Roma, Teatro Vascello
ERODIADE
di Giovanni Testori
Con Francesca Benedetti
Drammaturgia e regia di Marco Carniti
Video Artist Francesco Scandale
Musiche Originali David Barittoni
Aiuto regia Francesco Lonano
Produzione La Fabbrica dell’Attore
In collaborazione con l’Associazione Giovanni Testori
Roma, 26 Marzo 2025
Non è la scena, no; non è la platea che si accende e si consuma. È un vuoto che brucia. È un altare nudo, senza segni, senza ornamento. È lì che Francesca Benedetti appare, o forse si offre, o forse si sacrifica. Erodiade. Non quella dei libri, né quella dei Vangeli o delle iconografie smaltate d’oro e sangue che i secoli ci hanno lasciato a indurci pietà o orrore. È Erodiade la donna. La sposa, la madre scacciata, la regina che si disfa del diadema e resta carne, carne sola. E se ci si aspetta una scena, un luogo da abitare, si sbaglia. La Benedetti non abita: possiede, invade, squassa. Eppure non si muove. Sta seduta, sta eretta, sta dentro quella tunica rossa che è più carne che stoffa, più sangue che ornamento. Non c’è gesto che non sia voce, non c’è voce che non sia un fendente, un colpo, un graffio che pare affondare nelle fibre stanche dei nostri petti. Perché Erodiade la vediamo lì, ma siamo noi. È la nostra fame. È la fame di chi ha amato e non è stato ricambiato. Di chi ha teso le braccia verso l’amato e non ha ricevuto che la luce crudele del rifiuto. Francesca Benedetti è la parola, ma una parola che sanguina, che si schianta contro l’aria densa e immobile del Teatro Vascello. Lo spazio è una cella vuota. È il sepolcro di quel Giovanni che l’ha negata e che ora, decapitato, le offre un dialogo muto, una risposta che non arriverà mai. E lei, donna, madre, amante e regina, s’incarna in un monologo che è un salmo, un lamento, una bestemmia e una supplica. Tutto insieme, tutto mischiato, come fa Dio, quando ci confonde. Marco Carniti la lascia fare. Non le costruisce attorno alcuna prigione. La scena è una croce o un trono, non importa. È il luogo dove Erodiade, ancor prima di parlare, già si è offerta. Non c’è altro che lei. E le immagini che scorrono, quei disegni febbrili della testa recisa del Battista, altro non sono che le visioni che le bucano la mente, che le squarciano la memoria. Francesco Scandale le fa fluire, quelle teste. Sono maschere, sono volti e sono il Vuoto. La nostra fame di vedere, dicevano i Greci, è sempre la fame di vedere il nulla. E Benedetti ci ciabatta addosso quel nulla come una veste sporca di sangue. E lei, Erodiade, cosa fa? Non supplica, non aspetta, non ottiene. Benedetti la fa decidere. La fa scegliere. La fa desiderare con un dolore così ostinato, così vero, che è impossibile distogliere gli occhi. La sua voce scava, scava fino a far risalire quel lamento che sa di maternità e di stupro, di sacrificio e di gioia perduta. Ogni sillaba è pronunciata come si pronuncia una condanna a morte. E ogni pausa è un respiro negato. L’aria manca. Il pubblico, il pubblico rimane in apnea. Non applaude, non si agita. Rimane lì, serrato nelle poltrone rosse del Vascello, come bloccato da una mano che preme forte sul petto. Erodiade vorrebbe darsi la morte. Ma non può. Il coltello le viene strappato dalle mani. Ma il sangue esce lo stesso, e non si sa se è suo o se è nostro. È il miracolo del teatro che non imita ma rifà. Non rappresenta, ma produce. E Carniti, con Barittoni, con la Benedetti, lo sanno bene: questo non è uno spettacolo. È un’azione che ci strappa via i veli e ci lascia nudi davanti all’assenza di Dio. E poi? Poi, niente. La Benedetti resta lì, ancora, come una statua cui hanno sottratto l’anima, o forse cui hanno lasciato solo quella. E allora, il pubblico, finalmente, si scioglie. Applaude, sì. Ma non è un applauso. È un ringhio. È un grido che viene da lontano. È un applauso che chiede pietà, non approvazione. Che chiede di essere sollevato da quell’abisso di desiderio e di perdita. Questa Erodiade, questa di Francesca Benedetti, non è un personaggio. È l’urlo antico di ogni madre, di ogni amante, di ogni creatura che chiede e non riceve. Che dà tutto e non ottiene nulla. E che, come dicevano i Greci, viene inchiodata a un fato più grande di lei. Ma lo fa in piedi, lo fa parlando. Lo fa con la voce che non smette mai di suonare, anche dopo che il sipario si chiude.
RBR Dance Company – Illusionisti della Danza, compagnia e associazione culturale ispirata dall’illusionismo, arriva sabato 29 marzo 2025 al Teatro Astra di Verona con il suggestivo spettacolo “The Man” per la regia di Cristiano Fagioli, che ne cura anche le coreografie insieme a Cristina Ledri. In occasione del Giubileo dell’anno 2025, la compagnia propone questo spettacolo unico, una vincente coproduzione con la Camerata Musicale Barese, che ha debuttato al Teatro Petruzzelli di Bari nel 2015 circuitando fino al 2020.“The Man”debutterà nelle città di Modena, Verona, Fasano, Matera e Taranto. Lo spettacolo, ispirato al film di Mel Gibson “La Passione di Cristo”, è il racconto di un uomo e del suo tormento, del suo sacrificio come manifestazione di amore infinito, eroico e tenace.
Di seguito il calendario con le date al momento confermate:
28 marzo 2025 – Teatro Michelangelo, Modena
29 marzo 2025 – Teatro Astra, Verona
14 aprile 2025 – Teatro Kennedy, Fasano
15 aprile 2025 – Auditorium Gervasio, Matera
16 aprile 2025 – Teatro Orfeo, Taranto
CD1: Mel Bonis (1858-1937); Henriette Renié (1875-1956); Cécile Chaminade (1857-1944); Hedwige Chrétien (1859-1944); Marie Jaëll (1846-1925); Rita Strohl (1865-1941); Charlotte Sohy (1887-1955)
CD2: Cécile Chaminade (1857-1944); Rita Strohl (1865-1941); Charlotte Sohy (1887-1955);
CD3: Mel Bonis (1858-1937); Lili Boulanger (1893-1918); Louise Farrenc (1804-1875); Nadia Boulanger (1887-1979); Marie Jaëll (1846-1925);
CD4: Cécile Chaminade (1857-1944); Virginie Morel (1799-1869); Mel Bonis (1858-1937); Jeanne Danglas (1871-1915); Pauline Viardot (1821-1910);
CD5: Mel Bonis (1858-1937); Cécile Chaminade (1857-1944); Mel Bonis (1858-1937); Pauline Viardot (1821-1910); Charlotte Sohy (1887-1955);
CD6: Nadia Boulanger (1887-1979); Marie Jaëll (1846-1925); Mel Bonis (1858-1937); Lili Boulanger (1893-1918); Mel Bonis (1858-1937);
CD7: Augusta Holmès (1847-1903); Louise Farrenc (1804-1875); Augusta Holmès (1847-1903); Jeanne Danglas (1871-1915); Marthe Bracquemond (1898-1973); Clémence de Grandval (1828-1907); Marie-Foscarine Damaschino (1844-1921); Madeleine Jaeger (1868-1905); Marthe Grumbach (1871-1932); Madeleine Lemariey (active early 20th century);
CD8: Augusta Holmès (1847-1903); Hélène de Montgeroult (1764-1836); Pauline Viardot (1821-1910); Clémence de Grandval (1828-1907).
Orchestre national du Capitole de Toulouse. Leo Hussain (direttore) Orchestre National de France. Débora Waldman (direttore). Orchestre national de Metz Grand Est. David Reiland (direttore). Les siècles. François-Xavier Roth (direttore). Victor Julien-Laferrière (violoncello). Théo Fouchenneret (pianoforte). Cyrille Dubois (tenore); Tristan Raës (pianoforte). Roberto Prosseda (pianoforte). Alessandra Ammara (pianoforte). François Dumont (pianoforte). Anaïs Constans (soprano). Marie Vermeulin (pianoforte). Yann Beuron (tenore). David Zobel (pianoforte). Anna Agafia (violino). Frank Braley (pianoforte).Alexandre Pascal (violino). Héloïse Luzzati (violoncello); Célia Oneto Bensaid (pianoforte). Registrazioni: Toulouse (La Halle aux Grains), France, 31marzo – 2 aprile 2022; Paris (Auditorium de la Maison de la Radio et de la Musique), France, 1 Luglio 2021; Metz (Arsenal / Cité musical-Metz), Francia, 12-16 gennaio 2021; Tourcoing (Théâtre Raymond Devos), Francia, 8-9 gennaio 2022, Venezia tra il 2019 e il 2022. 8 Cd Palazetto Bru Zane
Di grande pregio, come del resto accade sempre di fronte alle proposte discografiche del Palazzetto Bru Zane di Venezia, è anche quest’ultima produzione, Compositrices, estremamente impegnativa, in quanto costituita da ben 8 CD dedicati alle compositrici francesi che hanno vissuto e operato tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Se i nomi di alcune di loro sono noti, come quelli di Cécile Chaminade o di Pauline Viardot, famosa, per la verità, più per la sua attività di cantante lirica, o di Nadia Boulanger, che, tra l’altro, fu l’insegnante di Philipp Glass, Copland e Bernstein, quelli delle altre sono conosciuti soltanto da un piccolo pubblico di intenditori. Si tratta della sorella di Nadia, Lili, di Henriette Renié, di Hedwige Chrétien, di Marie Jaëll, di Rita Strohl, di Charlotte Sohy, di Virginie Morel (splendidi i suoi Huit Études mélodiques del 1857), di Mel Bonis, che in questo progetto si distingue per la tenera e dolce cantabilità delle sue liriche per tenore e pianoforte, e di Jeanne Danglas, il cui L’Amour s’éveille mostra evidenti influenze del mondo dell’operetta viennese, più che francese, e in particolar modo di Léhar, o ancora di Augusta Holmès (molto bello il suo brano sinfonico Andromede nel quale fanno capolino influenze wagneriane), di Louise Farrenc, il cui trio per violino, violoncello e pianoforte si segnala per la dolce cantabilità ma anche per aspetti virtuosistici, di Marthe Bracquemond (gradevoli le sue Trois per tenore e pianoforte), di Clémence de Grandval (frizzante il suo Le Bohèmien), di Marie-Foscarine Damaschino (elegante il suo A une femme), di Madeleine Jaeger, di Marthe Grumbach e di Madeleine Lemariey. Si tratta di un mondo musicale, fino a questo momento poco esplorato, che meriterebbe maggiore attenzione e che, in questa proposta discografica, è ben valorizzato dalle ottime interpretazioni di compagini orchestrali di prestigio come l’Orchestre national du Capitole de Toulouse diretta da Leo Hussain, l’Orchestre National de France, diretta egregiamente da una donna, Débora Waldman, l’Orchestre national de Metz Grand Est diretta da David Reiland, e Les siècles, diretta da François-Xavier Roth, e da interpreti di valore, di cui è qui inutile ripetere qui la lunga lista di nomi che si possono leggere nella locandina. Si tratta di un lavoro pregevole e impegnativo, completato sempre da un Booklet di ottimo livello musicologico, ma al quale forse si potrebbe fare un appunto: non si sarebbero potuti fare dei lavori monografici per le compositrici più importanti e inserire in cd miscellanei i nomi delle altre? Così si ha l’impressione di un lavoro leggermente dispersivo.
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
TI HO SPOSATO PER ALLEGRIA
di Natalia Ginzburg
Con Marianella Bargilli e Giampiero Ingrassia
e con Lucia Vasini, Claudia Donadoni, Viola Lucio
scenografie Fabiana Di Marco
costumi Pamela Aicardi
regia Emilio Russo
produzione Tieffe Teatro Milano, Compagnia Molière, Teatro Quirino
Roma, 25 marzo 2025
«Io ti ho sposato per allegria, tu invece no. Tu mi hai sposato per disperazione.»
Lo dice Giuliana, e mentre lo dice si capisce che non lo dice per ferire. Lo dice come si dicono le cose che si sono pensate troppo a lungo, e che prima o poi dovevano uscire. È una frase nuda, senza giri, e contiene già tutta la trama. Che poi, più che una trama, è un attraversamento. Perché Ti ho sposato per allegria non è una commedia con un intreccio, ma un confronto a due voci. Una commedia “da camera” dove il tempo scorre senza veri eventi, ma dove il teatro avviene in ogni silenzio, in ogni pausa, in ogni cambio di posizione sulla scena. Il Teatro Quirino ha ospitato questa nuova messinscena del testo di Natalia Ginzburg, prima delle sue undici commedie, con la regia di Emilio Russo. Una regia che ha avuto il merito – non scontato – di non voler attualizzare a forza, di non cercare aggiornamenti posticci. Il tempo resta quello della metà degli anni Sessanta, ma lo spettatore riconosce nei personaggi delle verità ancora vive: l’inadeguatezza, il bisogno di sentirsi accolti, la fatica a coniugare intimità e aspettative. Lo spazio scenico, firmato da Fabiana Di Marco, è costruito su una logica geometrica, minimale, quasi astratta. Una neutralità visiva che lascia il centro alla parola e al gesto. Ma a disturbare quella pulizia arriva una costellazione di manichini, presenze mute che aumentano man mano che i personaggi vengono evocati nel dialogo. La loro funzione è chiaramente simbolica, ma la loro efficacia è discutibile: troppo reali per essere evocativi, troppo statici per essere drammaturgicamente dinamici. Non sono figure metaforiche, né suggeriscono dimensioni interiori: sono segnali visivi che restano in superficie, come didascalie corporee.Marianella Bargilli è Giuliana. Ne dà una lettura calibrata, trattenuta, che evita sia l’eccesso caricaturale della ragazza “spiritosa”, sia la deriva patetica della moglie frustrata. Giuliana è fragile ma non sciocca, irrequieta ma non confusa. È una donna che ha conosciuto la precarietà affettiva e che cerca, con tutti i mezzi a sua disposizione – la parlantina, il disordine, l’ironia – di costruire un angolo di pace. Ma Pietro non glielo permette del tutto. Giampiero Ingrassia, nel ruolo, restituisce con rigore il borghese trattenuto, educato, ma bloccato da un sistema valoriale ereditato e mai discusso. Il suo Pietro è un uomo che ama senza coraggio. Che accoglie, ma giudica. Che ascolta, ma non comprende. È l’antagonista perfetto non per ostilità, ma per distanza antropologica. Lucia Vasini interpreta la madre di Pietro, e lo fa con una misura che sorprende. Il personaggio, già fortemente scritto come presenza ingombrante anche quando non c’è, qui acquista una forza scenica che supera la parola. Quando entra in scena – perché qui non resta solo evocata, ma ha una vera e propria presenza fisica – lo fa con un’energia disarmante, che occupa lo spazio senza violenza, solo con la forza della gravità emotiva. Non ha bisogno di alzare la voce per far sentire il peso del giudizio. Il suo modo di parlare, la postura, la gestione dello spazio scenico, suggeriscono perfettamente quel tipo di autorità familiare che si insinua nella vita degli altri come fosse cosa propria. Ed è un merito, non un eccesso: la Vasini riesce a dominare la scena senza mai rubarla. Alcuni personaggi minori, come la sorella e la serva, appaiono più come funzioni narrative che come figure sviluppate. Le loro scene – brevi, talvolta volutamente farsesche – sembrano a tratti eccedere nella gestualità, come se dovessero alleggerire la tensione drammatica centrale. Ma proprio in questo meccanismo si nota un piccolo squilibrio registico: la Ginzburg non ha bisogno di comicità d’appoggio, perché la sua è già una scrittura che contiene l’ironia nel cuore della malinconia. La partitura musicale è affidata a un pianoforte che compare in diversi momenti a sottolineare i cambi di quadro o le sospensioni. Ma il suo intervento non è sempre dosato: in alcuni passaggi il volume si fa invadente, interrompe più che accompagnare. In uno spettacolo fondato sulla misura e sulla sottrazione, il suono dovrebbe sapere come farsi da parte. E qui, invece, ogni tanto prende troppo spazio, arrivando a coprire la parola, che in Ginzburg è l’unico vero motore drammaturgico. Anche il disegno luci, firmato da Lucio Diana, alterna soluzioni efficaci a scelte più didascaliche. Ci sono momenti in cui la luce sa suggerire, sfumare, accompagnare. Ma in altri casi sembra voler guidare lo spettatore con troppa insistenza, come se non si fidasse della scena. Alcuni tagli risultano fuori fuoco, o troppo letterali, e questo va un po’ in contrasto con la scrittura dell’autrice, che è tutta costruita sulla mezza tinta, sull’ambiguità, sulla sospensione. Eppure, lo spettacolo nel suo complesso funziona. Proprio perché non cerca l’effetto, non vuole sedurre. Accetta il rischio dell’apparente staticità, ma dentro a quella immobilità scava. E lo fa con una compagnia di interpreti che non cerca il protagonismo, ma il tono giusto. La Ginzburg scrive per una voce teatrale che somiglia a quella della vita vera: una voce che balbetta, che sbaglia i tempi, che lascia frasi a metà. E questa messinscena ha avuto l’intelligenza di non correggerla, di non renderla più teatrale di quanto già sia. Non si esce ridendo da Ti ho sposato per allegria. Si esce con la sensazione che certi dolori siano così comuni da diventare universali, e che stare insieme sia una costruzione quotidiana, fragile, imperfetta. Ma forse proprio per questo ancora possibile.
Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
ZZZ … DESERT
di Francesca Leone
organizzazione a cura della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
in collaborazione con Intesa Sanpaolo
Roma, 25 marzo 2025
C’è sempre un momento sospeso che precede la forma, una soglia silenziosa dove i materiali attendono di essere interrogati. Nell’opera di Francesca Leone questa attesa si traduce in linguaggio visivo, in pratica costante, in gesto riflessivo. La sua installazione Zzz…desert, presentata alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, conferma una ricerca coerente e stratificata, che trova nella materia usurata e nel suono della memoria un campo di azione estetica e concettuale. L’intervento si articola come una ricostruzione immaginifica di un deserto, non tanto reale quanto interiore. Un paesaggio che prende corpo attraverso sculture metalliche modellate in forme che richiamano rocce e fioriture inattese. Il deserto evocato non è arido né muto: vibra di stratificazioni affettive, memorie cinematografiche, tracce biografiche che non si dichiarano, ma si avvertono. Il titolo stesso – Zzz…desert – contiene un’ambiguità affascinante: il suono del sonno, l’eco di un ronzio, l’inizio di un sogno. Le sculture sono accompagnate da un paesaggio sonoro realizzato dal compositore Marco Turriziani, che intreccia con precisione il ronzio delle api al sussurro del vento e a profondi rimbombi metallici. Il suono non agisce come semplice sottofondo, ma contribuisce attivamente alla costruzione dell’ambiente percettivo, suggerendo allo spettatore una dimensione immersiva che invita alla contemplazione lenta, senza forzature narrative. Francesca Leone si muove da tempo in una direzione che evita la monumentalità retorica. Le sue installazioni, anche quando imponenti nelle dimensioni, mantengono una qualità raccolta, quasi intima. L’utilizzo di materiali di scarto – soprattutto lamiere arrugginite e ossidate, reperite in cantieri dismessi – si lega a una poetica del riuso che va oltre l’orizzonte ecologico. Non si tratta infatti di un semplice messaggio ambientalista, quanto piuttosto di un’attenzione specifica alla memoria impressa nella materia. Il ferro, già corroso, reca in sé le tracce del tempo, e l’artista non le cancella: le lascia affiorare, le esalta, le trasforma in struttura narrativa silenziosa. L’intervento visivo e pittorico sulle superfici – colorazioni vive, stratificazioni cromatiche che contrastano con l’opacità naturale del metallo – produce un’interazione costante tra degrado e vitalità. Le rose, in particolare, sono trattate con una forza espressiva che le sottrae a qualsiasi tentazione decorativa: la loro presenza appare simbolica, ma non sentimentale. Si impongono come emblemi di resistenza, forme vive che nascono dalla ruggine e dalla polvere. La materia, così lavorata, suggerisce un tempo lungo, un tempo non misurabile, che richiama la lentezza della trasformazione naturale. Sebbene non si presenti come opera autobiografica in senso stretto, Zzz…desert conserva nel suo impianto visivo e concettuale un legame evidente con la storia personale dell’artista. Non tanto per citazione diretta, quanto per atmosfera. La costruzione dello spazio, la sospensione percettiva, l’attenzione al silenzio, rimandano a un immaginario che trova una consonanza con quello dei film di Sergio Leone, padre dell’artista. La polvere, le rocce, l’aria immobile, i vuoti narrativi attraversati da presenze enigmatiche: elementi che abitano tanto il cinema quanto l’installazione, pur appartenendo a linguaggi differenti. Zzz…desert conserva il segno di una poetica dello sguardo assimilata sui set, ma reinventata in un’intensa visione pittorica e scultorea. Il rapporto con l’eredità paterna non è tematizzato, ma filtrato, trasfigurato attraverso una pratica artistica del tutto autonoma. La composizione dello spazio non risponde a una logica centrale o gerarchica. Le sculture si distribuiscono come frammenti emersi da un paesaggio interrotto, come elementi che appartengono a un sistema più vasto, solo in parte visibile. Questa scelta installativa favorisce un’esperienza dinamica e soggettiva da parte dello spettatore, che non è condotto, ma lasciato libero di costruire il proprio percorso percettivo. L’allestimento è arricchito da un’interessante collaborazione con Intesa Sanpaolo, che ha concesso in prestito una delle rose metalliche che compongono l’opera. Le altre due, donate da Francesca Leone alla GNAM, entreranno a far parte della collezione permanente del museo e saranno esposte nel Giardino Aldrovandi, dando continuità al dialogo tra arte e spazio naturale. Zzz…desert si inserisce in un momento di particolare rilievo nel percorso espositivo dell’artista, che rappresenterà l’Italia al Padiglione Italiano dell’Expo 2025 di Osaka. La partecipazione all’evento internazionale conferma la solidità di una ricerca artistica che ha saputo svilupparsi fuori da mode e pressioni di mercato, con coerenza e precisione. Non è comune, in un panorama artistico talvolta troppo incline all’effimero, incontrare un lavoro che coniughi attenzione al materiale, sensibilità spaziale e profondità concettuale con questa misura. Il deserto, nella lettura di Leone, non è luogo di morte ma di rigenerazione lenta. È lo spazio dove la forma si distacca dalla funzione, dove la bellezza non è immediata, ma conquistata attraverso un processo di stratificazione e riscrittura. Le rocce e le rose, pur nate dalla stessa lamiera corrotta, si rispondono con un equilibrio compositivo che alterna peso e leggerezza, opacità e brillantezza, severità e fragilità. L’installazione si conclude senza chiudersi: non c’è un centro simbolico, non c’è una morale da trarre. L’esperienza resta aperta, come il paesaggio che evoca. È in questa apertura che si misura forse la sua qualità più preziosa: quella di restare nello sguardo anche dopo la visita, come un ricordo difficile da collocare, ma impossibile da cancellare. Un’opera che non urla, ma insiste. Che non racconta, ma suggerisce. Che non consola, ma interroga. E che in questa tensione discreta e necessaria trova la sua forza.
Roma, Teatro Vascello
LA PULCE NELL’ ORECCHIO
di Georges Feydeau
traduzione, adattamento e drammaturgia Carmelo Rifici e Tindaro Granata
regia Carmelo Rifici
con Giusto Cucchiarini, Alfonso De Vreese, Giulia Heathfield Di Renzi, Ugo Fiore, Tindaro Granata, Christian La Rosa, Marta Malvestiti, Marco Mavaracchio, Francesca Osso, Alberto Pirazzini, Emilia Tiburzi, Carlotta Viscovo
scene Guido Buganza
costumi Margherita Baldoni
luci Alessandro Verazzi
musiche Zeno Gabaglio
costumi realizzati presso il Laboratorio di Sartoria del Piccolo Teatro di Milano, Teatro d’Europa
produzione LAC Lugano Arte e Cultura, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, La Fabbrica dell’attore – Teatro Vascello di Roma
Carmelo Rifici affronta la regia di una commedia facendo cadere la sua scelta su un esilarante vaudeville di Georges Feydeau, La pulce nell’orecchio, di cui cura adattamento e traduzione insieme a Tindaro Granata. Un lavoro che, pur mantenendo l’impianto originale del testo, rispettandone la vocazione, sottolinea lo spirito giocoso e selvatico della scrittura di Feydeau, ne cerca i piani nascosti, libera i singoli personaggi dal contesto borghese e valorizza i ruoli femminili. Al centro della vicenda, interpretata da un brillante cast di dodici attori, vi è una moglie, Raimonda, la quale, allarmata dal comportamento piuttosto freddo e distratto da parte del marito, l’assicuratore Vittorio Emanuele, sospetta che egli abbia un’amante. Il dubbio – la “pulce nell’orecchio” – le è nato dopo il ritrovamento di un paio di bretelle, simili a quelle indossate abitualmente dal consorte, presso l’Hotel Feydeau, un albergo assai equivoco nei pressi di Parigi. Per mettere alla prova la presunta infedeltà del marito, gli spedisce tramite un’amica, Luciana, un’appassionata e anonima lettera d’amore, cosparsa di profumo, in cui dà appuntamento all’uomo in quello stesso albergo, dove Raimonda si recherà per vedere se il coniuge cadrà nella trappola. Vittorio Emanuele, credendo però che il destinatario effettivo della lettera sia il suo migliore amico, Tornello, la consegna a quest’ultimo. Da qui si creerà una serie di fraintendimenti che indurrà tutti i personaggi ad incontrarsi all’Hotel Feydeau, dove, tra situazioni bizzarre, pareti girevoli, vecchietti che fungono da alibi, inaspettati sosia, sudamericani gelosi e travestimenti vari, cercheranno disperatamente di salvare le apparenze e di uscirne indenni. Qui per tutte le informazioni.
Gli ordinamenti liturgici a Lipsia consentivano che il lungo periodo di astinenza della “Musica figuralis”, con l’impiego cioè di cantate nel servizio liturgico, venisse interrotto, o meglio conoscesse una sospensione, il 25 marzo giorno nel quale si celebrava una delle più importanti feste liturgiche mariane, la Festa dell’Annunciazione a Maria, codificata da oltre un millennio nella tradizione Cristiana occidentale e assunta anche come data iniziale del calendario civile presso certi governi, quello Fiorentino ad esempio, con la considerazione che il 25 marzo si colloca esattamente nove mesi prima del Natale e deve quindi considerarsi come data del concepimento di Gesù.
Per questa festività Bach compose, a nostra conoscenza, due cantate, la numero 182 è la numero 1. La cantata nr. 182 è in realtà un’opera del periodo di Weimar, scritta per la domenica delle Palme che, nel 1714, al tempo e cioè in cui fu realizzata, cadeva appunto Il 25 marzo. Consideriamo qui, dunque la sola cantata BWV nr. 1 Wie schön leuchtet der Morgenstern eseguita Il 25 marzo 1725, una cantata che ha anche la fortuna di aprire il catalogo delle opere bachiane, è con questa pagina, infatti, che si inaugurò l’esecuzione ottocentesca delle opere bachiane promosse dalla società Bach eretta a Lipsia nel 1850. Punto di partenza della partitura è un Corale di Philipp Nicolai (1558-1608) del 1599, che poggia sul ben noto episodio evangelico narrato da Luca (cap. 1 vers. 26-38). Poiché l’evento è solenne, l’organico strumentale previsto da Bach per la Cantata che deve celebrarlo è adatto alla circostanza: una coppia di corni, 2 di oboi da caccia e due parti concertanti di violino in aggiunta a quelle consuete. L’ampio brano introduttivo, una sorta di pastorale in 12/8 che richiama alla mente il clima natalizio, si apre e si chiude con un intervento strumentale e risulta suddiviso in tre sezioni secondo il disegno proposto dalle “stanze” del Corale, due terzine e una quartina. La cantata poi presenta due arie con “da capo”, una per Soprano (Nr.3), accompagnata con oboe da caccia, che riflette il carattere sereno, gioioso della partitura, la seconda, per tenore (Nr.5), unisce due violini concertanti e violini di ripieno, quasi per dare maggiore risalto, spessore, al “suono degli strumenti”, che esplicitamente richiamano il testo. Il Corale conclusivo presenta l’organico completo e affida al secondo corno una parte indipendente, mentre gli altri strumenti hanno la semplice funzione di raddoppio delle parti vocali, e la realizzazione è quella che si addice a una festa cantata.
Nr.1 Coro
Con che bellezza splende la stella del mattino,
piena di grazia e verità del Signore,
il caro germoglio di Iesse!
Tu, figlio di Davide della stirpe di Giacobbe,
mio re e mio sposo,
hai preso possesso del mio cuore,
tu che sei amante
ed amico,
bello e splendente, grande e giusto, ricco di doni,
alto e stupendamente onorato.
Nr.2 – Recitativo (Tenore)
Tu, vero Dio e figlio di Maria,
tu, re degli eletti,
com’è dolce per noi la tua Parola di vita,
che già consentiva agli antichi padri
di contare gli anni e i giorni,
e che Gabriele con gioia
ha annunciato qui a Betlemme!
O dolcezza, o pane del cielo,
che né la tomba, né il pericolo, né la morte
possono strappare dai nostri cuori.
Nr.3 Aria (Soprano)
Celesti fiamme divine, riempite il petto
dei credenti che fortemente vi desiderano!
Le anime provano il potente sentimento
dell’amore ardente
e sperimentano sulla terra le delizie del paradiso.
Nr.4 – Recitativo (Basso)
Uno splendore terreno, una luce corporea
non commuovono la mia anima;
un raggio di gioia mi giunge da Dio,
poiché un dono supremo,
il corpo e il sangue del Salvatore,
è qui per mio conforto.
E’ necessario che
la sovrabbondante benedizione,
a noi destinata dall’eternità
e raccolta dalla nostra fede,
ci ispiri lode e gratitudine.
Nr.5 – Aria (Tenore)
La nostra voce e il suono degli strumenti
saranno
ora e sempre
pronti a porgerti ringraziamenti ed offerte.
Cuore e spirito si elevano
per tutta la vita
con il canto
per lodarti, grande Re.
Nr.6 – Corale
Sono contento dal profondo del cuore
che il mio tesoro sia l’Alfa e l’Omega,
il principio e la fine;
ricompensandomi con il suo salario
mi accoglierà in paradiso,
e perciò batto le mani.
Amen! Amen!
Vieni, bella corona di gioia, non tardare,
ti aspetto con desiderio.
Traduzione Emanuele Antonacci