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Aggiornato: 2 ore 14 min fa

Roma, Spazio Diamante: “Mi abbatto e sono felice”

Mer, 18/12/2024 - 23:59

Roma, Spazio Diamante
MI ABBATTO E SONO FELICE
Il monologo eco-sostenibile
di Daniele Ronco
ispirato a “La decrescita felice” di Maurizio Pallante
produzione Mulino Ad Arte
regia Marco Cavicchioli
Roma, 18 dicembre 2024
I segnali sulla necessità di rivedere il parametro della crescita su cui si fondano le società industriali continuano a moltiplicarsi: l’avvicinarsi dell’esaurimento delle fonti fossili e le guerre per averne il controllo, i mutamenti climatici, lo scioglimento dei ghiacciai, l’aumento dei rifiuti, le devastazioni e l’inquinamento ambientale. Eppure gli economisti e i politici, gli industriali e i sindacalisti con l’ausilio dei mass media continuano a porre nella crescita del prodotto interno lordo il senso stesso dell’attività produttiva. In un mondo finito, con risorse finite e con capacità di carico limitate, una crescita infinita è impossibile, anche se le innovazioni tecnologiche venissero indirizzate a ridurre l’impatto ambientale, il consumo di risorse e la produzione di rifiuti. Queste misure sarebbero travolte dalla crescita della produzione e dei consumi in paesi come la Cina, l’India e il Brasile, dove vive circa la metà della popolazione mondiale. Né si può pensare che si possano mantenere le attuali disparità tra il 20 per cento dell’umanità che consuma l’80 per cento delle risorse e l’80 per cento che deve accontentarsi del 20 per cento. Forse è arrivato il momento di smontare il mito della crescita, di definire nuovi parametri per le attività economiche e produttive, di elaborare un’altra cultura, un altro sapere e un altro saper fare, di sperimentare modi diversi di rapportarsi col mondo, con gli altri e con se stessi. Il Movimento per la Decrescita Felice si propone di mettere in rete le esperienze di persone e gruppi che hanno deciso di vivere meglio consumando meno; di incoraggiare rapporti interpersonali fondati sul dono e la reciprocità anziché sulla competizione e la concorrenza; di utilizzare e favorire la diffusione delle tecnologie che riducono l’impronta ecologica, gli sprechi energetici e la produzione di rifiuti; di impegnarsi politicamente affinché questi obiettivi siano perseguiti anche dalle pubbliche amministrazioni, dallo Stato e dagli organismi internazionali. A tal fine è necessario elaborare un paradigma culturale alternativo al sistema dei valori fondato sull’ossessione della crescita economica illimitata che caratterizza il modo di produzione industriale. Dall’attuale concezione di un «fare finalizzato a fare sempre di più», il lavoro dovrà tornare a essere un «fare bene» finalizzato a rendere il mondo più bello e ospitale per tutti i viventi. Di questa elaborazione, resa drammaticamente urgente dalla necessità di impedire che l’effetto serra esca fuori controllo, il teatro di Daniele Ronco si fa portavoce attraverso lo spettacolo Mi abbatto e sono felice. Andato in scena al Teatro Spazio Diamante di Roma, Mi abbatto e sono felice è un’esperienza teatrale che va oltre la semplice rappresentazione, incarnando concretamente i principi della Decrescita Felice. La scena è spoglia, senza artifici, popolata unicamente da un’essenziale bicicletta e da abiti che sembrano appartenere a un tempo passato, recuperati dal guardaroba del nonno Michele, protagonista evocato e ispiratore dello spettacolo. La scelta minimalista non si limita agli oggetti di scena, ma investe anche i temi e i messaggi: un richiamo deciso alla sobrietà e alla sostenibilità. Daniele ci guida, pedalata dopo pedalata, attraverso un viaggio ironico e pungente tra tre archetipi sociali che incarnano stili di vita e valori opposti: nonno Michele, contadino piemontese e simbolo della decrescita felice, che vive con sobrietà e buon senso lontano dalle logiche del consumismo; Claudio Gimondi, il vicino di casa, espressione del benessere capitalista, divorato da stress e insoddisfazione nonostante i lussi e la modernità; e Mimmo, l’italiano medio, incarnazione della leggerezza disimpegnata, che si esaurisce tra bar, fede calcistica e PILu. Il monologo è un’esplosione di riflessioni, dati scientifici e provocazioni che si intrecciano con la narrazione autobiografica e l’eredità morale lasciata dal nonno di Daniele. Lo spettacolo affronta con intelligenza e ironia temi come l’inquinamento, il surriscaldamento globale, la povertà, la crisi climatica e le disparità economiche. L’adesione ai principi del Movimento per la Decrescita Felice non è solo dichiarata, ma permea ogni aspetto della messa in scena. La regia di Marco Cavicchioli esalta questa coerenza narrativa e scenografica, alternando appunto toni di leggerezza a momenti di profonda intensità. Il ritmo è calibrato per mantenere alta l’attenzione del pubblico, con cambi di luce — generati dallo stesso attore — che sottolineano i passaggi più significativi del racconto. Ronco, con la sua interpretazione, si mette a nudo, trasmettendo autenticità e coinvolgendo gli spettatori in un dialogo che va oltre il palco. Il suo messaggio non è un semplice invito alla riflessione, ma un vero e proprio appello all’azione. “Un attore non deve mentire, innanzitutto a sé stesso“, dichiara Ronco, e questa sincerità emerge in ogni istante della sua performance. Attraverso l’ironia, la denuncia e l’emozione, Mi abbatto e sono felice riesce a trattare temi complessi senza mai risultare didascalico. Il monologo si configura come una denuncia sociale, ma anche come un’opportunità per il pubblico di fermarsi, di dilatare il tempo e di riscoprire il valore della semplicità. In un mondo che sembra correre verso il collasso, spettacoli come questo sono un faro di speranza, un invito a ripensare il nostro rapporto con il pianeta e con gli altri. Mi abbatto e sono felice non è solo teatro: è un manifesto per un futuro più sostenibile, un esempio concreto di come il fare possa tornare a essere un «fare bene», capace di rendere il mondo più bello e ospitale per tutti i viventi. Photocredit @Claudio Bonifazio @Nicola Dodi

Categorie: Musica corale

Leos Janacek: “L’affare Makropulos” (Věc Makropulos)

Mer, 18/12/2024 - 22:30


Leos Janacek: Věc Makropulos
(L’affare Makropulos)
Opera in tre atti su libretto dell’autore basato sull’omonima pièce di Karel Čapek.
Prima rappresentazione: Teatro Nazionale di Brno il 18 dicembre 1926 (a 98 anni dalla prima rappresentazione)
Stephanie Sundine (Emilia Marty)
Richard Margison (Vitek)
Graham Clark (Albert Gregor)
Kathleen Brett (kristine)
Rober Orth (Dr.Kolenaty)
Cornelius Opthof (Jaroslav Prus)
Benoit Boutet (Janek)
Gary Rideout ( Count Hauk-Šendorf )
Marcia Swantson (Una donna delle pulizie)
Steven Horst (Un macchinista)
Gabrielle Prata (Una cameriera)
Orchestra e Coro della Canadian Opera Company
Direttore Berislav Klobucar
Regia Lotfi Mansouri
Scene  Leni Bauer-Ecsy
Costumi  Michael Stennett
Canadian Opera, 1989 

Categorie: Musica corale

“Gianni Schicchi” in scena al Teatro Comunale di Modena il 21 e il 22 dicembre

Mer, 18/12/2024 - 10:40

L’opera va in scena nella versione per orchestra da camera di Ettore Panizza, qui sotto la direzione di Luciano Acocella, in uno spettacolo che il regista Stefano Monti aveva firmato con successo per gli allievi di Mirella Freni nel 2017 e viene ripreso nuovamente per i talenti internazionali del Corso di alto perfezionamento per cantanti lirici del Teatro Comunale. La recita domenicale di Gianni Schicchi sarà trasmessa in diretta sul canale YouTube del Teatro. Riprese a cura degli allievi del Corso di comunicazione in video
GIANNI SCHICCHI Tamon Inoue
LAURETTA Laura Fortino (21/12) / Donatella De Luca ( 22/12)
ZITA DETTA LA VECCHIA Erica Cortese
RINUCCIO Matteo Urbani
GHERARDO Joaquim Cangemi
NELLA Sara Minieri / Anna Barletta
GHERARDINO Jacopo Molinari / Edoardo Berselli / Gregory Lungu
BETTO DI SEGNA Yixuan Li
SIMONE Kyung Ho Cheong
MARCO Tianyi Lin
LA CIESCA Elena Antonini / Chiara Scannapieco
MAESTRO SPINELLOCCIO, medico Luigi Romano
MESSER AMANTIO DI NICOLAO, notaro Marcandrea Mingioni
PINELLINO, calzolaio Aldo Sartori
GUCCIO, tintore Luigi Romano
Direttore Luciano Acocella
Regia Stefano Monti
Scene Rinaldo Rinaldi
Luci Andrea Ricci
Orchestra Filarmonica Italiana
Allestimento Teatro Comunale di Modena

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “L’Avaro”

Mar, 17/12/2024 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
L’AVARO
di Molière
traduzione e adattamento Letizia Russo
con
Ugo Dighero, Mariangeles TorresFabio BaroneStefano DilauroCristian GiammariniPaolo Li VolsiElisabetta MazzulloRebecca RedaelliLuigi Saravo
musiche Paolo Silvestri
costumi Lorenzo Russo Rainaldi
scene Luigi SaravoLorenzo Russo Rainaldi
movimenti coreografici Claudia Monti
luci Aldo Mantovani
regia Luigi Saravo
Roma, 17 Novembre 2024
Portare in scena L’Avaro di Molière significa immergersi in un’operazione culturale che trascende il semplice atto teatrale. Si tratta di un vero e proprio esercizio semiotico, un’analisi stratificata e complessa delle dinamiche simboliche e dei codici culturali che definiscono non solo il testo originale, ma anche il contesto in cui viene riproposto. Al Teatro Quirino Vittorio Gassman, Luigi Saravo non si limita a dirigere un’opera del grande maestro della commedia francese: egli la decostruisce, la ripensa e la ricodifica, immergendola in un linguaggio scenico che dialoga con il nostro tempo, pur mantenendo intatta l’architettura del capolavoro molieriano. La trama, nella sua struttura di superficie, appare lineare: Arpagone, paradigma universale dell’avarizia, si trova al centro di una rete di relazioni familiari e sociali compromesse dalla sua ossessione per il denaro. Eppure, questa linearità non è altro che un’illusione. Molière, come ogni grande narratore, costruisce una macchina narrativa il cui vero motore non è l’intreccio, bensì il significato. L’avarizia di Arpagone non è solo un difetto personale, ma una metafora sistemica, una lente attraverso cui osservare il rapporto dell’uomo con il possesso, il desiderio e il potere. Saravo coglie questo aspetto e lo amplifica attraverso una regia che spinge il testo verso un orizzonte interpretativo più ampio, dove il tempo storico diventa una dimensione flessibile e l’eterno ritorno del vizio umano si manifesta nella sua ciclicità. La scenografia, curata da Saravo e Lorenzo Russo Rainaldi, è un esempio di semiosi visiva che funziona non tanto per ciò che mostra, ma per ciò che suggerisce. Lo spazio scenico si configura come un luogo dell’assenza: pochi oggetti, ridotti all’essenziale, diventano simboli carichi di significato. La cassapanca di Arpagone, fulcro dell’azione e metafora della sua ossessione, non è un semplice contenitore, ma un segno che rimanda a un’intera costellazione di significati: il controllo, la paura, la morte stessa. La spoglia essenzialità dell’arredo non è una scelta estetica, ma un atto teorico, una dichiarazione di poetica che pone lo spettatore di fronte a un vuoto da riempire con il proprio immaginario. Le luci di Aldo Mantovani, a loro volta, non si limitano a illuminare, ma costruiscono un linguaggio visivo che interagisce con la narrazione. Il chiaroscuro, utilizzato in modo sapiente, non è solo un omaggio al barocco, ma un dispositivo semiotico che sottolinea i contrasti morali e psicologici dei personaggi. Le ombre che avvolgono Arpagone nei momenti di solitudine non sono soltanto un effetto estetico: esse diventano parte integrante del racconto, un prolungamento visivo del conflitto interiore del protagonista. Anche i costumi di Lorenzo Russo Rainaldi giocano un ruolo fondamentale in questa architettura simbolica. Gli abiti, ispirati agli anni ’70 ma contaminati da elementi atemporali, trasformano i personaggi in figure archetipiche, riconoscibili ma non collocabili in un’epoca precisa. Questa scelta, apparentemente anacronistica, si rivela profondamente coerente con l’intento di Saravo di trascendere il tempo storico e rendere L’Avaro un’opera universale, capace di parlare direttamente al nostro presente. La colonna sonora di Paolo Silvestri, con la sua discrezione, si inserisce in questo quadro come un contrappunto necessario. Le musiche non sono mai invasive, ma costruiscono una dimensione sonora che amplifica le tensioni emotive e arricchisce la densità semiotica dello spettacolo. Silvestri compone temi che non accompagnano semplicemente l’azione, ma la interpretano, diventando un ulteriore livello di lettura per lo spettatore attento. E poi c’è Ugo Dighero, il cuore pulsante di questa macchina teatrale. Il suo Arpagone non è un semplice personaggio, ma un segno incarnato, un codice che il pubblico è chiamato a decifrare. Dighero evita con intelligenza ogni tentazione caricaturale, costruendo un protagonista che è al tempo stesso repellente e vulnerabile. La sua performance è un continuo gioco di rimandi e contraddizioni: la rigidità dei gesti nasconde una fragilità interiore, l’ironia tagliente lascia intravedere una malinconia profonda. Questo Arpagone è un essere umano prima ancora che un simbolo, ed è proprio questa umanità a renderlo così disturbante. Il resto del cast si muove con precisione attorno a questa figura centrale, creando un equilibrio corale che esalta le dinamiche relazionali del testo. Mariangeles Torres, nei panni di Freccia e della mezzana Frosina, offre una performance ricca di energia e versatilità, mentre Fabio Barone, Cristian Giammarini e gli altri membri del cast completano il quadro con interpretazioni solide e sfaccettate. Ogni personaggio diventa un tassello di un mosaico più grande, una voce in un coro che restituisce tutta la complessità e la profondità dell’opera di Molière. Questa messinscena de L’Avaro non è semplicemente un adattamento teatrale: è un’opera di semiotica applicata, una riflessione sul linguaggio e sui segni, un’esperienza che invita lo spettatore a interrogarsi sul significato profondo di ciò che vede. Luigi Saravo, con il suo approccio teorico e la sua sensibilità estetica, dimostra come il teatro possa essere non solo intrattenimento, ma anche e soprattutto un luogo di pensiero. In questa prospettiva, L’Avaro diventa qualcosa di più di una commedia: diventa un discorso, un atto di conoscenza, un’esplorazione dell’umano attraverso i suoi simboli e le sue rappresentazioni. Lo spettacolo al Teatro Quirino, dunque, è un’esperienza che supera i confini del palcoscenico. È un viaggio intellettuale e sensoriale che restituisce a Molière tutta la sua forza dirompente, proiettandola nel nostro presente con una lucidità e una profondità che raramente si incontrano nel panorama teatrale contemporaneo. È, in definitiva, un esempio di come il teatro, quando affrontato con intelligenza e rigore, possa rivelarsi uno strumento straordinario di conoscenza e di trasformazione. Photocredit@Federico Picco

 

Categorie: Musica corale

Roma, Spazio Diamante: “Mi abbatto e sono felice”

Mar, 17/12/2024 - 18:52

Roma, Spazio Diamante
MI ABBATTO E SONO FELICE
Il monologo eco-sostenibile
di Daniele Ronco
ispirato a “La decrescita felice” di Maurizio Pallante
produzione Mulino Ad Arte
regia Marco Cavicchioli
L’urgenza dello spettacolo…perché “eco-sostenibile”? L’idea di mettere in scena “Mi abbatto e sono felice” nasce dalla riflessione che mi ha accompagnato nei mesi successivi alla morte di mio nonno, una persona che mi ha insegnato tanto e che stimo infinitamente per la condotta di vita esemplare perseguita durante i 91 anni trascorsi su questo pianeta. “Mi abbatto e sono felice” è un monologo a impatto ambientale “0”, autoironico, dissacrante, che vuole lanciare una provocazione importante; vuole far riflettere su come si possa essere felici abbattendo l’impatto che ognuno di noi ha nei confronti del pianeta sul quale abitiamo. “Mi abbatto e sono felice” non utilizza energia elettrica in maniera tradizionale. Si autoalimenta grazie allo sforzo fisico prodotto da me in scena. Non sono presenti altri elementi scenici, i costumi sono essenziali e recuperati dal guardaroba di nonno Michele. Le musiche sono live. Daniele Ronco Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Fiumicino, Aeroporto “Leonardo da Vinci”: “Etruschi per l’eternità”

Mar, 17/12/2024 - 16:32

Fiumicino, Aeroporto Leonardo Da Vinci
ETRUSCHI PER L’ETERNITA’
Fiumicino, 16 dicembre 2024
Presso l’Aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino è stata inaugurata l’esposizione Etruschi per l’Eternità, un progetto straordinario che intreccia la memoria millenaria della civiltà etrusca alla modernità del principale scalo aeroportuale italiano.
Le protagoniste di questa iniziativa culturale sono tre preziose sculture appartenenti alle collezioni permanenti del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, un’istituzione che custodisce e valorizza uno dei patrimoni archeologici più rilevanti del Mediterraneo. Con questa operazione, uno spazio di transito come un aeroporto si trasforma in un luogo di dialogo simbolico tra passato e presente, in una porta d’ingresso verso la bellezza eterna. L’iniziativa è stata ufficialmente presentata durante l’evento inaugurale, al quale sono intervenuti Marco Troncone, Amministratore Delegato di Aeroporti di Roma; Luana Toniolo, Direttrice del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia; Francesco Rocca, Presidente della Regione Lazio; e Roberto Vannata, rappresentante della Direzione generale Musei del Ministero della Cultura. Grazie alla collaborazione tra Aeroporti di Roma, la Direzione Generale Musei e il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, è stato possibile “far atterrare” nel cuore dello scalo romano tre capolavori dell’arte etrusca, offrendo ai passeggeri non solo una suggestione estetica, ma anche l’opportunità di entrare in contatto con un popolo che ha segnato profondamente la storia culturale e artistica della penisola italiana. Le tre sculture esposte, due urne cinerarie in travertino provenienti da Perugia e un coperchio di sarcofago proveniente da Tuscania, rappresentano un compendio dell’arte funeraria etrusca del II secolo a.C. Questi manufatti, selezionati con grande cura dai curatori del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, offrono uno spaccato della società etrusca, rivelando la sua complessità, i suoi valori e la sua visione del mondo. Le urne cinerarie raffigurano due personaggi di rilievo, Laris Afle e Arnth Acsi, mentre il coperchio del sarcofago rappresenta Larth Cales. Questi individui, probabilmente membri dell’aristocrazia, sono rappresentati sdraiati, nell’iconico atteggiamento del simposio, un momento fondante della vita sociale etrusca. Il simposio, mutuato dalla tradizione greca ma rielaborato in chiave locale, era molto più di un semplice banchetto: era un’occasione di convivialità, riflessione e celebrazione della vita, che univa musica, dialogo e riti. Nella raffigurazione funeraria, questa scena non si limita a celebrare i piaceri terreni, ma suggerisce un passaggio simbolico verso l’aldilà, dove l’individuo continua a vivere in una dimensione eterna e spirituale. Le casse delle urne, riccamente decorate, completano questo racconto attraverso scene tratte dalla mitologia greca. I miti raffigurati, come il lamento di Edipo davanti ai corpi dei suoi figli o il sacrificio di Ifigenia da parte di Agamennone, evocano temi universali di perdita, eroismo e riconciliazione. La scelta di rappresentare episodi del repertorio greco è particolarmente significativa: questi miti, carichi di simbolismo e significati archetipici, erano utilizzati per riaffermare i valori fondanti della comunità etrusca, sottolineando il legame tra individuo e collettività, tra vita terrena e ultraterrena. Le opere, collocate nella zona Arrivi del Terminal 1, assumono un valore che va oltre la loro bellezza intrinseca. Inserite in uno spazio di transito, si fanno interpreti di una riflessione più ampia sul concetto di viaggio, un tema centrale tanto nella cultura etrusca quanto nell’esperienza contemporanea. Il viaggio, inteso sia in senso fisico che metafisico, è il filo conduttore che unisce l’antico e il moderno, il mondo reale e quello immaginario. L’aeroporto, luogo per eccellenza del movimento e del cambiamento, diventa così una metafora perfetta per il dialogo tra passato e futuro, tra permanenza e trasformazione. La direttrice del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Luana Toniolo, ha sottolineato l’importanza di questo progetto, che mira a portare il museo “fuori dal museo”, creando “oasi di bellezza” in luoghi ad alta frequentazione come gli aeroporti. “L’obiettivo – ha spiegato – è invitare i viaggiatori a riflettere sul patrimonio culturale che appartiene a tutti noi, offrendo loro un’esperienza estetica e intellettuale anche nel breve tempo di passaggio attraverso lo scalo.Questo approccio rappresenta una visione innovativa della museologia, che cerca di avvicinare il pubblico alle opere d’arte eliminando le barriere fisiche e psicologiche tradizionalmente associate ai luoghi espositivi. Aeroporti di Roma, da tempo impegnata in un programma di valorizzazione del patrimonio culturale italiano, ha trasformato il Leonardo da Vinci in una vera e propria vetrina delle eccellenze artistiche del nostro Paese. Reperti archeologici, opere d’arte e installazioni contemporanee arricchiscono gli spazi dello scalo, contribuendo a creare un’esperienza di viaggio unica che unisce funzionalità e cultura. “Con la presentazione di queste tre suggestive sculture – ha dichiarato Marco Troncone, AD di Aeroporti di Roma – offriamo ai nostri passeggeri l’opportunità di ammirare una testimonianza concreta della civiltà etrusca, un popolo che ha lasciato un’impronta indelebile nel territorio in cui operiamo.” Questa visione strategica si inserisce in un più ampio progetto di sviluppo sostenibile, in cui l’arte e la cultura diventano strumenti fondamentali per promuovere il territorio e rafforzare il senso di identità collettiva. L’aeroporto, luogo simbolo della modernità e del progresso tecnologico, si trasforma così in un crocevia culturale, dove passato e presente si incontrano, e dove il patrimonio storico diventa accessibile a un pubblico globale. Il Presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, ha evidenziato il valore simbolico di questa iniziativa, che rappresenta un’opportunità straordinaria per promuovere il territorio e il suo patrimonio. “L’aeroporto è la porta d’ingresso per i viaggiatori – ha dichiarato – e il fatto che questo luogo dialoghi con l’antico lo rende una vetrina privilegiata per la nostra storia e la nostra cultura.” Questa esposizione non è solo un omaggio alla civiltà etrusca, ma anche un invito a scoprire il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, un luogo in cui l’eredità di questo popolo rivive attraverso collezioni di straordinaria ricchezza e bellezza. Etruschi per l’Eternità è molto più di un’esposizione temporanea: è un messaggio universale che ci invita a riflettere sulla continuità della storia e sulla nostra connessione con il passato. @Photocredit ADR

Categorie: Musica corale

Jacques Offenbach: “La belle Hélène”

Mar, 17/12/2024 - 13:42


Jacques Offenbach: “La belle Hélène”
Opéra bouffe in tre atti su libretto  Henri Meilhac e Ludovic Halévy.
Prima rappresentazione:  Parigi,  Théâtre des Variétés, 17 dicembre 1864 ( a 160 dalla prima).
Interpreti: Nora Gubisch, Alexandru Badea, Dale Duesing, Victor Braun, Buddy Elias…
Orchestre de Paris
Direttore Stéphane Petitjan
Regia, scene e costumi di  Herbert Wernicke
Reg.Aix-en-Provence, 1999

Categorie: Musica corale

Venezia, Teatro La fenice: Charles Dutoit in concerto

Lun, 16/12/2024 - 08:34

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Charles Dutoit
Claude Debussy. “Petite suite” (orchestrazione di Henri Büsser); Franz Joseph Haydn: Sinfonia n.104 in re maggiore Hob.I:104 “London”; Antonín Dvořák: Sinfonia n.104 in re maggiore
Venezia, 13 dicembre 2024
Ha qualcosa di prodigioso il rapporto che si instaura tra direttore ed orchestra, quando l’esecuzione assurge alla dignità della poesia e alla completa sublimazione della tecnica: certo, la gestualità delle braccia, delle mani del maestro, l’espressività del suo volto, la sua capacità di lettura della partitura hanno la loro importanza, così come, ovviamente, la sensibilità e la preparazione degli strumentisti. Nondimeno tutto questo non basta a determinare un’intesa profonda, una proficua comunanza di intenti come raramente si può cogliere nel corso di un’esecuzione: deve esistere anche un “quid” imponderabile, ineffabile, che renda possibile questa condizione privilegiata. Generoso quanto essenziale era il gesto direttoriale di Charles Dutoit, attento innanzi tutto a sottolineare le nervature portanti di ogni brano: un gesto chiaro e al tempo stesso essenziale, pregnante eppure mai plateale, capace di delineare grandi campate come di sottolineare la più delicata sfumatura. Il tutto con naturalezza e passione, leggerezza di tocco e intensità espressiva. Il maestro elvetico si è, dunque, confermato un interprete, la cui finezza interpretativa si coniuga con la capacità di coinvolgere profondamente l’orchestra e di parlare direttamente al cuore di ogni spettatore, grazie anche a quel misterioso “quid”, cui si è sopra accennato, che è privilegio dei più grandi interpreti.
Un puro godimento si è rivelata l’esecuzione della Petite suite di Debussy nella trascrizione per orchestra, realizzata da Henri Büsser nel 1907. Se è noto che, riferendosi alla versione originale per pianoforte a quattro mani (1889), lo stesso Debussy ebbe ad affermare che essa “cerca umilmente solo di piacere” – l’affascinante interpretazione di Dutoit avrebbe verosimilmente soddisfatto l’insigne protagonista dell’impressionismo musicale francese. Il direttore, infatti, ha saputo immergerci nella magia di questa fortunata composizione, che si caratterizza per la raffinatezza armonica e timbrica, l’alternanza maggiore-minore, il sapore modale di certi passaggi. Lo si è apprezzato nei primi due brani, ispirati a poesie di Paul Verlaine, il poeta prediletto da Debussy, tratte dalla raccolta “Fêtes galantes”, rievocazione, non senza ironia, dell’attardato mondo dei nobili nel Secolo dei Lumi: nell’ondeggiante En bateau, che richiama con la sua leggiadra melodia in 6/8, cantata dal flauto che galleggia su “liquidi” arpeggi, una gita in barca sotto la luna; nel beffardo Cortège, rappresentazione di un singolare corteo, formato – nella lirica di Verlaine – da una nobile dama, preceduta da una scimmia e seguita da un giovane paggio. Analogamente affascinanti gli ultimi due pezzi: Menuet, che impiega qualche battuta per rivelare il suo ritmo e immergersi in una dolce malinconia, e il gioioso Ballet, una specie di bourée inframezzata da un valzer venato di lirismo. Ma Dutoit non è solo interprete di riferimento per il repertorio francese, come hanno dimostrato le splendide esecuzioni degli altri due titoli in programma, a partire dalla Sinfonia n. 104 in re maggiore (1795), ultima delle dodici Sinfonie “Londinesi”. Teso e inquietante, ma anche marziale – nelle prime battute dal ritmo puntato – l’Adagio introduttivo nella tonalità di re minore, seguito dal carattere sereno dell’Allegro, in forma sonata e monotematico, in quanto il secondo tema non è nient’altro che la ripresa del primo trasposto in la maggiore. Vario e sorprendente con i suoi colpi di scena, nel più tipico stile haydniano, il secondo movimento, Andante – una contaminazione tra rondò e tecnica della variazione –, dove al bel tema, esposto dagli archi e ripreso dagli strumentini è seguita un’esplosione dell’orchestra, prima di una sorprendente pausa generale. Il terzo movimento, Menuetto, aveva l’andamento veloce di uno Scherzo, mentre il Trio si è segnalato per il sottile gioco di richiami tra gli strumentini e gli archi. Brillante il Finale – strutturato come l’Allegro iniziale in forma sonata monotematica e basato su un tema popolare, tratto da una ballata croata –, segnalatosi per l’effetto di zampogna, dovuto ai pedali tenuti da archi e corni.
Di grande impatto emotivo è risultata l’esecuzione della Sinfonia dal Nuovo mondo quinta tra quelle pubblicate, ma nona ed ultima in ordine di composizione – scritta tra il 1892 e il 1893 a New York, dove all’epoca Dvořák ricopriva l’incarico di direttore del National Conservatory of Music. La musica tradizionale dei nativi e degli afro-americani, costituisce la base di questa composizione, dove l’autore, nel contesto di temi originali da lui stesso ideati, inserisce i caratteri propri di alcune melodie native americane, in una perfetta sintesi tra le componenti boeme, mitteleuropee e americane del proprio linguaggio sinfonico. Introdotto da un Adagio, il primo movimento, Allegro molto, in forma sonata, si è solennemente aperto con l’esposizione – eseguita mirabilmente dal corno – del primo tema che, ispirato allo “spiritual” Swing Low, swett Chariot, si sarebbe ripresentato anche nel corso della sinfonia fungendo da Leitmotiv e conferendo alla sinfonia stessa un’impostazione ciclica. Successivamente oboi e flauti hanno presentato con grazia il secondo tema, più sereno, anch’esso connotato in senso etnico. Un corale degli ottoni ha aperto sommessamente, con grande suggestione, il Largo – ispirato come il movimento successivo Scherzo, dal poema epico indiano Hiawatha del poeta americano Henry Wadsworth Longfellow –, prima che il corno inglese creasse un’atmosfera incantata intonando con trasporto una nostalgica melodia – divenuta assai popolare negli Stati Uniti –, ripresa alla fine del movimento dopo un episodio dal carattere pastorale, introdotto dall’oboe. Pieno di vitalità lo Scherzo, che richiama una danza di pellirosse nella foresta, con la parte principale divisa in due episodi distinti, un doppio Trio, e una coda. Trascinante il movimento finale, Allegro con fuoco, che ricapitola i temi della Sinfonia, aprendosi con la perentoria affermazione del tema, che ha assicurato alla Sinfonia la sua celebrità, poi ribadito al termine, in una estrema perorazione. Successo estremamente caloroso per il direttore e l’orchestra.

Categorie: Musica corale

“Lo schiaccianoci” di Rudolf Nureyev al Teatro alla Scala dal 18 dicembre al 12 gennaio

Dom, 15/12/2024 - 10:02

La nuova Stagione si apre con la ripresa più attesa nel periodo natalizio: Lo schiaccianoci nella coreografia di Rudolf Nureyev. Un classico che incanta la Scala dal 1969. Dalle danze dei bambini alle casalinghe celebrazioni del Natale, dalla battaglia tra topi e soldatini allo splendore dei fiocchi di neve, musica e coreografia convergono verso i meravigliosi disegni coreografici dei celebri valzer e i passi a due ricchi di tecnica, rigore, linee ed equilibri, che rivelano l’impostazione drammaturgica che Nureyev volle conferire a questo balletto: tra ombre e luci il viaggio di una adolescente, il sogno di Clara. E’ tempo dunque per il Corpo di Ballo del Teatro alla Scala di immergersi nell’atmosfera natalizia e nelle luci, ma anche nelle ombre di questa bellissima produzione, gradito ritorno di uno dei più interessanti e tecnicamente impegnativi balletti del repertorio del grande Rudy e di molti dei protagonisti che hanno illuminato le recite del 2022/2023, ma anche importante occasione per accogliere il debutto scaligero di Hugo Marchand, étoile dell’Opéra di Parigi e il debutto a gennaio nei ruoli protagonisti di Camilla Cerulli e di Marco Agostino.
Nel ruolo di Clara e del Principe/Drosselmeyer apriranno le recite Alice Mariani e Hugo Marchand per una inedita partnership (17, 18 e 20 dicembre). Rivedremo Agnese Di Clemente e Claudio Coviello il 29 dicembre e il 4 gennaio), Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko (che saluteranno l’anno in scena, nella recita del 31 dicembre e poi torneranno le sere del 3 e 5 gennaio). Il pomeriggio del 5 gennaio e poi il 9 sera Camilla Cerulli debutta nel ruolo di Clara, accanto a Navrin Turnbull, mentre il 7 e l’11 gennaio sarà la prima volta di Marco Agostino a impersonare il doppio ruolo del signor Drosselmeyer/ Il Principe, accanto a Martina Arduino. A Virna Toppi e Nicola Del Freo sono affidate le recite conclusive del 10 e 12 gennaio.
Accanto a Clara e a Drosselmeyer/Principe è davvero tutta la Compagnia ad essere impegnata in questa produzione, a partire dal Corpo di Ballo che splenderà nelle danze natalizie e soprattutto nei meravigliosi disegni coreografici dei celebri valzer.
Lo schiaccianoci risplenderà ancora nell’allestimento di Nicholas Georgiadis, rinnovato nel décor e nei costumi proprio dalla Scala nel 1987 (disegno luci di Andrea Giretti) e affascinerà anche i più piccoli, nella magica atmosfera natalizia, ideale cornice per ripresentare questo capolavoro cajkovskiano, eseguito dall’Orchestra e il coro di voci bianche del Teatro alla Scala sotto la bacchetta di Valery Ovsyankikov.

 

 

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Le cantate di Johann Sebastian Bach: Terza domenica di Avvento

Dom, 15/12/2024 - 00:10

Fino agli inizi degli anni ’50 la Cantata Das ist je gewißlich wahr BWV 141 per la terza domenica di Avvento, era stata attribuita e catalogata come opera di Bach. Si quindi arrivati ad idenficarla come opera di Georg Philipp Telemann, che la compose a Eisenach, tra il 1719 e il 1720, su testo di Johann Friedrich Helbig. Una partitura che si compone di  un coro e 2 arie,  divise da un semplice recitativo.
Nr.1 – Coro
Che è sicura e certa ed è una parola preziosa e degna di fiducia
Che Gesù è venuto al mondo per benedire i peccatori.
Nr.2 – Aria (Tenore)
Gesù è il Salvatore dell’umanità.
Ma chi vuole trarne beneficio
deve anche decidere sinceramente per se stesso,
senza false ipocrisie, di credere,
altrimenti non farà parte di questa verità.
Nr.3 – Recitativo (Contralto
Dobbiamo veramente credere di Lui in spirito,
e non soltanto dire: “ecco, ecco Cristo”
perché tutti gli ipocriti portano verità,
altrimenti profanamo il Vangelo
teniamo presente questo:
che se osserviamo i suoi comandamenti
e se ci mostriamo irreprensibili
Allora conosceremo il Salvatore.
Invece, se qualcuno si dice cristiano
e tuttavia ascolta il peccato,
è solamente un bugiardo.
Nr.4 – Aria (Basso)
Gesù, consolazione dei poveri in spirito,
Abbi pietà della nostra miseria,
Aiutaci ad avere la forza della fede.
Facci avere fiducia in te,
E non scegliamo parole false
che sarebbero la causa della nostra rovina.

www.gbopera.it · J.S.Bach (G.P.Telemann): Cantata Das ist je gewißlich wahr” BWV 141

 

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Mlano, MTM, Teatro Litta: “Circe”

Sab, 14/12/2024 - 21:37

Milano, MTM – Teatro Litta, Stagione 2024/25
“CIRCE”
Drammaturgia di Corrado D’Elia e Chiara Salvucci
con Chiara Salvucci
Progetto, scene e regia Chiara Salvucci
Produzione Compagnia Corrado D’Elia
Milano, 10 dicembre 2024
Viviamo in tempi oggettivamente piuttosto complessi, fuori e dentro i teatri: uno degli elementi che ce lo riconferma con una certa costanza è che mai come prima in questi anni cerchiamo nel mito e nei classici una qualsivoglia forma di spiegazione, di giustificazione, di consolazione circa il nostro presente. Ecco allora che Corrado D’Elia e Chiara Salvucci decidono di trovare in Circe la giusta paladina dell’empowerment femminile e della femminilità consapevole e fluida che si vorrebbe contemporanea. Scrivono un monologo ad hoc, che non attinge praticamente a nessuna fonte classica o letteraria del mito, immaginano una figura femminile in tuta verde mimetica e una scena dominata da una sorta di isolotto selvaggio su cui pendono diversi vasi di piante; condiscono il tutto con una colonna sonora non particolarmente brillante e pezzi recitati a un microfono con tanto di asta (strizzando l’occhio al postdrammatico, naturalmente). A coronamento del progetto anche un grande telo plastico trasparente sul boccascena su cui si proiettano gli insulti che si rivolgono tipicamente alle donne, finché nel suo desiderio di liberazione Circe non lo strappa. Insomma: ci sono tutti gli elementi che piacciono agli addetti ai lavori del teatro meneghino degli ultimi anni, e per questo non ci stupiscono i riconoscimenti che questo monologo ha raccolto. Ma, a onor del vero, assistiamo a uno spettacolo piuttosto debole, che procede a passo di gambero (uno avanti e due indietro): bella l’idea di recuperare il mito, di discutibile valore letterario il testo prodotto (che si concede molte ingenuità sul tema dell’emancipazione 2.0, così come alcune incoerenze interne); apprezzabile l’idea di dar luce a un personaggio femminile del mito, ma sbagliata e inflazionata la scelta di Circe, già vittima negli ultimi anni di un mediocre quanto popolare romanzetto di Madeleine Miller e de facto lontana da una narrazione della “liberazione sessuale” – semmai, invece, prossima a un’idea di Grande Madre, di energia generatrice matriarcale; bella la messa in scena arborea e bello il disegno delle luci, ma opprimente la presenza di musica e microfoni, oltre che non del tutto piacevole la vocalità cacuminale della Salvucci, che sa molto di Accademia di Doppiaggio Anni Duemila. Ma la cosa più disturbante del progetto non è nemmeno il suo eccessivo peso sulle spalle di un’unica interprete, quanto la pretesa di raccontare la parabola umana di una donna (addirittura dalla sua fase fetale!), attraverso il rifiuto della famiglia, il ritorno alle origini ferine, la paideia autoimpartitasi ai ritmi della natura e l’affermazione contro l’invasione maschile dei suoi spazi, per poi farla finire nella maniera più stereotipata possibile: “ho visto le tue ferite senza mostrarti le mie” chiosa la nostra Circe, mettendosi al livello di una qualsiasi femmina innamorata che per tenersi un uomo nasconde i propri punti deboli, o, ancor peggio, non glieli mostra per non sconvolgerlo o fargli paura. Insomma, gratta gratta la Circe di D’Elia e Salvucci è una ragazza di periferia, semplice e un po’ fricchettona, che quando l’uomo della sua vita se ne va (preferendole sciagure e prove mortali) lei riesce solo a dirgli “Addio”, per il bene di chi, di lei o di lui? Probabilmente di entrambi, giacché lui riprende la sua via verso il successo e il pubblico riconoscimento, mentre lei, levatasi lo sfizio dell’amore, può riprendere a fare infusi, danzare nella pioggia e altre fricchettonate. Se questo è empowerment, qualcosa dev’esserci sfuggito.

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Roma, MAXXI : “Memorabile. Ipermoda”

Sab, 14/12/2024 - 21:16

Roma, Maxxi – Museo nazionale delle arti del XXI secolo
MEMORABILE. IPERMODA
A cura di Maria Luisa Frisa
Roma, 14 dicembre 2024
L’aggettivo “memorabile” deriva dal latino memorabĭlis e si riferisce generalmente a un evento eccezionale, il cui ricordo è destinato a durare nel tempo. Lo ritroviamo nel titolo della mostra visitata al MAXXI insieme al termine “Ipermoda” derivato dal nome “iperoggetti” con cui Timothy Morton nel libro omonimo designa entità di una tale dimensione spaziale e temporale da incrinare la nostra stessa idea di cosa un sia un oggetto. Ma cos’è in realtà la moda? Nell’opinione pubblica si tratta generalmente di un capriccio inventivo che sfida le regole. Nel migliore dei casi la si intende come un fenomeno di costume che lega un individuo al gruppo di riferimento. Nato come forma di protezione dalle intemperie, l’abito è stato da sempre associato anche ad una forma di significazione. L’uomo si veste per identificarsi nella sua individualità in un rapporto dialettico con la collettività. Inoltre, come spiega il semiologo francese Roland Barthes nel suo libro del 1967 Il senso della moda, attraverso la moda la stessa società si mette in mostra e comunica ciò che pensa del mondo. La moda intrattiene un rapporto intimo e profondo con il tempo, declinandolo in molteplici direzioni. Talvolta si volge con struggente nostalgia al passato, evocandone suggestioni e memorie; talaltra si proietta con audace immaginazione verso il futuro, tracciandone le coordinate possibili. Ma è nel presente che essa lascia il suo segno più incisivo, inscrivendolo in una narrazione storiografica più ampia, capace di connettere epoche e visioni in un unico, vibrante tessuto culturale. La moda ha dentro sé una concettualità filosofica capace di donar senso ad approcci profondamente interdisciplinari, accomunando attraverso immagini emblematiche la letteratura al design, il teatro all’arte visiva. La moda ha il potere di dialogare con le nuove tecnologie, con il mondo delle riviste patinate e dei social media, così come la forza di riprendere e riattualizzare finanche i più polverosi contenuti d’archivio. È questo in sostanza che ci vuol ricordare la curatrice della mostra Maria Luisa Frisa, già Professore Ordinario all’Università Iuav di Venezia ed editor per Einaudi del recentissimo volume I racconti della moda. Nella mostra curata per il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, la Frisa cerca di “restituire uno spaccato della ricchezza immaginativa e progettuale della moda degli ultimi anni”, e soprattutto si propone di portare la moda nel museo per riconoscerne il valore nel sistema culturale contemporaneo. Estremamente preziosa a questo proposito la collaborazione con la Camera Nazionale della Moda Italiana, al fine di sottolineare il fondamentale contributo dei maestri del Made in Italy, nonché con la Fondazione Bulgari, portatrice di una fenomenale esperienza di bellezza senza tempo. Nella mancanza di un museo dedicato specificamente alla moda, il Maxxi offre gli spazi della Galleria 5 che grazie alla leggera pendenza guidano il visitatore in un cammino fluido di svelamento del fascino creativo. Nella prima “stazione” veniamo rapiti dalle stampe floreali applicate a collage su un abito della collezione prȇt-à-porter S/S 2024 di Marni, nonché dal jaquard di seta ricamato a fiori in un abito Balenciaga che sul lato posteriore nasconde dei pantaloni in fresco di lana. Al centro le pailletes metalliche ricamate nell’abito haute couture Dior (S/S 2018) richiamano alla mente note influencer. Lo svelamento del corpo in Miu Miu è accostato al luccichio dell’abito Gucci in tulle ricoperto di paillette indossato dalla modella Heather Strongarm al LACMA Art+Film Gala 2023, ma soprattutto colpisce il taglio di forbici nel sontuoso abito in tulle nero della collezione haute couture S/S 2024 di Viktor&Rolf. Procedendo riconosciamo il rosso Valentino in un maestoso abito da ballo che ci riporta idealmente alla Traviata firmata per l’Opera di Roma da Sofia Coppola nel maggio 2016, ma che attraverso gli intarsi di silhouette allacciate in faille, pelle di seta e velluto si precisa come concerto tra alta moda e pittura. Era questo il sogno di Pierpaolo Piccioli mostrato nell’ambito della collezione haute couture Valentino Des Ateliers e arricchito originariamente dalle luci dell’Arsenale di Venezia. Poco più in là troviamo il cappotto di pelliccia di visione rosso brillante a cuore di Saint Laurent (F/W 2016/17), indossato dalle più note celebrities per le strade di New York. Dall’altro lato della sala scorgiamo l’abito icona della mostra qui esaminata, ovvero l’abito sognante in tulle romantico Viktor&Rolf (Late Stage Capitalism Waltz, S/S 2023), che allude ai giorni d’oro dell’haute couture di metà del XX secolo, ma che in noi evoca prima di tutto la morbida femminilità del tutù nel balletto romantico. Qui, tuttavia, il sogno è ingannevole, il romanticismo si declina in uno stile surrealista, l’abito si discosta dal corpo e sfida la gravità, in parte alienandosi, in parte acquisendo autonoma identità e lasciando l’indossatrice nel mero ruolo di mannequin. Parrebbe esserci a prima vista un’estrema dissonanza con il piumone oversize della collezione Glitter di Rick Owen, inteso come reazione alle minacce politico-culturali. Ma il contrasto è superato dalla visione comune di sfida alle avversità e di liberazione anticonformista. Nel suo universo alternativo di protesta, la moda può associare senza problemi lo scintillio della grazia alla stravaganza rock. Del resto, durante la sfilata di Rick Owen ha risonato la Sonata per pianoforte n. 3 in Do maggiore di Beethoven e il canto del soprano spagnolo Montessart Caballé nei panni di Dalila intenta a sedurre Sansone. Non manca infine il tripudio di italianità in pizzo nero per l’abito Dolce & Gabbana tratto dalla collezione Tropico Italiano. E se l’indossatrice ideale di certi capi qui presentati sarebbe stata sicuramente Sophia Loren, l’immagine maschile presentata da Thom Browne nei suoi abiti in lana rivestiti di perline con piume applicate e copricapi da uccello di Stephen Jones ci richiama alla mente coloriti personaggi alla Mozart. Insomma, ce n’è per tutti i gusti. E voi quale di questi abiti indossereste per una prima all’Opera? Foto Fondazione Maxxi/ Riccardo Musacchio & Chiara Pasqualini/ Say Who/ Niccolò Campita

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Roma, Teatro Vascello: “Faust”

Ven, 13/12/2024 - 23:59

Roma, Teatro Vascello
FAUST

tratto da Faust I e II di Johann Wolfgang von Goethe
di Leonardo Manzan e Rocco Placidi
con Alessandro Bandini, Alessandro Bay Rossi, Chiara Ferrara, 
Paola Giannini, Jozef Gjura, Beatrice Verzotti
regia Leonardo Manzan
scene Giuseppe Stellato
costumi Rossana Gea Cavallo
light design Marco D’Amelio
Music and Sound Franco Visioli
produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello, Teatro Piemonte Europa, LAC Lugano Arte e Cultura
in collaborazione Teatro della Toscana Teatro Nazionale
Roma, 13 dicembre 2024
Sul palco del Teatro Vascello, Leonardo Manzan ha deciso di mettersi in gioco – e in pericolo – con uno spettacolo audace: Faust. Sì, avete capito bene, proprio quel Faust. Goethe. Mille pagine. Filosofia, magia, un po’ di streghe e persino un sabba. Un’opera irrappresentabile, dicono. Ma cosa importa? Manzan non si lascia intimidire, prende il toro per le corna, lo scuote e ci restituisce un Faust che è, al contempo, un atto d’amore e una sonora presa in giro al teatro stesso. La scena si apre in maniera apparentemente sobria. Sipario chiuso, luce calda, un personaggio al centro del palco. Solo un leggio e un tavolo per fargli compagnia. È come trovarsi di fronte a una lezione universitaria, ma senza la possibilità di dormire perché il protagonista, con tutta la sua autoconsapevolezza, ti tiene sveglio. Non con un’azione epica o con il tormento dell’anima. No, parla. Analizza. Spiega. Perché il Faust non si può rappresentare, perché il diavolo non esiste più, perché lui sa troppo di sé per crederci. E mentre lo dice, il pubblico inizia a chiedersi: “Ma allora cosa siamo venuti a vedere?” Ed è proprio in quel momento che arriva il colpo di scena: irrompe il diavolo. Non una presenza maestosa e terrificante, ma un essere che sembra uscito da un cabaret postmoderno. Si presenta con un cambio di luci brusco – il palco si tinge di rosso acceso, quasi a ricordarci che il diavolo ha ancora un po’ di stile – e con una musica elettronica pulsante, perfetta per un club berlinese. “Nessuno crede più nel diavolo,” dichiara, come se fosse un politico frustrato che non riesce più a convincere gli elettori. E qui sta il dramma: un diavolo che non è creduto non ha ragione di esistere. Ma non disperate, perché farà di tutto per dimostrarci il contrario. Quando il sipario si apre, il palco si trasforma in un mondo visivamente straordinario. Schermi bianchi fungono da tela per proiezioni che ricordano una graphic novel: disegni stilizzati, simboli evocativi, paesaggi che cambiano a ritmo con i dialoghi. È un teatro che gioca con la tecnologia, ma che non perde mai il tocco umano. E proprio qui comincia il viaggio dei due, un percorso che oscilla tra il ridicolo e il sublime, tra il filosofico e il grottesco. Il viaggio non sarebbe stato possibile senza un cast che ha saputo reggere il peso di un’opera tanto ambiziosa con energia e talento. Alessandro Bandini, Alessandro Bay Rossi, Chiara Ferrara, Paola Giannini, Jozef Gjura e Beatrice Verzotti portano in scena una freschezza e una potenza interpretativa straordinarie. Ognuno di loro dà vita a personaggi complessi, sfaccettati, capaci di muoversi tra il tragico e il comico, sostenendo una narrazione che richiede intensità emotiva e grande versatilità fisica. La loro energia è palpabile e si trasmette al pubblico in ogni scena, dal monologo più intimo alla danza più frenetica. In una scena memorabile, i protagonisti si ritrovano in un sabba contemporaneo. È una festa infernale, ma invece di streghe invecchiate e calderoni fumanti ci troviamo davanti a un rave degno dei migliori festival underground. I personaggi secondari si muovono come creature surreali, figure grottesche che incarnano i desideri più nascosti dell’animo umano. Il palco è invaso da una luce intermittente, un rosso pulsante che sembra uscito da una discoteca, mentre la musica elettronica si mescola a ritmi tribali. È caotico, è eccessivo, ed è impossibile staccare gli occhi dalla scena. Ma il vero cuore dello spettacolo è il rapporto tra il protagonista e il suo tormento. In un momento di grande pathos – o forse di grande autoironia – il protagonista si rivolge al pubblico con la celebre battuta: “All’attimo direi: sei così bello, fermati!” Le parole sono recitate con una voce tremante, quasi sofferta, ma il pubblico, abituato alla leggerezza precedente, non sa se commuoversi o sorridere. È questo il gioco di Manzan: oscillare continuamente tra serietà e sarcasmo, tra il coinvolgimento emotivo e il distacco critico. Le luci, curate con grande intelligenza, e la musica originale non sono semplici strumenti, ma veri e propri co-protagonisti dello spettacolo. In una scena, i due protagonisti si trovano in una città moderna deserta, evocata da proiezioni di grattacieli e strade vuote. La luce è fredda, azzurra, quasi alienante, mentre il silenzio è rotto solo da un canto corale che sembra arrivare da un altro mondo. È un momento di straniamento totale, che ti fa chiedere se stai assistendo a un dramma filosofico o a un esperimento audiovisivo. E poi c’è il finale, che non delude le aspettative. Il diavolo, dopo aver dominato la scena con la sua ironia e il suo carisma, inizia a dissolversi. La sua figura, un tempo imponente, si spegne lentamente, lasciando il protagonista solo al centro del palco. La luce bianca abbagliante lo illumina come una sorta di redenzione, ma anche qui Manzan non ci dà risposte chiare. Il pubblico resta sospeso, senza sapere chi abbia davvero vinto. Forse il diavolo, forse il protagonista, o forse nessuno. E questa ambiguità è il regalo più grande che lo spettacolo ci offre. Alla fine, un lungo applauso chiude la serata. Faust, al Teatro Vascello, è una dimostrazione che il teatro può essere tutto e il contrario di tutto: serio e irriverente, filosofico e grottesco, commovente e divertente. È un’esperienza che scuote, che provoca, e che ti lascia con una domanda: “E se il diavolo esistesse davvero?” Ma la vera domanda è un’altra: chi è il diavolo, oggi? Forse il protagonista, forse noi, forse il teatro stesso.

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Roma, Teatro Parioli Costanzo: “Divagazioni e delizie”

Ven, 13/12/2024 - 22:43

Roma, Teatro Parioli Costanzo
Oscar Wilde in teatro con
“DIVAGAZIONI E DELIZIE”
di John Gay
traduzione e regia Daniele Pecci
con Daniele Pecci
Roma, 10 dicembre 2024
“Divagazioni e Delizie” si presenta come un tributo toccante e intellettualmente stimolante all’ultimo anno della vita di Oscar Wilde, un periodo segnato dalla sofferenza fisica, dalla povertà e dall’esilio in Francia. Il testo di John Gay intreccia ricordi, aneddoti e riflessioni intime, offrendo un’autoanalisi agrodolce della sua esistenza, un viaggio nelle sue disillusioni, nella solitudine, nella sofferenza e nella decadenza sociale ed economica che ha caratterizzato il suo esilio. La scelta di avere il pubblico presente in scena, come un ipotetico pubblico parigino dell’epoca, intensifica ulteriormente la sensazione di un Wilde ormai lontano dalla sua fama e riconoscibilità, ma ancora profondamente bisognoso di attenzioni. Questo pubblico immaginario e presente allo stesso tempo, diventa testimone di un uomo che, pur nel suo declino, conserva una straziante voglia di essere ascoltato, di lasciare una traccia di sé in un mondo che lo ha dimenticato. La vicinanza fisica tra Wilde e il pubblico contribuisce a creare un’atmosfera di intima solitudine, amplificando il contrasto tra la sua solitudine esistenziale e la sua inestinguibile sete di comprensione. Daniele Pecci non è solo il protagonista, ma anche il regista di “Divagazioni e Delizie”, un’opera che ha il merito di restituire l’essenza di Wilde in tutte le sue sfumature. La sua interpretazione non si limita alla recitazione, ma abbraccia una visione artistica completa che riesce a catturare la fragilità e la grandezza del personaggio. Wilde, pur essendo travolto dal destino tragico, resta sempre un uomo di grande intelligenza e ironia, e Pecci lo rappresenta con maestria, alternando momenti di leggerezza e drammaticità. La sua performance è un viaggio emotivo che oscilla tra il sorriso, la sofferenza, la poesia. E così Wilde emerge nel suo splendido, ironico contrasto tra genio e tragedia. La recitazione di Pecci è vibrante e intensa, passando da momenti di umorismo tagliente a drammatiche riflessioni esistenziali, in un continuo oscillare tra il sorriso e la sofferenza. Pecci sa perfettamente dosare ogni emozione, creando un legame forte e immediato con il pubblico, che diventa testimone di una riflessione profonda sul destino dell’artista. La regia di Pecci è particolarmente raffinata e mai invadente. Nonostante il testo di Gay richieda un certo background culturale per essere apprezzato appieno, la sua direzione riesce a mantenere alta l’attenzione del pubblico attraverso una buona gestione degli spazi e del ritmo. Il monologo di Wilde, pur nella sua lentezza di alcuni momenti, conserva un fascino irresistibile, grazie a una gestione delle luci e degli oggetti che accentuano il senso di isolamento del protagonista. Pecci guida il pubblico attraverso il dolore e la malinconia con un’arte sottile, tipica dei grandi registi teatrali come Peter Brook o Ingmar Bergman, che sanno utilizzare il silenzio e la luce come strumenti di comunicazione potentissimi. La traduzione del testo conserva l’intelligenza e la corrosiva ironia di Wilde, un aspetto che emerge soprattutto nelle riflessioni tratte da De Profundis, la celebre lettera scritta a Lord Alfred Douglas, che diventa il fulcro della seconda parte dello spettacolo. Le parole di Wilde, cariche di sarcasmo e di dolorosa sincerità, prendono vita grazie all’interpretazione di Pecci, che riesce a restituire il linguaggio eloquente e profondamente umano dell’autore. Le musiche di Patrizio Maria D’Artista, con le sue composizioni originali, gioca un ruolo fondamentale nel rafforzare l’impatto emotivo della narrazione. Le melodie, pensate per accentuare i momenti di ricordo e di riflessione, riescono a evocare la malinconia della sua esistenza, ma anche i tratti più ironici e pungenti che sono parte integrante del suo spirito. La scenografia è di grande impatto. Il tendone scuro e le pieghe create dallo spazio scenico ricordano le atmosfere dei teatri da cabaret parigini, luoghi dove Wilde si esibiva nell’ultimo periodo della sua vita. La scelta di un fondale sobrio e ombroso aiuta a concentrare l’attenzione su Wilde, il suo volto e la sua voce. Le luci sono sapientemente utilizzate per alternare momenti di intimità con il protagonista e scene più distaccate, in cui l’interazione con oggetti sul palco enfatizza il suo isolamento. In alcuni momenti, quando tutto scompare dalla scena e solo Wilde rimane illuminato, con la sua voce che riempie lo spazio, lo spettatore è costretto a riflettere sull’essenza di un uomo che ormai vive solo nei ricordi. I costumi di Alessandro Lai, giocano un ruolo fondamentale nella caratterizzazione di Wilde. Il frak, indumento che rimanda all’eleganza e alla decadenza del dandy, diventa simbolo della sua grandezza passata e della sua triste solitudine. Wilde, dandy e uomo di grande fascino, si presenta in scena con una figura che non è solo un ricordo del suo passato, ma anche una riflessione sulla bellezza sfiorita e sulla vita dissoluta che l’ha caratterizzato. Un abito simbolo della sua passata grandezza, indossato adesso nel racconto della decadenza del suo stato fisico e mentale. Il contrasto tra il suo aspetto esteriore e le sue riflessioni interiori è evidente, e questo equilibrio disequilibrio viene reso perfettamente dai costumi. Con 90 minuti di monologo, il pubblico è immerso nel pensiero di Wilde, un’esperienza intensa e coinvolgente che, sebbene impegnativa, risulta affascinante. Lo spettacolo offre uno spunto di riflessione profonda sulla condizione dell’artista e sulla sua lotta per confrontarsi con un destino inesorabile, un tema che ha attraversato anche la storia del cinema, come in The Trials of Oscar Wilde di Ken Hughes, o nel libro Oscar Wilde: A Biography di Richard Ellmann, che esplora la sua vita tormentata. Il Wilde di Divagazioni e Delizie affronta temi universali come solitudine, critica sociale e autenticità, rendendoli attuali e toccanti. La sua lotta per essere compreso risuona con le difficoltà moderne, invitando a riflettere sulle contraddizioni della società. Gli applausi finali celebrano un successo teatrale capace di emozionare e onorare la memoria di un genio intramontabile.

 

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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “L’Avaro” dal 17 al 22 dicembre 2024

Ven, 13/12/2024 - 08:00

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
L’AVARO
di Molière
traduzione e adattamento Letizia Russo
con
Ugo Dighero, Mariangeles TorresFabio BaroneStefano DilauroCristian GiammariniPaolo Li VolsiElisabetta MazzulloRebecca RedaelliLuigi Saravo
musiche Paolo Silvestri
costumi Lorenzo Russo Rainaldi
scene Luigi SaravoLorenzo Russo Rainaldi
movimenti coreografici Claudia Monti
luci Aldo Mantovani
regia Luigi Saravo
Ugo Dighero, già apprezzatissimo protagonista di opere di Stefano Benni e Dario Fo, si confronta per la prima volta con una grande classico, interpretando Arpagone nel nuovo allestimento diretto da Luigi Saravo. Nella commedia di Molière si assiste a un epico scontro tra sentimenti e soldi. Il protagonista è disposto a sacrificare la felicità dei figli, pur di non dovere fornire loro una dote e anzi acquisire nuove ricchezze attraverso i loro matrimoni. «L’Avaro di Molière ruota attorno a un tema centrale, cui tutti gli altri si riconnettono: il danaro – afferma il regista – Il conflitto tra Arpagone e il suo entourage è il conflitto tra due visioni economiche: una consumistica e una conservativa. Nella nostra contemporaneità, in cui vige l’imperativo di far circolare il danaro inseguendo una crescita economica infinita, il gesto immobilista di Arpagone, ossessionato dall’idea di non intaccare il proprio patrimonio, suona quasi sovversivo, in opposizione alla tirannia del consumo». La regia di Saravo ambienta lo spettacolo in una dimensione che rimanda al nostro quotidiano, giostrando riferimenti temporali diversi, dagli smartphone agli abiti anni Settanta agli spot che tormentano Arpagone (la pubblicità è il diavolo che potrebbe indurlo nella tentazione di spendere il suo amato denaro). Anche le musiche originali di Paolo Silvestri si muovono su piani diversi, mentre la nuova traduzione di Letizia Russo, fresca e diretta, contribuisce a dare al tutto un ritmo contemporaneo. A fianco di Ugo Dighero, Mariangeles Torres è impegnata in un doppio ruolo: sarà Freccia, il servitore che sottrae la cassetta di denaro di Arpagone, e la domestica / mezzana Frosina, ovvero i due personaggi che muovono l’azione, scatenando l’irresistibile gioco degli equivoci, sino al ribaltamento di tutte le carte in tavola. QUI PER TUTTE LE INFORMAZIONI.

 

 

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Roma, MAXXI: “The Large Glass” di Alex da Corte e “Col Tempo. 1956-2024” di Guido Guidi

Gio, 12/12/2024 - 16:15

Roma, MAXXI
THE LARGE GLASS di Alex Da Corte
COL TEMPO. 1956-2024 di Guido Guidi
Roma, 12 dicembre 2024
Il MAXXI di Roma, colosso moderno dalle curve che si piegano e si distendono come onde di pietra, accoglie due visioni, due spiriti, due modi di osservare il mondo che sembrano rispondere, da lontano, alle stesse domande. Alex Da Corte e Guido Guidi, in apparenza opposti come il giorno e la notte, si incontrano in un dialogo profondo che esplora il visibile e l’invisibile, l’essenza della materia e il potere della luce. Le loro mostre, The Large Glass e Col Tempo. 1956-2024 non sono semplici esposizioni, ma viaggi, attraversamenti che sfiorano il limite tra l’umano e il cosmico. Alex Da Corte, nato a Philadelphia nel 1980, appare come una figura sfuggente e poliedrica, un alchimista dell’arte contemporanea. Pittore, scultore, regista, creatore di installazioni, sembra muoversi con la stessa disinvoltura attraverso linguaggi e materiali diversi, intrecciando il sublime e l’ordinario, il reale e il simbolico. Al MAXXI, con The Large Glass, propone una lettura unica delle Collezioni del museo, concependo lo spazio come un organismo vivo, un luogo in cui ogni opera si trasforma, si trasmette, diventa parte di un tutto più grande. Qui, l’arte non è mai ferma, mai conclusa, ma sempre in divenire, come la natura stessa. Il vetro, fragile e trasparente, è al centro della sua visione: un materiale che separa e unisce, riflette e lascia passare, si spezza e si rigenera. L’artista immagina una “età del vetro”, un tempo in cui la fragilità diventa forza, in cui la trasparenza è simbolo di trasformazione e resilienza. Intorno a questa idea, Da Corte costruisce un percorso che si nutre degli archetipi naturali: acqua, vento, fuoco e terra. Ogni elemento diventa una metafora di crescita, decadenza e rinascita, un filo conduttore che collega opere e visioni. L’inizio del viaggio è segnato da Modena (1978) di Luigi Ghirri, una fotografia che cattura un frammento di realtà con una tale intensità da renderlo universale. Non è solo un’immagine, ma una porta aperta su un mondo di possibilità, di interpretazioni. Seguono opere come The Globe di Atelier Van Lieshout, che riflette sull’instabilità del nostro pianeta e dei confini che lo segnano, e Mixing Parfums di Massimo Bartolini, un’installazione che stimola i sensi con fragranze che evocano luoghi lontani, ricordi dimenticati. E poi c’è il grido silenzioso di For the Benefit of All the Races of Mankind di Kara Walker, un’opera che affronta il tema del razzismo con immagini crude e potenti, e Fire Tires di Gal Weinstein, che congela un momento di violenza in una struttura molecolare, simbolo di un mutamento perpetuo. Ogni opera sembra parlare, raccontare una storia diversa eppure intrecciata con le altre, come voci in un coro che risuonano insieme. Dall’altra parte di questo dialogo visivo, Guido Guidi si muove con la precisione di un poeta che scolpisce il tempo. Le sue fotografie non catturano l’oggetto, ma il modo in cui la luce lo sfiora, lo trasforma. Ogni immagine è un frammento sospeso, un dettaglio che si apre all’infinito. Guidi non cerca il grandioso, il sublime, ma il quotidiano, il dettaglio trascurabile che, sotto il suo sguardo, si carica di significato. Un muro, una finestra, un’ombra: tutto diventa importante, tutto racconta una storia. Le sue immagini richiedono tempo, un’attenzione che oggi sembra quasi impossibile. Guidi invita lo spettatore a fermarsi, a osservare, a scoprire la poesia nascosta nei dettagli. La luce, nelle sue fotografie, non è solo un elemento visivo, ma un linguaggio, una presenza che scolpisce e definisce, che dà vita. Le sue opere, pur nella loro apparente semplicità, si caricano di una profondità che non si svela subito, ma che cresce lentamente, come un seme che germoglia. Tra questi due approcci, così diversi eppure complementari, il MAXXI diventa il terreno perfetto per un dialogo che non è mai scontato. L’architettura di Zaha Hadid, con le sue linee fluide, sembra amplificare il movimento perpetuo delle opere, il loro continuo trasformarsi. Il museo non è un contenitore, ma un elemento attivo, una parte della narrazione. Come sottolinea Monia Trombetta, direttrice ad interim di MAXXI Arte, “ogni opera qui instaura nuove relazioni con l’architettura e con le altre opere, creando un racconto autoriale che rinnova continuamente il significato delle Collezioni”. Le due mostre non vivono isolate. Nel foyer Carlo Scarpa, un’area di approfondimento offre documenti, schizzi, interviste che raccontano il lavoro degli artisti e il loro processo creativo. Il programma del MAXXI include lezioni divulgative, laboratori per famiglie e scuole, improvvisazioni musicali che dialogano con le opere. E grazie al progetto MAXXI per Tutti, il museo garantisce accessibilità attraverso audiodescrizioni, video in Lingua dei Segni Italiana e guide in Easy to Read. E mentre ci si sposta tra le opere di Da Corte e le fotografie di Guidi, il pensiero torna sempre al concetto di trasformazione. Il vetro di Da Corte, con la sua trasparenza, diventa metafora di un mondo che non smette mai di mutare. La luce di Guidi, con la sua capacità di rivelare l’invisibile, ci invita a guardare oltre, a scoprire ciò che normalmente sfugge. Entrambi, in modi diversi, ci ricordano che l’arte è un processo, non un risultato; un viaggio, non una destinazione. Il MAXXI, con le sue curve che sembrano galleggiare nell’aria, diventa il luogo ideale per questo incontro. Qui, passato e futuro si intrecciano, il visibile e l’invisibile si confondono, l’arte si rinnova continuamente. E lo spettatore, coinvolto in questo dialogo, non può che uscire trasformato, con nuovi occhi per guardare il mondo e nuove domande da esplorare. Perché, come ci insegnano Da Corte e Guidi, l’arte non è mai solo qualcosa da vedere, ma qualcosa che ci cambia, che ci spinge a immaginare, a trasformare, a essere.

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Roma, Museo dell’Ara Pacis:”Franco Fontana. Retrospective”

Gio, 12/12/2024 - 15:00

Roma, Museo Ara Pacis
FRANCO FONTANA. RETROSPECTIVE
curata da Jean-Luc Monterosso
Roma, 12 dicembre 2024

La mostra Franco Fontana. Retrospective, inaugurata il 13 dicembre 2024 al Museo dell’Ara Pacis di Roma, si presenta come un affresco visivo che, attraverso il colore, trasforma la realtà in una narrazione astratta e universale. Passeggiando tra le sale luminose del museo, ogni fotografia diventa un invito a entrare in un universo che non esiste solo nella natura delle cose, ma anche nella loro reinterpretazione personale e poetica. L’ambiente, con la sua modernità sobria e lineare, amplifica l’effetto di contemplazione, offrendo al visitatore un’esperienza quasi meditativa, lontana dal rumore della quotidianità. Franco Fontana, nato a Modena nel 1933, non è mai stato un semplice fotografo: è un osservatore del mondo che, attraverso l’obiettivo, non si limita a registrare ciò che vede, ma cerca di svelarne la sua essenza nascosta. Comincia a fotografare nel 1961, frequentando i “Fotoclub“, ambienti che, pur nella loro natura amatoriale, rappresentavano un luogo di condivisione e sperimentazione. Tuttavia, sin da subito Fontana si distingue per la sua ricerca estetica unica, rivolta non tanto al dettaglio o alla documentazione, ma a un’esplorazione cromatica che, in quegli anni, era ancora un territorio in gran parte inesplorato. Il suo percorso prende una svolta decisiva nel 1963, con la partecipazione alla Terza Biennale Internazionale del Colore a Vienna, evento che lo introduce al panorama artistico internazionale. L’anno seguente, la prestigiosa rivista Popular Photography pubblica un suo portfolio, accompagnato da un testo critico di Piero Racanicchi, sancendo il riconoscimento ufficiale della sua visione innovativa. Nel 1965 espone per la prima volta a Torino, presso la Società Fotografica Subalpina, e nel 1968 nella sua Modena, presso la Galleria della Sala di Cultura. Quest’ultima esposizione segna una svolta decisiva: il fotografo non è più solo un visionario, ma un interprete del colore, capace di reinventare l’idea stessa di fotografia. Il viaggio attraverso la retrospettiva al Museo dell’Ara Pacis permette di attraversare i decenni della carriera di Fontana, esplorando non solo le sue opere più celebri, ma anche i momenti di ricerca e sperimentazione che ne hanno segnato l’evoluzione. Le fotografie esposte, oltre 200, non seguono una cronologia rigida, ma sembrano disporsi in un dialogo fluido e continuo, come se ogni immagine fosse una parola di un discorso più grande. Le facciate colorate di Modena, le strade polverose della Route 66 americana, le piscine dagli specchi d’acqua vibranti e le architetture razionaliste del Palazzo della Civiltà Italiana sono molto più che soggetti: sono metafore visive. Ogni scatto rivela la capacità di Fontana di trasformare il quotidiano in straordinario, di prendere il familiare e renderlo alieno, non attraverso un’alterazione forzata, ma semplicemente cambiando il punto di vista. “La fotografia non è ciò che vediamo, è ciò che siamo,” ha detto Fontana. E questa frase sembra risuonare in ogni angolo della mostra. Le sue immagini non rappresentano mai la realtà oggettiva, ma piuttosto una rielaborazione soggettiva che combina composizione rigorosa, saturazione cromatica e un senso di equilibrio formale che sfida le convenzioni visive tradizionali. La sua fotografia diventa così una riflessione sull’atto stesso del vedere, un invito a interrogarsi su ciò che si osserva e, di conseguenza, su ciò che si è. La sezione dedicata alle piscine è forse la più emblematica di questa poetica. Qui, l’acqua diventa uno specchio che non riflette, ma frammenta. I corpi umani si dissolvono e si ricompongono in un gioco di luci e ombre, creando immagini che esaltano la sensualità senza mai cadere nella banalità. Allo stesso modo, le sue Polaroid offrono un’intimità che contrasta con l’imponenza delle sue opere più celebri: piccoli frammenti di luce e colore che racchiudono, in formato ridotto, la stessa forza espressiva delle sue composizioni più ambiziose. Ma Fontana non è solo il poeta del colore e della luce. Negli anni Ottanta, esplora l’assemblaggio fotografico, una tecnica che gli permette di scomporre e ricomporre la realtà in modi nuovi e inattesi. Questi lavori, meno noti al grande pubblico, rivelano un lato analitico e costruttivista del suo lavoro, che dialoga con l’astrazione pittorica e con le avanguardie artistiche del XX secolo. Il Museo dell’Ara Pacis, con i suoi spazi moderni e luminosi, si presta perfettamente a valorizzare questa pluralità di linguaggi. L’allestimento, attento e misurato, permette a ogni opera di respirare, creando un ritmo espositivo che alterna momenti di contemplazione a spazi di riflessione. Le installazioni video e le ambientazioni immersive amplificano questa esperienza, trasformando la mostra in un viaggio sensoriale che coinvolge non solo la vista, ma anche l’immaginazione. Fontana non è mai stato confinato al mondo dell’arte accademica. Ha collaborato con riviste prestigiose come Time-Life, Vogue e Il Venerdì di Repubblica, e ha firmato campagne pubblicitarie per marchi iconici come Fiat, Versace, Sony e Canon. Queste esperienze, lungi dal banalizzare il suo lavoro, dimostrano la versatilità di un artista capace di dialogare con contesti diversi senza mai perdere la propria identità. Mentre si conclude il percorso della mostra, una domanda sembra emergere naturalmente: cosa significa davvero vedere? Per Fontana, vedere non è un atto passivo, ma un processo attivo, una creazione che coinvolge non solo l’occhio, ma anche la mente e il cuore. Ogni sua immagine è un invito a guardare oltre, a scoprire la bellezza nascosta nelle linee, nei colori, nei contrasti. In un mondo dove l’immagine è spesso effimera e superficiale, il lavoro di Fontana ci ricorda che il vero potere della fotografia non sta nella sua capacità di catturare il momento, ma nella sua abilità di trasformarlo, di renderlo eterno, universale, umano. Con questa retrospettiva, Fontana non solo celebra la sua carriera, ma ci offre uno specchio in cui riflettere non solo ciò che vediamo, ma ciò che siamo capaci di essere.

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Roma, Castel Sant’Angelo: “Riapertura dell’appartamento del Castellano”

Gio, 12/12/2024 - 11:59

Roma, Castel Sant’Angelo
APERTURA DELL’APPARTAMENTO DEL CASTELLANO
Roma, 11 dicembre 2024
Oggi Castel Sant’Angelo apre nuovamente le porte del suo Appartamento del Castellano, uno spazio inaccessibile per decenni, ma che ora torna a raccontare una parte significativa della storia del monumento attraverso una mostra permanente dedicata alla Girandola, il celebre spettacolo pirotecnico che per secoli ha rappresentato uno dei simboli più luminosi e suggestivi di Roma.
L’appartamento, sino a poco tempo fa utilizzato come ufficio, era in origine riservato al Castellano, la massima autorità residente nel Castello e figura centrale della sua gestione. Militare di carriera, il Castellano aveva il compito di presidiare e sovrintendere al funzionamento della fortezza, baluardo della difesa pontificia e simbolo del potere papale. Come ricorda la targa ancora visibile sulla porta d’ingresso, l’alloggio fu voluto da Zenobio Savelli Palombara (1673-1752), ufficiale dell’esercito pontificio, dopo che nel 1730 papa Clemente XII Corsini lo nominò vicecastellano. Costruito per la maggior parte tra il 1730 e il 1731, l’appartamento si articolava su due livelli, con un totale di sette ambienti: tre al piano superiore, oggi visitabili, e quattro a quello inferiore, tra cui le celebri sale di Perseo e di Amore e Psiche. I lavori di ristrutturazione voluti da Zenobio Savelli conferiscono al prospetto esterno del Castello il suo aspetto odierno, scandito da una sequenza armoniosa di finestre che dialogano con la massiccia imponenza delle mura sottostanti. Il livello superiore, ora riaperto al pubblico, si compone di tre stanze distinte anticamente per posizione: “verso Ripetta“, “centrale” e “verso San Pietro“. Le volte delle due sale laterali sono impreziosite dai simboli della famiglia Palombara, mentre quella della sala centrale, più ampia e solenne, reca gli stemmi di papa Benedetto XIV Lambertini (1740-1758), sotto il cui pontificato Zenobio Savelli prestò servizio. Gli ornamenti delle volte, con le loro decorazioni a grottesche, rappresentano un omaggio alla scuola cinquecentesca di Perino del Vaga, le cui influenze permeano molte parti del Castello. Sulle pareti, invece, si sviluppano scene vivaci e delicate, animate da putti intenti in attività giocose, testimonianza della grazia e della leggerezza che caratterizzano il gusto rococò. Sino a tempi recenti, l’autore di questi affreschi rimaneva sconosciuto. Tuttavia, gli studi condotti durante i lavori di allestimento dell’appartamento hanno consentito di attribuire i dipinti murali a Pier Leone Ghezzi (1674-1755), pittore ufficiale di Castel Sant’Angelo e celebre caricaturista, che eseguì l’opera nei primi mesi del 1731 con il supporto di Daniele De Vitten, maestro indoratore. La vicinanza tra Ghezzi e Zenobio Savelli è confermata da alcune caricature del Castellano realizzate dall’artista, che ne restituiscono un ritratto ironico e familiare. Elemento peculiare della facciata dell’appartamento era un grande orologio, montato nel 1746 e dipinto a fresco dallo stesso Pier Leone Ghezzi. Il quadrante bianco con numeri romani, incastonato tra le finestre centrali, scandiva il tempo al cuore della fortezza. Questo orologio, simbolo del controllo e della regolarità che governavano la vita del Castello, fu purtroppo rimosso nel 1934, segnando la perdita di un importante dettaglio architettonico. La figura di Zenobio Savelli, oltre a essere legata alla trasformazione architettonica del Castello, è strettamente connessa alla tradizione della Girandola, lo spettacolo pirotecnico che si svolgeva annualmente sulle mura del monumento. Nel 1750, il Castellano pubblicò un libretto intitolato De spari diversi d’artiglieria…, una sorta di manuale che elencava i fuochi d’artificio da effettuare a Castel Sant’Angelo in occasione delle principali ricorrenze dell’anno. Questo documento non solo testimonia il ruolo attivo del Castellano nella preparazione dello spettacolo, ma rivela anche la stretta collaborazione con i Bombardieri, un corpo specializzato nell’arte militare e nella gestione delle bombarde. La Girandola, concepita come una celebrazione del potere papale e dell’ingegno umano, era un evento che univa arte, scienza e spiritualità. La sua origine risale al 1481, con i primi fuochi disegnati da Michelangelo e, successivamente, perfezionati da Gian Lorenzo Bernini e Athanasius Kircher. Ogni accensione era studiata con precisione millimetrica per creare figure luminose che si libravano nel cielo, trasformando la notte in un palcoscenico celeste. L’eco di questi fuochi risuonava tra le mura del Castello, amplificandone il carattere epico e solenne. Oggi, i tre ambienti dell’appartamento ospitano una mostra permanente dedicata proprio alla Girandola e alla tradizione pirotecnica di Castel Sant’Angelo. L’esposizione presenta una selezione di opere e oggetti provenienti dai depositi del Castello, sottoposti a un attento lavoro di restauro. Tra questi spiccano progetti, modellini e strumenti legati alla preparazione degli spettacoli pirotecnici, che raccontano l’evoluzione di una tradizione secolare. Prima di essere trasferiti nell’appartamento, questi materiali sono stati esposti nella mostra La “maraviglia” del tempo. La Girandola e l’arte pirotecnica a Castel Sant’Angelo, aperta dal 27 giugno al 29 settembre 2024. L’allestimento ha rappresentato una rara opportunità per il pubblico di ammirare documenti e oggetti fino ad allora custoditi nei depositi, un patrimonio capace di rievocare l’antica magia che trasformava Castel Sant’Angelo in un faro di luce e meraviglia. La riapertura dell’Appartamento del Castellano segna un passo significativo nella valorizzazione di Castel Sant’Angelo, restituendo al pubblico non solo uno spazio architettonico di grande pregio, ma anche una narrazione che intreccia arte, storia e tradizione in un racconto senza tempo. Tra i presenti all’inaugurazione, hanno partecipato  Massimo Osanna, Direttore Generale Musei, Federico Mollicone, Presidente della Commissione Cultura, Cristiana Di Torrice di Enel, Claudio Strinati, storico dell’arte, Eva M. Antulov, ideatrice della mostra, Giuseppe Passeri, consulente storico-scientifico, e Luca Mercuri, Direttore Delegato di Castel Sant’Angelo. @Photocredit Davide Oliviero

 

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Johannes Brahms (1833-1897): Complete Organ Works

Mer, 11/12/2024 - 20:31

Johannes Brahms (1833-1897): Prelude and Fugue in A minor, WoO 9, Fugue in A flat minor, WoO 8; Chorale Prelude and Fugue on O Traurigkeit, o Herzeleid, WoO 7; Eleven Chorale Preludes, Op.122. Konstantin Volostnov (Organo). Registrazione: 28 e 29 agosto 2020, presso la Moscow Central Church of Evangelical Christians-Baptists. T. Time: 67′ 23″. 1 CD Naxos 8.579147

Nonostante avesse abbandonato presto l’idea di essere un virtuoso dell’organo o soltanto di accompagnare altri musicisti, questo strumento ebbe una grande importanza nel mondo musicale di Johannes Brahms, perché ad esso non solo affidò i suoi sentimenti più intimi e più cari, ma spesso lo utilizzò in lavori sinfonici di più largo respiro come l’Ein deutsches Requiem. Il periodo, in cui il compositore mostrò maggiore interesse per l’organo, si concentra comunque negli anni Cinquanta dell’Ottocento e soprattutto dopo il tentativo di suicidio di Schumann che aveva costretto la moglie Clara a un’intensa attività concertistica anche su questo strumento. Proprio per la donna, da lui sempre platonicamente amata, che all’epoca stava facendo una tournée in Inghilterra, scrisse alcuni pezzi tra cui un pezzo in la bemolle maggiore che le inviò nel giorno del compleanno di Robert. La non vasta produzione per organo di Brahms, di cui soltanto due lavori (la Fuga in la bemolle maggiore WoO 8 e il Preludio Corale e Fuga on O Traurigkeit, o Herzeleid, WoO 7) sono stati pubblicati, comprende altre tre composizioni e, in particolare, il Preludio e fuga in la minore WoO 9 e il Preludio e Fuga in sol minore, WoO 10 e gli 11 Preludi ai corali op, 122, la cui composizione ci concentra, per quanto riguarda le prime opere, nel periodo che va dal 1856 al 1858, e negli ultimi anni di vita per l’op. 122 che può essere considerata come un testamento spirituale. Dopo la morte di molte persone care, Brahms, infatti, in questo lavoro, ritornò all’organo, strumento della sua giovinezza, e alla grande tradizione del corale, per ritrovare la forza spirituale che gli sarebbe servita per superare il dolore di quelle perdite. Pagine, non particolarmente complesse dal punto di vista tecnico anche nella parte del pedale, raramente difficile, questi lavori denotano, però, la grande perizia contrappuntistica di Brahms che per la loro composizione si è rivolto alla grande tradizione bachiana, evidente per esempio nei corali la cui scrittura ricorda quella dei lavori dell’Orgel-Büchleine. Splendida l’esecuzione da parte di Konstantin Volostnov sullo storico organo della Chiesta Centrale degli Evangelisti di Mosca costruito da Ernst Röver nel 1898. Nella sua interpretazione, grazie anche un sapiente uso della registrazione, è ben evidenziata la polifonia di questi lavori che, seppur non figurino tra i lavori più famosi di Brahms, sono comunque delle testimonianze dell’alto magistero contrappuntistico raggiunto dal compositore tedesco,

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Roma, Fondazione Torlonia: “Ancient Roman Sculpture from the Torlonia Collection”

Mer, 11/12/2024 - 17:46

Roma, Fondazione Torlonia
ANCIENT ROMAN SCULPTURE FROM THE TORLONIA COLLECTION
Nel labirinto delle iniziative culturali che segnano l’agenda del 2025, spicca un nome come una costellazione guida: la Fondazione Torlonia.
Con un programma che abbraccia tradizione e innovazione, l’istituzione si prepara a un anno di straordinaria rilevanza, orchestrando un viaggio che dal cuore di Roma si dipana fino agli Stati Uniti, passando per le vette culturali di Milano e Parigi. Il sipario su questo nuovo capitolo si alza con l’eco trionfale della mostra al Museo del Louvre di Parigi, che con oltre 613.000 visitatori al 30 novembre 2024 si è guadagnata una proroga fino al gennaio 2025. Questo straordinario successo non è che un preludio: l’ambizioso tour internazionale della Collezione Torlonia, destinato a debuttare in Nord America, rappresenta un evento epocale. Milano, che aveva già accolto una precedente tappa della Collezione, e Roma, cuore pulsante di quest’eredità, cedono ora il passo a nuove frontiere. La visione del Principe Alessandro Torlonia, fautore di questa missione culturale, si traduce in un’azione globale che celebra il valore universale dell’arte classica. Il contributo di Bvlgari è cruciale: il sostegno offerto dall’iconico marchio permette alla Fondazione di proseguire nel suo impegno per il restauro, lo studio e la catalogazione delle opere nei Laboratori Torlonia. Questi luoghi, veri e propri atelier della conservazione, rappresentano non solo un baluardo contro il trascorrere del tempo, ma anche un laboratorio intellettuale, aperto agli studiosi per la prima volta, in un gesto che testimonia un autentico spirito di condivisione del sapere. Tra le stelle del calendario 2025 brilla Myth and Marble: Ancient Roman Sculpture from the Torlonia Collection, una mostra itinerante che prenderà vita in prestigiose istituzioni come l’Art Institute of Chicago e il Kimbell Art Museum di Fort Worth, per poi approdare al Montreal Museum of Fine Arts. Curata da Lisa Ayla Çakmak e Katherine A. Raff, questa esposizione offrirà al pubblico nordamericano un affaccio privilegiato sulla più importante collezione privata di sculture romane antiche, un’esperienza immersiva che celebra il connubio tra arte e storia. Le circa 60 opere in mostra, tra cui busti, rilievi e monumentali figure mitologiche, rappresentano un arco temporale che si estende dal V secolo a.C. al II secolo d.C., con un focus sull’Età Imperiale. Questi capolavori, restaurati con dedizione e meticolosità, raccontano non solo la grandezza dell’antica Roma, ma anche l’impegno della Fondazione nel preservare e valorizzare questa eredità per le generazioni future. «Il linguaggio dell’arte classica è universale, capace di dialogare con ogni epoca», osserva Carlotta Loverini Botta, Direttrice della Fondazione Torlonia. Questa filosofia ispira l’apertura dei Laboratori Torlonia, che nel 2025 vedranno il completamento del restauro di ulteriori 27 opere, in aggiunta alle oltre 150 già recuperate negli anni precedenti. L’intento è chiaro: creare un ponte tra passato e presente, rendendo fruibile un patrimonio che non è solo memoria storica, ma anche fonte di ispirazione. La scena romana non resta però priva di protagonismo. L’Antiquarium di Villa Albani Torlonia, inaugurato nella primavera del 2024, si prepara ad accogliere una nuova mostra dedicata ai marmi colorati. Curata dal professor Carlo Gasparri, l’esposizione esplorerà l’uso di questi materiali preziosi dall’età repubblicana a quella tardo-antica, evidenziandone il ruolo nella decorazione di edifici e residenze. Colonne, rilievi ed elementi d’arredo raccontano una storia di gusto e maestria, collegando epoche diverse attraverso il filo conduttore dell’arte. Un altro capitolo affascinante del 2025 è rappresentato dalla pubblicazione dei Taccuini di Carlo Marchionni, una testimonianza preziosa che getta luce sul processo creativo dell’architetto di Villa Albani Torlonia. Questi appunti, arricchiti dagli studi della compianta professoressa Elisa Debenedetti, restituiscono non solo uno spaccato della vita artistica del Settecento, ma anche un’emozionante finestra sulle relazioni e le scelte che hanno plasmato uno dei più straordinari complessi architettonici dell’epoca. La Fondazione Torlonia riafferma così la sua vocazione a diffondere cultura e bellezza come valori universali. La nomina di Carlo Gasparri a coordinatore scientifico, affiancato da un comitato presieduto da Salvatore Settis e composto da Gabriele Galateri di Genola, Filippo Modulo, Carlo Ratti e Xavier Francesco Salomon, sottolinea ulteriormente l’impegno della Fondazione nel perseguire l’eccellenza accademica. Concludendo, il 2025 si configura come un anno di svolta per la Fondazione Torlonia, un viaggio che, partendo da Milano e Roma, tocca Parigi e raggiunge le coste nordamericane. Questo mosaico di iniziative rappresenta non solo un tributo all’arte classica, ma anche una celebrazione del suo potere di attraversare i confini del tempo e dello spazio, dialogando con un mondo in continua evoluzione.

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