barocchi. Il buio diviene un elemento narrativo, uno spazio in cui i corpi degli attori emergono come reliquie, fantasmi che vivono una condizione sospesa tra il reale e il fiabesco. La scena non è mai completamente illuminata, riflettendo la dicotomia tra il sogno di bellezza e l’inesorabile decadenza. Questo gioco di luce e ombra suggerisce una ricerca della verità che è sempre parziale, un percorso che si snoda tra luci e tenebre, senza mai svelarsi interamente. L’ironia cinica di la regista si manifesta anche qui: la bellezza resta sempre nel mezzo, irraggiungibile, come un gioco crudele del destino. La Scortecata non si limita a raccontare una fiaba. La regista utilizza la struttura fiabesca come pretesto per un’indagine sul teatro stesso, inteso come luogo di trasformazione e illusione. L’operazione metateatrale è esplicita: i due attori non si limitano a interpretare, ma “inscenano” continuamente, rompendo la quarta parete con complicità e ironia. la regista vede la scena come un luogo in cui il reale e l’immaginario si incontrano, e il pubblico è chiamato a partecipare non solo emotivamente, ma anche intellettualmente, cogliendo i riferimenti e le implicazioni di un testo che riflette sull’inganno come fondamento della rappresentazione scenica. Con La Scortecata, La regista consegna al teatro contemporaneo un’opera che si muove su un crinale pericoloso ma estremamente affascinante: quello tra tradizione e innovazione, tra barocco e minimalismo, tra il comico e il tragico. Lo spettacolo si pone come un’operazione colta, raffinata e al contempo visceralmente teatrale, che riesce a rendere una fiaba secentesca specchio inquietante della modernità. la regista dimostra che il teatro può essere un luogo di dialogo tra il passato e il presente, tra il vero e l’illusione, capace di esplorare le profondità dell’animo umano con uno sguardo acuto, disincantato e, perché no, beffardo.
Roma, VIVE
TORNANO A SPLEDERE LE SCULTURE DELL’ALTARE DELLA PATRIA
A seguito del grande progetto di restauro avviato dal VIVE, diretto da Edith Gabrielli, tornano a splendere le sculture del prospetto principale del Vittoriano grazie al contributo di Bvlgari a conferma del forte legame della Maison con la città di Roma ed il suo inestimabile patrimonio. Un’iniziativa di alto mecenatismo nata da una piena condivisione di intenti e valori fra il VIVE-Vittoriano e Palazzo Venezia e Bvlgari nell’ambito della conservazione e della valorizzazione del patrimonio storico-artistico. Diretto da Edith Gabrielli ed eseguito da Susanna Sarmati, il restauro – avviato a marzo scorso e concluso ad ottobre, nel pieno rispetto dei tempi previsti – ha coinvolto le sculture in marmo raffiguranti il Mare Adriatico di Emilio Quadrelli e il Mar Tirreno di Pietro Canonica, le sculture in bronzo dorato raffiguranti Il Pensiero di Giulio Monteverde e L’Azione di Francesco Jerace e i pennoni di Gaetano Vannicola con le Vittorie di Edoardo Rubino e Edoardo De Albertis. Nel pieno rispetto dei principi metodologici del restauro italiano, una équipe di esperti operatori, fra le eccellenze del settore, è intervenuta per assicurare la conservazione e la leggibilità delle sculture marmoree e bronzee realizzate agli inizi del Novecento da alcuni dei più importanti artisti del panorama nazionale. L’intervento – interamente sostenuto da Bvlgari tramite l’Art Bonus – ha consentito, in particolare, di bloccare le forme di degrado presenti e di restituire la qualità del modellato delle superfici lapidee delle fontane così come le finiture dorate degli elementi in bronzo. Contestualmente il restauro ha permesso una più approfondita conoscenza dei processi di realizzazione dei manufatti artistici del monumento eseguiti, tutti nel medesimo periodo, da autori diversi. “Il Vittoriano, monumento di straordinaria importanza per la storia e l’identità della Nazione, è insieme una significativa opera d’arte: lo è per l’architettura di Giuseppe Sacconi, lo è per la decorazione plastica, eseguita da alcuni dei principali scultori dell’epoca. Restituito l’accordo cromatico fra il candore del marmo Botticino e la finitura dorata degli elementi in bronzo, il prospetto principale del Vittoriano si presenta oggi agli occhi di cittadini e turisti in tutta la sua magnificenza. Si tratta di un percorso che abbiamo intrapreso insieme a Bvlgari, attraverso una proficua alleanza pubblico-privato per la tutela e la valorizzazione del nostro patrimonio storico-artistico”, dichiara Edith Gabrielli, Direttrice del VIVE-Vittoriano e Palazzo Venezia. Jean-Christophe Babin, Ceo del Gruppo Bvlgari commenta: “Siamo immensamente orgogliosi di aver contribuito al restauro delle sculture del Vittoriano, un monumento straordinario e imponente che, con la sua maestosità, incarna un legame profondo tra passato e presente, ergendosi nel cuore di Roma e celebrando l’unita d’Italia. Il nostro intervento è stato soprattutto focalizzato verso le sculture di marmo e di bronzo, che noi consideriamo i gioielli del Vittoriano. La Città Eterna è da sempre una fonte inesauribile di ispirazione per Bvlgari, e per noi è fondamentale valorizzare, conservare e rendere accessibile al pubblico il suo straordinario patrimonio storico e culturale. Questo impegno rappresenta non solo una responsabilità verso la nostra storia, ma anche un valore imprescindibile per costruire un futuro che permetta di trasmettere la nostra eredità alle generazioni a venire.” Un patrimonio storico-artistico unico al mondo che, per l’intera durata dei lavori, è rimasto accessibile a cittadini e turisti grazie ad un programma di visite guidate che ha riscosso grande apprezzamento da parte del pubblico anche grazie alla possibilità di salire sui ponteggi e vedere dal vivo gli operatori a lavoro sulle opere. Una modalità, quella del “cantiere aperto” già adottata dall’Istituto in occasione del restauro conservativo dell’Altare della Patria volta ad avvicinare il pubblico ad una piena conoscenza del monumento.
Bergamo, Donizetti opera 2024
“ZORAIDA DI GRANATA”
Melodramma eroico su libretto di Bartolomeo Merelli e Jacopo Ferretti (versione rinnovata)
Musica di Gaetano Donizetti
Almuzir KONU KIM
Zoraida ZUZANA MARKOVÁ
Abenamet CECILIA MOLINARI
Almanzor TUTY HERNÀNDEZ
Ines LILLA TAKÁCS
Alì VALERIO MORELLI
Orchestra Gli Originali
Coro dell’Accademia Teatri alla Scala
Direttore Alberto Zanardi
Maestro del coro Salvo Sgrò
Regia Bruno Ravella
Scene e costumi Gary McCann
Luci Daniele Naldi
Bergamo, Teatro Sociale, 16 novembre 2024
Il progetto “#Donizetti200” è una sorta d’ideale percorso che di anno in anno accompagna la carriera di Donizetti presentando un’opera che compie duecento anni dalla rappresentazione valorizzando i titoli meno noti e frequentati. La proposta di quest’anno è parsa particolarmente interessante trattandosi della prima ripresa moderna di “Zoraida di Granata” nella versione rimaneggiata per Roma nel 1824. Il progetto complessivo – in collaborazione con il festival di Wexford – ha visto andare in scena nello stesso anno le due versioni con lo stesso allestimento. In Irlanda l’originale del 1822, a Bergamo la revisione del 1824 che segnò il primo autentico successo del compositore sulla scena romana destinato a segnare una svolta artistica – e anche umana (l’apertura dei salotti romani lo porterà a conoscere la futura moglie Virginia Vasselli) nella vita di Donizetti.
A Roma l’originario libretto di Merelli – tratta da quel “Gonzalvo da Corboda” che era già servito a Cherubini per “Les Abencérages” – è rivisto e ampliato da Jacopo Ferretti mentre sul piano musicale oltre alla musica per le nuove sezioni si riscontra soprattutto la riscrittura della parte del protagonista Abenamet – originariamente concepita per tenore – per mezzosoprano richiamandosi alla grande tradizione rossiniana. Opera giovanile ma in cui per la prima volta le qualità del giovane compositore riescono a farsi valere in modo compiuto. Il modello rossiniano è certamente imperante ma qualcosa di nuovo comincia a farsi strada, le formule non seguono più lo svolgimento previsto e in alcuni brani – come l’aria di Zoraida “Rose un dì spiegaste” già si percepisce quella che sarà la futura arte donizettiana. L’esecuzione musicale è affidata ad Alberto Zanardi, giovane direttore già assistente di Frizza e in possesso di un senso storico e stilistico di questo repertorio davvero ammirevole. La sua è una direzione curata, giustamente brillante – molta di questa musica lo richiede – ma capace anche di esaltare quel lirismo soffuso che già traspare e che sarà una delle cifre dell’estetica donizettiana. Alle prese con una partitura assai complessa tiene in mano con sicurezza le redini e riesce a valorizzarne i dettagli senza mai perdere il senso del grande affresco complessivo. L’Orchestra Gli Originali non è sempre inappuntabile ma ha il merito di dare a questa musica il giusto colore e la giusta intensità che trovano ambito ideale negli spazi ridotti del Teatro Sociale. Il Coro dell’Accademia Teatro alla Scala conferma i meriti che abbiamo riconosciuto nelle precedenti esibizioni.
Konu Kim – già nel cast di Wexford – affronta il tiranno Almuzir con notevole baldanza vocale. Alle prese con una parte ampia e impegnativa – si ricordi che fu scritta per Donzelli – mostra una grande sicurezza su tutta la tessitura, con gravi pieni e acuti sicuri e ben proiettati. Non così nel fraseggio che risulta un po’ povero nel gioco di colori e accenti. Il cantante è ancora giovane e su questo terreno può sicuramente ancora maturare perché il materiale vocale è di sicuro interessante.
Cecilia Molinari splende radiosa nelle vesti dell’eroico Abenamet. La voce non è di grande ampiezza – ma poco importa in uno spazio come questo e con questo peso orchestrale – ma qualità di canto e fraseggio da autentica belcantista. Timbro morbido e seducente e tecnica impeccabile sono unite a un’interprete di sensibilità non comune. La nobiltà di un eroismo araldico e stilizzato, autenticamente classico, si unisce nella sua prova a una sincerità di affetti e di accenti che non può lasciare indifferente.
L’amata Zoraida è Zuzana Marková soprano ceco dal timbro cristallino e dall’innata eleganza. Pulita e precisa nelle colorature supera con sicurezza i passaggi d’agilità ma è soprattutto nei momenti più lirici e dolenti – come la già citata aria delle rose – che emerge al meglio la qualità di un canto di aristocratico nitore. Interpretativamente coglie il carattere volitivo di Zoraida, forte di fronte alle avversità senza mai rinunciare alla sua innata dolcezza. La seducente figura e l’ottima dizione italiana completano ottimamente il quadro. Gli altri ruoli sono affidati ai giovani della Bottega Donizetti che hanno saputo farsi decisamente apprezzare. Valerio Morelli ha una voce di basso molto bella, ricca di suono e ben proiettata con cui da il giusto risalto al perfido Alì, vera anima nera della vicenda mentre la giovane ungherese Lilla Takács nei panni della schiava Ines affronta con gusto e bravura la non facile aria di sorbetto “Del destin la tirannia”. Troppo breve la parte di Almanzor per valutare più compiutamente la prova di Tuty Hernàndez.
La regia di Bruno Ravella declina il tema della guerra civile calandolo nella nostra contemporaneità. La scena si svolge nel luogo simbolo delle guerre balcaniche, la biblioteca di Sarajevo distrutta dai bombardamenti serbi e ricostruita in scena con notevole realismo. I costumi sono contemporanei, abiti eleganti per i civili e divise per i soldati. L’attualizzazione non aggiunge molto – certi temi sono sempre attuali e non è necessario modernizzarli forzatamente – però lo spettacolo e svolto con grande coerenza, e in fondo risulta convincente e non stridente con l’atmosfera dell’opera anche perché la vicenda è seguita con rigore e senza stravolgimenti narrativi. Le scene di Gary McCann sfruttano il ridotto palcoscenico del Teatro Sociale creando illusioni di monumentalità e molto suggestive risultano le luci di Daniele Naldi. Una nota di merito per l’ottima recitazione di tutti gli interpreti con un particolare elogio per la Molinari che si muove in scena con la naturalezza di una vera attrice. Foto Gianfranco Rota
William Byrd (c.1543-1623): “My Ladye Nevells Booke”. Pieter Jan Belder (clavicembalo). Registrazione: 26 maggio 2012 (tr. 8, 10-13), Novembre 2017 (tr.22-24), Marzo 2018 (tr. 31, 32 & 38) e 29-30 Settembre 2021, in Olanda. T. Time: 69′ 22″ (CD1), 68′ 27″ (CD2), 63′ 51″ (CD3). 3CD Brilliant Classics 96887
Il manoscritto “My Ladye Nevells Booke”, contenente musiche di William Byrd, sicuramente uno dei più famosi compositori inglesi del periodo rinascimentale insieme al più anziano Thomas Tallis, costituisce con il Fitzwilliam Virginal Book una delle principali fonti della musica inglese dell’epoca per strumenti a tastiera in area inglese. Copiato da John Baldwin, un corista della Cappella di Windsor, che, oltre a essere uno dei maggiori calligrafi dell’epoca, fu un grande ammiratore di William Byrd, questo manoscritto, risalente al 1591, consta di ben 192 fogli in formato oblungo, ciascuno dei quali composto da un pentagramma a 4 o a 6 linee, nei quali è possibile leggere ben 42 brani del compositore inglese. Passato alla storia come il “padre della musica”, secondo quanto fu scritto, dopo la sua morte, nei registri della Cappella Reale, Byrd visse in un periodo particolarmente turbolento della storia religiosa inglese, seguito allo scisma della chiesa Anglicana che tante divisioni aveva creato e che comunque non toccò il compositore inglese, il quale, nonostante fosse di fede cattolica, fu particolarmente apprezzato dalla regina Elisabetta I, amante della musica. In questa raccolta, della quale non si conosce con precisione la dedicataria, da identificarsi, secondo alcuni studiosi, in Elisabeth Nevill, moglie di Sir Henry Nevill della Casa di Billingbear, il cui stemma è riportato nel frontespizio, è possibile trovare una sintesi dello stile di Byrd che si esprime nelle varie forme dell’epoca, rappresentate dalle danze, come le pavane, per la verità un po’ cupe, e le gagliarde, dalle variazioni, dalle marce, dalle fantasie e da The Battell, scritta secondo alcuni dopo la vittoria della flotta inglese sull’Invincibile armata di Filippo II di Spagna o più verosimilmente ispirata alle Rivolte del Conte di Desmond per la presenza di una marcia irlandese . Non nuovo all’incisione di integrali, Pieter Jan Belder, al quale si deve una pregevole edizione di tutte le sonate di Scarlatti che, insieme a quella di Scott Ross, costituisce certamente un lavoro di riferimento, si accosta a queste composizioni con profondo senso dello stile e ne evidenzia la varietà sfruttando al meglio le possibilità foniche (il registro da quattro piedi per esempio in The flute and the droome della battaglia) e timbriche dei cinque strumenti di cui si è servito, tra i quali, insieme ad eccellenti copie, spicca un virginale originale di Johannes (?) Ruckers risalente al 1604. Si tratta, indefinitiva, di un’edizione di riferimento dell’opera del grande musicista inglese.
Roma, Teatro dell’Opera
SIMON BOCCANEGRA
di Giuseppe Verdi
su libretto di Francesco Maria Piave
Il Teatro dell’Opera di Roma si prepara a inaugurare un nuovo allestimento di Simon Boccanegra, il celebre melodramma in un prologo e tre atti di Giuseppe Verdi, su libretto di Francesco Maria Piave. Questo capolavoro, che intreccia potere, amore e riconciliazione, sarà presentato sotto la bacchetta del direttore musicale Michele Mariotti, per una produzione che promette emozioni intense e una qualità artistica eccelsa. La regia, affidata al visionario Richard Jones, si preannuncia innovativa, in grado di esplorare i risvolti più profondi del dramma verdiano. Le scene e i costumi, curati da Antony McDonald, offriranno un’esperienza visiva elegante e potente, arricchita dal lavoro del light designer Adam Silverman, capace di trasformare ogni attimo in un quadro vivido. La coreografia per i movimenti mimici è firmata da Sarah Kate Fahie, mentre il celebre Renzo Musumeci Greco, maestro d’armi di fama internazionale, si occuperà delle sequenze di duelli e azioni sceniche. Il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, diretto da Ciro Visco, sarà protagonista di momenti corali che esalteranno la ricchezza musicale e drammatica dell’opera. L’opera vedrà alternarsi interpreti di straordinaria levatura. Nel ruolo del protagonista, il doge Simon Boccanegra, si esibiranno Luca Salsi e Claudio Sgura (nelle repliche del 29 novembre, 1 e 4 dicembre). A dar voce alla sua tormentata figlia Maria, conosciuta come Amelia, saranno Eleonora Buratto e Maria Motolygina. Il personaggio di Jacopo Fiesco, figura cardine della vicenda, sarà interpretato da Michele Pertusi e Dmitry Ulyanov, mentre il giovane e impetuoso Gabriele Adorno avrà il timbro e la passione di Stefan Pop e Anthony Ciaramitaro. A completare il cast, il malvagio Paolo Albiani, interpretato da Gevorg Hakobyan, e Luciano Leoni nei panni di Pietro. L’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, diretta da Michele Mariotti, darà vita alla complessa e affascinante partitura verdiana, in un allestimento che si presenta come una nuova pietra miliare per il teatro romano. La profondità psicologica dei personaggi, unita all’impatto drammatico della musica e alla raffinatezza visiva della messa in scena, farà di questo Simon Boccanegra un appuntamento imperdibile per tutti gli appassionati di opera. Le rappresentazioni si terranno dal 27 novembre al 05 dicembre, con un cast d’eccellenza pronto a rendere omaggio a uno dei titoli più amati del repertorio verdiano. Un’occasione unica per immergersi nell’intensità emotiva e nella bellezza musicale di un’opera senza tempo. Qui per tutti i dettagli.