Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera 2024-2025 ‒ Manon Manon Manon
MANON LESCAUT (altro cast)
Dramma lirico in quattro atti, dal romanzo Histoire du chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut di Antoine François Prévost
Musica di Giacomo Puccini
Manon Lescaut MARIA TERESA LEVA
Renato Des Grieux CARLO VENTRE
Lescaut ALESSANDRO LUONGO
Geronte di Ravoir CARLO LEPORE
Edmondo GIUSEPPE INFANTINO
Il maestro di ballo / Un lampionaio DIDIER PIERI
Un musico REUT VENTORERO
Sergente degli arcieri e L’oste JANUSZ NOSEK
Il comandante di marina LORENZO BATTAGION
Madrigalisti PIERINA TRIVERO, MANUELA GIACOMINI, GIULIA MEDICINA, DANIELA VALDENASSI
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Renato Palumbo
Maestro del Coro Ulisse Trabacchin
Regia Arnaud Bernard con la collaborazione di Marina Bianchi
Scene Alessandro Camera
Costumi Carla Ricotti
Luci Fiammetta Baldiserri
Movimenti coreografici Tiziana Colombo
Nuovo allestimento Teatro Regio Torino
Torino, 3 ottobre 2024
Se un teatro vuol fare, visto il centenario, un quasi tutto Puccini si trova inevitabilmente ad affrontare il duro scoglio della Manon Lescaut per cui, di questi tempi, è assai arduo trovare in campo voci adeguate. Al Regio di Torino le recite si susseguono infatti con protagonisti, pur intelligenti e di buona volontà, ma assai lontani da potersi considerare ideali. Erika Grimaldi sale sul palco come Manon per ben sette delle otto recite in cartellone, viene rilevata per una sola data, la nostra del 3 ottobre, da Maria Teresa Leva. Anche per il Cavaliere Des Grieux il cartellone originario prevedeva delle alternanze che nei fatti non si stanno verificando. Pare infatti che ad Aronica, titolare sulla carta di gran parte delle date, sia rimasta la sola recita d’apertura per poi passare a Carlo Ventre le due successive. Per il proseguo, il sito del teatro è reticente e al pubblico non rimarrà che l’emozione di scoprirlo, volta per volta, sul manifesto esposto nei pressi dell’ingresso in sala. Sono queste incertezze la testimonianza esplicita delle difficoltà odierne a trovare interpreti adatti e all’altezza delle difficoltà psicologiche e tecniche dei protagonisti di quest’opera. Siamo al 3 di ottobre e Maria Teresa Leva vince la sfida con un timbro affascinante, un legato ben strutturato e l’accortezza di offrire una vocalità mai forzata. Psicologicamente incerta tra l’essere la fatua e leggera ragazzetta dei primi due atti e mostrare una natura tragica e disperata nel prosieguo, sceglie la strada mediana di comparire come fanciulla debole più vittima di stupri che artefice di seduzioni. La sua prestazione viene fortemente penalizzata da “agenti esterni” quali il clangore orchestrale che, nell’atto iniziale, unito allo scorrazzare del coro, le erge una barriera difficoltosa da superare; la regia poi le rapina, con una troppo invasiva proiezione di un film, la primazia del “sola perduta abbandonata”. La povera Manon, relegata a figurina marginale, sotto uno schermo immenso di proiezione, viene fagocitata dal giganteggiare dei due bellissimi e giovani protagonisti del film. Immagini distopiche sovrappongono a lei, cantante ancora in vita, un enorme Des Grieux che, fuori di senno con gli occhi spiritati, la ricopre, ormai morta e composta nella fossa, con la sabbia del deserto, tra ritti cactus. Chiudendo gli occhi, ascoltando senza guardare, la prestazione della Leva si coglie emozionata ed emozionante, tale a quelle che, in molti finali di Bohème, ti serrano la gola. Unico applauso a scena aperta della serata, seppur acceso da un “brava!” solitario lanciato dalla platea, dopo l’apprezzabile esecuzione delle “trine morbide”. Il Des Grieux di Carlo Ventre che risente indubbiamente dei tanti anni di carriera e dei tanti palcoscenici calpestati, ripropone, con qualche limite, ruvide baldanze giovanili. La voce del tenore, benché sfondi abbastanza gagliardamente il muro dell’orchestra, trova qualche difficoltà a galvanizzare il pubblico torinese tradizionalmente troppo compassato e restio agli omaggi. Ventre ha, con dignità e mestiere, costruito un personaggio irruente e a tutto tondo e, pur se i centri paiono un poco soffocati, gli acuti sfoggiano uno squillo che ricupera, almeno in parte, passati splendori. L’amante appassionato confligge con l’aitante giovinetto che compare sull’implacabile schermo che incombe alle sue spalle. Applausi contenuti al “Donna non vidi mai”, peraltro frenati da una regia che nasconde il protagonista tra una folla eccessivamente caotica che ne impedisce l’identificazione. Anche il “non v’avvicinate … pazzo son”, subito stoppato da un’orchestra frettolosa, se ne va senza lasciar tracce. I duetti, dei due protagonisti, del primo e del secondo atto soffrono dell’eccessiva disparità, in volume di suono ed in intenzioni psicologiche, delle due voci. Il resto della compagnia, invariata per tutte le recite, s’è fatto valere senza cedimenti. Alessandro Luongo come Lescaut e Carlo Lepore come Geronte si sono mostrati affidabili e sicuri coprotagonisti. Renato Palumbo e L’Orchestra del Teatro Regio, a tratti sopra le righe per il volume del suono, hanno con sensibilità sostenuto un palcoscenico a tratti eccessivamente messo a disagio da una regia che poco si è curata delle precipue esigenze di una rappresentazione operistica. Il Coro del Teatro Regio che si suole incondizionatamente lodare, ha passato dei difficili momenti quando, nel primo atto, accalcato e appesantito dal confuso andirivieni, ha pure dovuto cercare l’accordo negli attacchi, impresa portata con fatica a buon fine grazie alle numerose coincidenze ritmiche in fortissimo. Da ultimo: l’accordo tra cinema e opera non è riuscito al meglio. La troppo scontata sequela di cinematografici baci appassionati, proiettata nel corso dell’intermezzo, e gli interminabili 4 minuti di navigli squassati dalle onde oceaniche in burrasca, pausa introduttiva all’ultimo atto, possono anche aver avuto un loro perché. La sovrapposizione filmica, all’intero quarto atto, con prima Des Grieux che pedina Manon fin all’interno di una casa d’appuntamenti, seguita dalla morte di Manon nel deserto che nei fatti oblitera il canto del soprano morente, ci paiono sbagliati ed inaccettabili. Pubblico contenuto che comunque, senza eccessivi entusiasmi, applaude. Foto Simone Borrasi
Roma, Nuovo Teatro Ateneo
LA TEMPESTA CONTINUA
regia di Claudio Puglisi
tratto dal romanzo “Immer Noch Sturm” di Peter Hamdke
con Chiara Catalano, Giuseppe Savio, Tiziana Di Nunno, Flavia Giovannelli, Valeria Almerighi, Marco Conti, Giuseppe Mortelliti, Marzia Di Giulio, Alessandro Teodori
Roma, 10 Ottobre 2024
Il 10 ottobre, il Nuovo Teatro Ateneo è stato il palcoscenico di una delle più intense e raffinate espressioni del teatro contemporaneo: “La Tempesta Continua”, per la regia di Claudio Puglisi. Ispirato all’opera densa e onirica di Peter Handke, “Immer noch Sturm”, lo spettacolo ha rappresentato non solo un’esplorazione della memoria individuale e collettiva, ma un vero e proprio atto di creazione continua, capace di elevare il linguaggio scenico a una dimensione quasi rituale. Puglisi ha plasmato uno spazio di indagine interiore attraverso un uso magistrale dell’improvvisazione, facendo del palcoscenico un luogo fluido, in cui passato e presente si sono sovrapposti in una sinfonia di emozioni e significati sempre nuovi. L’opera originale di Handke, pubblicata nel 2010, si erge come una meditazione poetica e storica sulle radici culturali dell’autore, intrecciando la narrazione autobiografica con la ricostruzione mitica delle sue origini slovene in Carinzia. In “Immer noch Sturm”, il protagonista intraprende un viaggio onirico alla ricerca di un dialogo con i suoi avi, portatori di una memoria che si è dispersa nella violenza della Seconda Guerra Mondiale e nella cancellazione di un’identità comunitaria. Handke esplora il delicato equilibrio tra la necessità di ricordare e il rischio di perdersi in un passato che sembra sfuggente e inafferrabile. Questa tensione tra il ricordo e l’oblio, tra la persistenza della memoria e la sua inesorabile dissoluzione, ha trovato una rappresentazione viscerale e complessa nella regia di Puglisi. Attraverso l’uso dell’improvvisazione, Puglisi ha saputo restituire la dimensione caleidoscopica e frammentata del romanzo, consentendo agli attori di interagire con il testo in modo organico e dinamico. Ogni rappresentazione ha assunto forme nuove, come un palinsesto su cui scrivere e riscrivere le emozioni del momento. In questo, lo spettacolo si è posto come un’opera mai fissa, ma in continuo mutamento, alimentata dall’energia stessa degli attori e del pubblico. L’improvvisazione, lungi dall’essere un mero strumento performativo, è diventata il veicolo principale per attraversare le profondità dell’opera di Handke, offrendo un linguaggio scenico capace di dare forma tangibile al flusso della coscienza e del sogno. Il lavoro di Claudio Puglisi è stato profondamente influenzato dagli insegnamenti di Paolo Giuranna, maestro di recitazione poetica, il cui lascito si riflette in una visione del teatro come luogo in cui parola e corpo si fondono in un’espressione unitaria e potente. La poetica del linguaggio è stata arricchita dalla formazione in Sprachgestaltung, l’arte drammatica del linguaggio, appresa da Marialucia Carones, che ha trasmesso agli attori un approccio metodologico capace di esplorare le sonorità e le risonanze della parola, trasformandola in un’esperienza sensoriale e fisica. Questa pratica si è intrecciata con l’ispirazione proveniente dal pentathlon antico, una disciplina che unisce movimento, armonia e forza, contribuendo a creare un’unità tra gesto e parola, tra corpo e spirito. In questo contesto, l’improvvisazione ha assunto una funzione non solo creativa, ma spirituale, richiamando le teorie di Rudolf Steiner sulla natura vivente dell’arte teatrale. Steiner vedeva nel teatro un luogo sacro, in cui l’attore diventa il veicolo di forze spirituali più profonde, capaci di attraversare la dimensione materiale per connettere il pubblico a una verità superiore. Puglisi, con grande sensibilità, ha accolto questa visione, creando uno spazio scenico che trascendeva la mera rappresentazione per trasformarsi in un atto di creazione collettiva e condivisa. Ogni gesto, ogni parola pronunciata dagli attori sembrava essere sospinta da una forza invisibile, quasi mistica, che coinvolgeva lo spettatore in un processo di risveglio interiore. Il mito, in particolare il mito di Orfeo, ha giocato un ruolo fondamentale all’interno della narrazione scenica. Handke ha reinterpretato questa figura archetipica, invertendone il significato: nel mito classico, Orfeo perde Euridice voltandosi indietro; in “Immer noch Sturm”, è chi si volta indietro a scomparire, una riflessione sulla perdita inevitabile che deriva dal tentativo di riavvicinarsi a un passato che si dissolve. Puglisi ha saputo cogliere questa sottigliezza mitologica e l’ha tradotta in una regia capace di creare una tensione costante tra memoria e dimenticanza, tra la necessità di preservare il ricordo e la consapevolezza del suo progressivo svanire. La conclusione dello spettacolo ha raggiunto un climax emotivo e intellettuale che ha lasciato il pubblico profondamente scosso. Non si è trattato semplicemente di assistere a una rappresentazione teatrale, ma di partecipare a un vero e proprio atto di riflessione collettiva. Gli spettatori sono stati immersi in una dimensione in cui il confine tra palco e platea si è dissolto, trasformandoli in co-creatori di un’esperienza che interrogava le profondità della memoria e del sogno. In ultima istanza, “La Tempesta Continua” ha offerto al pubblico non solo una narrazione, ma un percorso di scoperta e consapevolezza. Come ha affermato lo stesso Claudio Puglisi, “il teatro è un processo vivo, in cui la creazione non si arresta mai, ma si rinnova costantemente attraverso il dialogo tra attore, testo e pubblico”. Con questa rappresentazione, Puglisi ha saputo restituire al teatro la sua funzione più alta: quella di essere uno spazio di rivelazione e trasformazione, un luogo in cui passato, presente e futuro si incontrano per creare una verità nuova, mai definitiva, ma sempre in divenire.
Milano, Teatro alla Scala, Stagione 2023/24
“LA DAME AUX CAMÉLIAS”
Balletto in tre atti dal romanzo di Alexandre Dumas figlio
Coreografia e Regia John Neumeier
Musica Fryderyk Chopin
Marguerite Gautier MARTINA ARDUINO
Armand Duval TIMOFEJ ANDRIJASHENKO
Monsieur Duval CHRISTIAN FAGETTI
Nanine CHIARA FIANDRA
Le Duc MASSIMO GARON
Prudence MARIA CELESTE LOSA
Le Comte de N. SAÏD RAMOS PONCE
Manon LINDA GIUBELLI
Des Grieux NAVRIN TURNBULL
Olympia GAIA ANDREANÒ
Gaston Rieux DARIUS GRAMADA
Un pianista MARCELO SPACCAROTELLA
Corpo di ballo e Orchestra del Teatro alla Scala di Milano
Direttore Simon Hewett
Scene e Costumi Jürgen Rose
Milano, 8 ottobre 2024
Nonostante La Dame aux Camelias di Neumeier creato a fine anni ‘70, approdò alla Scala solo nel 2007. È una di quelle creazioni del ‘900 in cui si dimostrò quali segni di vitalità il balletto narrativo possa avere. Non a caso nacque nell’alveo della produzione di John Cranko e ne rappresenta a tutti gli effetti una sua evoluzione nel linguaggio drammaturgico. Lo spettacolo inizia a luci accese. Il sipario è aperto e lo spettatore diviene un po’ come una di quelle dame del romanzo di Dumas, vogliose di indugiare nella casa della cortigiana defunta con la scusa di spiarne i lussi e le beltà, ma in realtà per la curiosità di rintracciare in quella “splendida fogna” le tracce della sua vita dissoluta. Esse scopriranno soltanto che i “misteri erano morti con la loro dea”: si vendevano gli oggetti e non ciò che si vedeva quando lei era viva. Per lo spettatore, però, dopo il prologo qualche mistero si disvelerà. Sapiente è anche la gestione di più livelli spazio-temporali che si svolgono in contemporanea. Come, ad esempio, il confronto emotivo e psicologico di Armand e Margherita con le vicende dei protagonisti del balletto di Manon a cui stanno assistendo (è questa invenzione di Neumeier, nel romanzo tale riferimento era semplicemente al libro dell’Abbé Prévost, che Armand aveva regalato a Margherita): c’è un rischio che tutto finisca come la storia di quei due sventurati? Tale riferimento, che sembra poco più che un cenno nel romanzo, diviene un tema portante del balletto, un leitmotiv che spiega molte evoluzioni dell’azione scenica. Lo spettacolo è ricco di queste ma anche di altre transizioni, basti pensare al finale, che rendono molto fluido il balletto. Interessante, quindi, anche la dimensione metateatrale: reinterpretando il rapporto che Margherita ha con un’opera letteraria com’è Manon, Neumeier mette in scena il teatro nel teatro non per svelare qualcosa sul suo funzionamento o su cosa c’è dietro la “verità” che viene messa in scena, ma per mostrare quale rapporto un qualsiasi spettatore può intessere con un’opera teatrale e accompagnare così gli stati psicologici della vita di quella persona, come fa il romanzo di Manon per Margherita: spesso l’aveva in mano, lo annotava. Figlia del suo tempo è anche la gestione dello spazio scenico, che dal palco si protende verso il pubblico con due passerelle laterali. Un altro fatto da notare è la presenza in cartellone della parola “regia” accanto a “coreografo”. Di Neumeier ovviamente. Ma l’accostamento della “regia” – nonostante sia questa una conquista di circa un secolo fa – non è così familiare (nel bene o nel male?) al mondo ballettistico: non sembra una questione solo formalmente terminologica. La presenza del silenzio, infine, è un altro elemento di modernità. Tutto il prologo si svolge nel silenzio, incomincia a luci accese, c’è ancora il parlottio che precede lo spettacolo, qualche spettatore è intento a fare foto: mentre accade tutto ciò una figura entra, si guarda attorno, lo spettacolo inizia senza annunciarsi. Il prologo è teatro diciamo “puro”, interrotto ad un certo punto solo dal suono di un piano che stuzzica l’attenzione di uno degli avventori all’asta, prima con accordi “casuali”, per poi suonare Chopin – coerentemente con la scelta di accompagnare tutto lo spettacolo con questo musicista, anche se forse sarebbe stato più azzeccato un richiamo all’invito al valzer di Weber che suonava Margherita nel romanzo. Nella memoria di Armand c’era il dubbio che forse lei lo suonasse “per abitudine, o per ricordarmi il giorno nel quale ci eravamo conosciuti”. Sarebbe stato il “la” appropriato per innescare i ricordi di Armand? Ad ogni modo, anche altri momenti si svolgono nel silenzio e si intessono alla perfezione con la partitura musicale, quasi facendone parte. Il direttore d’orchestra è intento a capire cosa succede sul palco per capire quando proseguire con il resto dell’orchestra: il palco sembra in alcuni momenti farne parte; infatti, una delle danze viene suonata dal pianoforte in scena. In tale ottica di lettura, quindi, i passaggi che ci sono sembrati meno interessanti sono forse i passi a due, seppur necessari drammaturgicamente, anche coinvolgenti, ma sono pure quelli che più si allineano alla struttura nota e con meno guizzi inventivi. Abbiamo speso qualche parola di troppo, ma si trattava della prima occasione di vedere e poter scrivere di questo spettacolo. Passando al cast, abbiamo assistito al debutto di Martina Arduino nei panni di Margherita e di Timofej Andrijashenko in quelli di Armand. Se, come si dice sempre per ogni titolo che entra nel novero del repertorio, la complessità interpretativa del personaggio è un banco di prova per i grandi ballerini, possiamo dire che è superata per entrambi i protagonisti. La facilità tecnica di Arduino si abbina a un’invidiabile morbidezza dei gesti, e notiamo che il lavoro interpretativo svolto negli anni fino ad ora è stato notevole ed efficace: ad maiora! L’entusiasmo del pubblico ha ricompensato gli sforzi di tutto il cast, in special modo di Linda Giubelli e Navrin Turnbull nei ruoli di Manon e Des Grieux, alter ego dei protagonisti, e di Darius Gramada nel ruolo di Gaston, la cui vis provocante e ironica ha avuto il giusto riscontro nel pubblico. Nei giorni scorsi ha debuttato con successo sia il cast con Bolle e Manni, che quello con Coviello e l’ospite internazionale Alina Cojocaru. L’11 ottobre si replica con il cast di questa serata, poi le ultime due date (14 e 16 ottobre) con la copia Cojocaru-Coviello. Saremo presenti il 14, quindi seguiteci perché torneremo a parlarvi di questo spettacolo!
Padova, Auditorium C. Pollini, Stagione Amici della Musica di Padova 2024/25
“Un pianoforte per Padova”
Pianoforte Alexander Gadjiev
György Ligeti: Musica ricercata n. 1 e 2; John Corigliano: Fantasia su un Ostinato;
Ludwig van Beethoven: Allegretto dalla Sinfonia n. 7 (trascr. F. Liszt); Franz Liszt:
Funérailles S. 173/7; Frédéryck Chopin: Preludi op. 28 n. 23, 22, 18, 13, 10, 2; Aleksandr Skrjabin: Sonata n. 9 “Messa Nera”;Ludwig van Beethoven: Variazioni op. 35
Padova, 08 ottobre 2024
La 68°stagione degli Amici della Musica di Padova si è aperta con il ritorno di Alexander Gadjiev, pianista tra i più talentuosi della sua generazione, che ha offerto al pubblico una performance di straordinaria intensità e sensibilità interpretativa. L’interprete a soli ventinove anni possiede già un curriculum straordinario: vincitore di numerosi concorsi e premi (tra tutti il secondo Premio conquistato al XVIII Concorso Chopin), vanta una carriera internazionale. Alexander Gadjiev si distingue nel panorama pianistico internazionale non solo per la sua tecnica impeccabile, maScri anche per una profonda sensibilità artistica che lo rende un interprete unico. Il suo approccio al repertorio è caratterizzato da una ricerca continua del significato musicale, che si traduce in esecuzioni capaci di coniugare un virtuosismo di altissimo livello con una notevole profondità espressiva. Un altro punto di forza di Gadjiev è la sua capacità di affrontare con pari maestria tanto il grande repertorio classico quanto le opere meno eseguite. La sua lettura di autori come Chopin, Liszt o Scriabin è al tempo stesso rispettosa delle tradizioni e innovativa, capace di offrire una visione personale senza mai perdere di vista il cuore della partitura. Nel primo tempo l’interprete sembra quasi prenderci per mano per condurci in una dimensione che prende forma poco a poco. Seguendo un filo logico concettuale sapientemente costruito, si parte dalla ricorsività di un singolo suono per arrivare, con un continuo crescendo e senza soluzione di continuità, all’esplosione, forse dolorosa, che si risolve in un tripudio sia armonico che sonoro.
L’esecuzione di Musica Ricercata n. 1 e 2 di György Ligeti è una vera immersione nell’essenza minimalista e sperimentale della musica del compositore ungherese. Gadjiev si confronta con due dei pezzi più intriganti del repertorio pianistico del XX secolo, dando vita a un’interpretazione carica di tensione e precisione. Il primo brano, costruito quasi interamente su un’unica nota (la “A”) è una sfida di controllo e dinamica. Nel secondo pezzo, dove il materiale melodico si espande con l’introduzione di intervalli più complessi e un ritmo più serrato, Gadjiev riesce a mettere in risalto le qualità timbriche e ritmiche del brano, rendendo omaggio allo spirito di ricerca sonora di Ligeti. La Fantasia su un Ostinato di John Corigliano è un’opera che affonda le sue radici nella modernità musicale, proponendo un dialogo costante tra ripetizione e variazione. Alexander Gadjev ne ha offerto una lettura profonda e coinvolgente, portando alla luce tutte le sfumature di questa composizione complessa. Il brano è ispirato al secondo movimento della Settima Sinfonia di Beethoven, costruendo l’intera opera su un ostinato ripetuto, una linea ipnotica e minimale che Gadjev riesce magistralmente a catturare. L’Allegretto dalla Settima Sinfonia di Ludwig van Beethoven, nella magistrale trascrizione per pianoforte di Franz Liszt, è un’opera carica di solennità e pathos. Nell’interpretazione del pianista emerge una sensibilità rara, capace di coniugare la monumentalità della sinfonia originale con la trasparenza e l’intimità richieste dalla trascrizione lisztiana. L’interpretazione di Funérailles di Franz Liszt è un viaggio intenso e profondamente emozionale che coglie a pieno il carattere funebre e maestoso del pezzo. La composizione, una delle più celebri tra le Harmonies Poétiques et Religieuses, è un omaggio al crollo degli ideali rivoluzionari del 1848. Fin dall’inizio, con quei rintocchi di campana sommessi e scuri che aprono il brano, il pianista riesce a creare un’atmosfera di solenne gravità, conducendoci poi dalle sezioni più liriche e meditative a quelle più drammatiche e tumultuose, senza mai perdere la coerenza emotiva del discorso musicale. La seconda parte del concerto si apre con una selezione dei Preludi op. 28 di Chopin (n. 23, 22, 18, 13, 10, 2). Ogni Preludio è un piccolo universo musicale, e Gadjev riesce a esplorarli con una sensibilità che lascia il segno, dimostrando non solo una grande padronanza tecnica ma anche una profonda comprensione dell’universo musicale di Chopin. La Sonata n. 9 “Messa Nera”, composta da Aleksandr Skrjabin nel 1912-13, è una delle opere più enigmatiche e visionarie del repertorio pianistico. L’interprete ne ha offerto una lettura magnetica, esaltandone il carattere oscuro e mistico che permea l’intera composizione. La complessità armonica e le ardite progressioni cromatiche della Messa Nera vengono esplorate con grande attenzione ai dettagli, senza mai perdere il senso di un filo narrativo che si dipana in un crescendo di tensione spirituale. L’esplorazione degli intervalli dissonanti e l’intensità emotiva con cui il pianista esegue le sezioni più turbolente risultano in un viaggio quasi ipnotico verso l’ignoto. Le Variazioni op. 35 di Ludwig van Beethoven, basate sul tema del quarto movimento della sinfonia Eroica, rappresentano una delle vette della produzione beethoveniana per pianoforte, sia per la complessità formale che per l’audace sperimentazione armonica. Il tema, introdotto con rigore, è reso con una maestosità che richiama la solennità beethoveniana; Gadjiev riesce a infondere vitalità ad ogni variazione, tratteggiando con grande eleganza i contrasti dinamici e ritmici. Particolarmente efficace è l’uso del rubato, che Gadjiev gestisce con un senso di libertà mai arbitrario, ma sempre al servizio della narrazione musicale. Le sezioni più brillanti e tecnicamente impegnative sono eseguite con una tale fluidità che quasi nascondono la loro difficoltà, pur mantenendo una tensione drammatica che cattura l’ascoltatore. La fuga finale, il climax dell’opera, è articolata con chiarezza e precisione e il pianista riesce a mantenere una trasparenza nelle voci che consente di apprezzare pienamente l’abilità contrappuntistica di Beethoven. Il pubblico padovano ha accolto con entusiasmo la performance di Alexander Gadjiev, tributandogli lunghi applausi e richieste di bis, a cui il pianista ha generosamente risposto con quattro brani di Chopin, tra cui due mazurke e la Polacca in la bemolle maggiore op. 53, dimostrando, bisogna ammetterlo, anche una grande resistenza fisica. Una serata memorabile, che resterà impressa nella memoria di tutti coloro che hanno avuto la fortuna di assistervi.
RUDOLF STEINER E IL TEATRO
Rudolf Steiner, filosofo, pedagogista e fondatore dell’antroposofia, ha influenzato profondamente vari ambiti del sapere, dall’educazione alla medicina, dall’agricoltura biodinamica all’arte. Tuttavia, tra le sue molteplici attività, il teatro occupa un posto speciale, diventando uno dei mezzi privilegiati attraverso cui Steiner esprime la sua visione dell’essere umano e del mondo spirituale. L’idea che “Il teatro è l’espressione visibile di ciò che vive nell’anima umana”, una delle sue citazioni più celebri, racchiude il nucleo centrale della sua concezione del teatro. Steiner vedeva il teatro come un luogo sacro in cui l’essere umano poteva ritrovare se stesso, un mezzo attraverso cui accedere a realtà spirituali e interiori. In occasione del centenario delle sue conferenze sull’arte drammatica, il Dipartimento di Lettere e Culture Moderne della Sapienza ha organizzato un incontro che celebra il contributo di Steiner alla scena teatrale, con dimostrazioni pratiche di due delle arti che più incarnano il suo pensiero: la Sprachgestaltung (Arte della parola) e l’euritmia (arte del movimento). Rudolf Steiner sviluppò la sua visione del teatro in un’epoca di grandi trasformazioni culturali, influenzato dal pensiero di Goethe e dalle correnti esoteriche dell’epoca. Il suo approccio teatrale si basa sull’idea che l’arte non sia solo un riflesso esteriore della realtà, ma uno strumento di conoscenza e di evoluzione interiore. L’attore, secondo Steiner, non è un semplice interprete, ma un mediatore tra il mondo visibile e quello spirituale, capace di far emergere verità nascoste attraverso la rappresentazione. Una delle idee chiave di Steiner è che il teatro possa rendere visibili le realtà spirituali, trasformando ciò che è invisibile in una rappresentazione sensibile. In una delle sue conferenze, affermava: “L’arte drammatica deve essere un’epifania dell’essere umano interiore; essa deve risvegliare nell’anima ciò che altrimenti rimarrebbe latente.” Questa concezione eleva il teatro a un mezzo sacro attraverso cui l’individuo e la comunità possono sperimentare una crescita spirituale, favorendo il risveglio di facoltà latenti e l’accesso a una dimensione superiore dell’esistenza. Tra le creazioni teatrali di Steiner spiccano i Misteri Drammatici, quattro opere scritte tra il 1910 e il 1913: La Porta dell’Iniziazione, La Prova dell’Anima, Il Guardiano della Soglia e Il Risveglio delle Anime. Questi drammi esplorano le sfide dell’esistenza umana, il confronto con le forze spirituali e la ricerca di una conoscenza superiore. Essi non seguono le convenzioni teatrali tradizionali, ma presentano una struttura narrativa simbolica, in cui i personaggi rappresentano forze cosmiche e aspetti dell’essere umano. Attraverso questi drammi, Steiner mirava a rappresentare le leggi spirituali che governano l’esistenza umana, offrendo al pubblico l’opportunità di riflettere sul proprio destino e sulla natura della propria evoluzione. Il teatro, in questo contesto, diventa uno spazio in cui le grandi domande esistenziali vengono affrontate attraverso un linguaggio artistico che integra elementi esoterici e filosofici, con l’obiettivo di portare gli spettatori a una maggiore consapevolezza di sé. Una delle innovazioni artistiche più significative introdotte da Steiner è l’euritmia, una forma d’arte che combina movimento, parola e musica. L’euritmia nasce dall’idea che ogni suono e ogni parola abbiano una corrispondenza con un movimento fisico, permettendo di rendere visibili le qualità interiori del linguaggio. Nel contesto teatrale, l’euritmia diventa uno strumento fondamentale per arricchire la performance degli attori, permettendo loro di esprimere non solo ciò che è visibile, ma anche le forze spirituali che animano i personaggi e le situazioni drammatiche. Steiner descriveva l’euritmia come “un’arte del movimento che rende visibile ciò che vive nella parola e nella musica”. Questo approccio non è solo estetico, ma ha una funzione spirituale e pedagogica. L’euritmia, infatti, mira a ristabilire un equilibrio tra corpo, anima e spirito, e richiede una profonda comprensione dei principi antroposofici. Nel 1913, Steiner fondò il Goetheanum a Dornach, in Svizzera, un centro culturale e spirituale che divenne il fulcro delle sue sperimentazioni artistiche. L’edificio, progettato secondo principi architettonici antroposofici, ospitava rappresentazioni teatrali, conferenze e seminari. Qui vennero messi in scena i Misteri Drammatici e altri lavori ispirati alle sue idee. Il Goetheanum rappresentava per Steiner il luogo ideale per creare una forma d’arte integrata, in cui teatro, musica, architettura e scultura potessero fondersi in un’unica esperienza estetica e spirituale. Sfortunatamente, il primo Goetheanum fu distrutto da un incendio nel 1922, ma Steiner progettò un secondo edificio in cemento armato, che fu inaugurato nel 1928 dopo la sua morte. Oggi, il Goetheanum continua a essere un importante centro culturale, dove si tengono rappresentazioni teatrali, concerti e conferenze, mantenendo viva l’eredità di Steiner nel campo dell’arte. L’eredità di Steiner si è estesa oltre il teatro e ha avuto un impatto significativo sull’educazione. Le scuole Waldorf, da lui fondate, integrano il teatro nel curriculum scolastico, riconoscendo il suo valore pedagogico. Gli studenti partecipano regolarmente a produzioni teatrali, utilizzando il dramma come strumento per sviluppare competenze sociali, emotive e cognitive. Steiner sosteneva che il teatro fosse un mezzo insostituibile per coltivare l’immaginazione e l’empatia, e nelle scuole Waldorf, la pratica teatrale non si limita alla semplice messa in scena di spettacoli, ma integra elementi di euritmia, musica e arte plastica, riflettendo l’approccio educativo olistico promosso dal filosofo. Le idee di Steiner continuano a ispirare artisti contemporanei. Registi, attori e coreografi trovano nelle sue opere una fonte di ispirazione per esplorare nuove forme espressive e per riflettere sul ruolo dell’arte nella società. Elementi di euritmia sono stati incorporati in performance sperimentali, mentre il suo approccio integrato all’arte risuona con le attuali tendenze teatrali che cercano di superare i confini tra le diverse discipline. In un’epoca di rapide trasformazioni e incertezze, l’approccio teatrale di Steiner offre una prospettiva che unisce arte e spiritualità, suggerendo che il teatro possa essere uno strumento di trasformazione personale e sociale. Il suo pensiero continua a evolversi e a interrogare il nostro modo di concepire l’arte, invitando a riflettere sul potere del teatro come mezzo per risvegliare una coscienza più profonda e consapevole del mondo e di noi stessi.
Roma, Teatro Argentina
HOUSE
scritto e diretto da Amos Gitaï
con Bahira Ablassi, Dima Bawab, Benna Flinn, Irène Jacob, Alexey Kochetkov, Micha Lescot, Pini Mittelman, Kioomars Musayyebi, Menashe Noy, Minas Qarawany, Atallah Tannous, Richard Wilberforce
Prima Nazionale
“Le case sono come le persone, contengono le storie di chi le ha abitate e portano le cicatrici dei loro conflitti.” – Amos Gitai
Roma, 09 Ottobre 2024
La nuova opera teatrale di Amos Gitai, “House”, presentata in prima nazionale al Teatro Argentina di Roma nell’ambito del Romaeuropa Festival, si propone come un punto di riflessione su temi universali di divisione, memoria e riconciliazione. Ispirata alla trilogia documentaristica del regista – La Maison (1980), Une maison à Jérusalem (1997) e News from Home/News from House (2005) – “House” racconta un quarto di secolo della storia di una casa in Gerusalemme Ovest, testimone silenziosa dei conflitti tra arabi ed ebrei, palestinesi e israeliani. La narrazione, sviluppata attraverso una sceneggiatura complessa e stratificata, non si limita alla descrizione delle vicende personali degli abitanti della casa, ma diventa una riflessione profonda sul concetto di “abitare“, inteso come la convivenza in uno spazio condiviso, carico di tensioni storiche e culturali. La casa diventa metafora di una società lacerata, in cui divisioni etniche, religiose e politiche si intrecciano con le dinamiche della vita quotidiana. Gitai usa la casa come un microcosmo, specchio delle divisioni globali, e invita lo spettatore a riflettere su come le barriere fisiche e mentali possano essere superate solo attraverso il dialogo e la comprensione reciproca. Il cast, composto da attori di fama internazionale come Irène Jacob, Bahira Ablassi e Micha Lescot, offre una recitazione intima e aperta, mai soffocata o sopra le righe. La loro performance è un delicato equilibrio tra emozioni profonde e la sobrietà che richiede il contesto della narrazione. Jacob, già musa del regista polacco Krzysztof Kieślowski, porta in scena un’interpretazione che risuona di vulnerabilità e speranza. Il suo personaggio riflette la difficoltà di vivere in un contesto di divisione, ma allo stesso tempo incarna il desiderio di riconciliazione. Gli attori recitano in inglese, arabo, francese, ebraico e yiddish, con sottotitoli in italiano. Questo multilinguismo diventa un potente strumento simbolico: ogni lingua rappresenta una storia, un’identità culturale diversa, ma tutte si incontrano in questo spazio comune, dove i confini tra il personale e il politico si confondono. La regia di Gitai, che consente agli attori di esplorare in profondità i propri personaggi, rispetta i silenzi, i gesti e le pause, lasciando che le emozioni emergano senza forzature. La narrazione si dipana in modo naturale, senza mai sovraccaricare lo spettatore con eccessi drammatici, ma piuttosto accompagnandolo in un percorso di riflessione silenziosa. La scenografia minimalista contribuisce a creare uno spazio sospeso, in cui la casa diventa non solo un luogo fisico, ma anche simbolico. Le pareti della casa, spoglie ma cariche di storia, suggeriscono che le vicende dei personaggi che vi hanno vissuto continuano a risuonare, come se la memoria di quelle vite si fosse incisa nelle pietre stesse. La regia di Gitai lascia spazio ai personaggi e agli spettatori di abitare insieme questo luogo sospeso tra passato e presente. Il tempo è un altro elemento chiave dell’opera: Gitai gioca con le linee temporali, facendo sì che passato e presente si sovrappongano. I personaggi, con i loro ricordi e le loro storie, diventano rappresentazioni viventi di un tempo che non è lineare, ma circolare. Questa scelta registica rafforza il senso di continuità della memoria, dove ogni evento presente è inevitabilmente legato a quelli del passato. Un altro elemento di grande potenza simbolica è la musica. La colonna sonora, curata da Richard Wilberforce, e impreziosita dal suono del santur iraniano suonato da Kioomars Musayyebi, aggiunge una dimensione emotiva che eleva ulteriormente l’atmosfera dello spettacolo. Il santur, con le sue note delicate e malinconiche, accompagna i momenti più toccanti della narrazione, evocando una nostalgia per un tempo e un luogo che sembrano sfuggire, ma che continuano a vivere nella memoria collettiva. La musica diventa un linguaggio universale, capace di oltrepassare le barriere linguistiche e culturali che caratterizzano la narrazione verbale. Mentre le lingue parlate possono dividere i personaggi, la musica li unisce, creando un ponte tra le loro storie e identità. Questo dialogo musicale diventa una sorta di “terreno comune” dove le differenze possono essere accettate e celebrate. Nel contesto del conflitto israelo-palestinese, ancora irrisolto e in continua evoluzione, “House” assume una risonanza particolare. L’opera non è solo una narrazione storica o personale, ma un commento implicito sulla situazione politica attuale. Le tensioni che attraversano Gerusalemme, e il Medio Oriente in generale, si riflettono nelle dinamiche tra i personaggi, che lottano per trovare un equilibrio tra la loro identità e la necessità di coesistere. In un mondo in cui il dialogo tra popoli sembra sempre più difficile, Gitai ci ricorda, attraverso la sua opera, che l’arte può essere uno spazio di riconciliazione, dove le differenze non sono motivo di conflitto, ma una risorsa per comprendere l’altro. “House” diventa così non solo un’opera teatrale, ma un atto di resistenza culturale, un invito a non dimenticare che la memoria del passato non deve essere un ostacolo alla pace, ma una base su cui costruire il futuro. Con la sua delicatezza e intensità si rivela un’opera profonda e universale, che tocca il cuore dello spettatore, invitandolo a riflettere non solo sulle divisioni del passato, ma anche sulle possibilità di un futuro condiviso. Photocredit@Simon-Gosselin
Robert Schumann (1810-1845): Vier Skizzen für den Pedal-Flügel, Op. 58 (‘Four Sketches for Pedal Piano’) (1845); Studien für den Pedal-Flügel – Sechs Stücke in canonischer Form, Op. 56 (‘Studies for Pedal Piano – Six Pieces in Canonic Form’) (1845); Sechs Fugen über den Namen BACH, Op. 60 (‘Six Fugues on the Name BACH’) (1845). Tom Winpenny (Organo). Registrazione: 12–13 Luglio 2022 presso St Matthäi, Gronau (Leine), Germania. T. Time: 63’28” 1 CD Naxos 8.574432
Grande ammiratore della musica di Bach, la cui pubblicazione egli sostenne anni prima della fondazione della Bach Gesellschaft e desideroso di approfondire la tecnica organistica, Robert Schumann affittò per il suo pianoforte una pedaliera, della quale comprese immediatamente i vantaggi sul piano tecnico, dal momento che così era possibile scaricare la mano sinistra dall’incombenza di suonare. Entusiasmato dal pianoforte a pedali, Schumann compose due raccolte per questo strumento nel quale egli mostrò di credere, come si evince da una lettera indirizzata al suo editore F. Whistling nella quale egli affermò di aver scritto “qualcosa che, nel tempo, avrebbe dato nuovi stimoli alla musica per pianoforte”. In realtà l’esperimento da lui condotto non ebbe grande successo e le due raccolte, entrambe composte nel 1845 per pianoforte a pedali, Vier Skizzen für den Pedal-Flügel, Op. 58 (Quattro schizzi per pianoforte e pedali, op. 58) e gli Studien für den Pedal-Flügel – Sechs Stücke in canonischer Form, Op. 56 (Studi per pianoforte a pedali – Sei pezzi in forma canonica, op. 56), oggi sono diventate due autentici capisaldi della letteratura per organo per il quale furono, però, da lui esplicitamente scritte, sempre nello stesso anno, le Sechs Fugen über den Namen BACH, Op. 60 (Sei fughe sul nome di BACH, Op. 60) che possono essere eseguite anche su un pianoforte a pedali. In questi lavori, oltre all’interesse di Schumann per la tecnica organistica, trovano la loro espressioni gli studi intrapresi in quel periodo insieme con la moglie Clara del contrappunto. Risale a quel periodo, infatti, lo studio non solo di autentici capolavori, come L‘Arte della fuga e i Preludi ai corali d’organo di Bach, ma anche di importanti trattati tra cui l’Abhandlung von der Fuge di Friedrich Wilhelm Marpurg e quello di Cherubini. Di questi intensi studi sono il frutto questi lavori dei quali i Quattro schizzi op. 58, dedicati all’immaginaria Contessa Pauline von Abegg, dedicataria anche delle Variazioni Abegg op. 1, sono quelli in cui il contrappunto appare messo ai margini a favore di una scrittura prevalentemente accordale. Il contrappunto informa, invece, gli Studi per pianoforte a pedali op. 56, dedicati al suo insegnante Johann Gottfried Kuntsch, nei quali emerge il gusto di Schumann per la scrittura di brevi frasi che costituiscono il dux di un canone, e naturalmente le Sei fughe sul nome di BACH, Op. 60, un vero e proprio omaggio al compositore di Eisenach nel quale Schumann mostrò l’ottimo livello da lui raggiunto nel magistero contrappuntistico. Ad interpretare questi lavori sull’organo della Chiesa Evangelica Luterana di Matthäi di Gronau, realizzato nel 1860 da Ph. Furtwängler & Sohn, è Tom Winpenny il quale, attraverso un uso sapiente dei ben 57 registri e dei tre manuali di cui è dotato questo grande strumento, rende perfettamente le dinamiche richieste dal compositore e fa ben emergere, soprattutto nei lavori contrappuntistici, i temi.
Napoli, Piazza Municipio
TU SI’ ‘NA COSA GRANDE
di Gaetano Pesce
L’opera “Tu sì ‘na cosa grande”, installata nella centralissima Piazza Municipio di Napoli, è molto più di una semplice scultura. Si tratta dell’ultimo testamento artistico di Gaetano Pesce, uno dei più celebri e visionari artisti contemporanei italiani, che ha voluto donare alla città partenopea una creazione carica di simbolismo, sentimento e provocazione. L’opera, che si distingue per le sue dimensioni monumentali e il suo design stilizzato, ha suscitato sin da subito reazioni contrastanti: dall’ammirazione alla perplessità, fino all’ironia per la sua forma fallica. Gaetano Pesce, nato a La Spezia nel 1939 e scomparso nell’aprile 2024, è stato un artista poliedrico, architetto e designer, noto per la sua capacità di mescolare l’arte con il quotidiano, abbattendo i confini tra arte alta e popolare. L’installazione napoletana, che misura 12 metri in altezza, rappresenta Pulcinella, la celebre maschera della tradizione napoletana, ma lo fa in modo del tutto originale e stilizzato, un tratto distintivo delle opere di Pesce. A completare la scultura, due cuori rossi trafitti da una freccia, che rimandano immediatamente all’amore, sentimento di cui Napoli è spesso metafora. Il titolo dell’opera stessa, “Tu sì ‘na cosa grande”, richiama l’omonima canzone di Domenico Modugno, una delle più celebri canzoni d’amore della tradizione musicale italiana. Nonostante le sue origini liguri, Gaetano Pesce si è sempre sentito legato a Napoli, una città che considerava una seconda casa. Le sue radici affondano infatti nella Penisola Sorrentina, da dove proviene la sua famiglia, e questo legame emotivo si è tradotto nell’idea di dedicare a Napoli una delle sue opere più simboliche. “Tu sì ‘na cosa grande” vuole essere non solo un omaggio alla città, ma anche una dichiarazione d’amore all’identità napoletana, una celebrazione della sua cultura, della sua arte e della sua filosofia di vita. La scelta di rappresentare Pulcinella non è casuale: Pulcinella è la maschera che meglio incarna l’anima di Napoli, capace di essere buffonesca e malinconica, ironica e tragica allo stesso tempo. Pulcinella, con il suo volto bianco e il suo sguardo enigmatico, è il simbolo di una città che vive di contraddizioni, ma che proprio in queste contraddizioni trova la sua bellezza e la sua unicità. Tuttavia, l’opera non si limita a rappresentare Pulcinella come semplice icona della tradizione. Pesce lo fa in maniera stilizzata, astratta, quasi deformata. Questo approccio rispecchia la poetica dell’artista, che ha sempre privilegiato l’imperfezione e lo scarto, rifiutando il concetto di un’estetica perfetta e immutabile. Le sue opere celebrano la diversità, l’errore, e persino la bruttezza, concetti che Pesce vedeva come parte integrante della bellezza stessa. Anche in “Tu sì ‘na cosa grande”, l’abito stilizzato di Pulcinella richiama questo approccio, offrendo una riflessione sul ruolo della tradizione nel mondo contemporaneo: una tradizione che non deve essere semplicemente celebrata o riprodotta fedelmente, ma reinterpretata e riadattata alla luce delle nuove sfide e sensibilità. Uno degli aspetti più discussi dell’opera è senza dubbio la sua forma fallica. Il popolo napoletano, noto per il suo acuto senso dell’umorismo e per la capacità di ironizzare su ogni cosa, non ha perso l’occasione per scherzare su questa caratteristica. Tuttavia, dietro l’apparente ironia, si cela una riflessione più profonda sul significato dell’arte e sul suo ruolo nella società. La forma fallica della scultura non è solo una provocazione visiva, ma può essere interpretata come un richiamo simbolico alla vitalità e alla potenza creativa di Napoli. Una città che, proprio come l’arte, è capace di generare e rigenerare sé stessa, di affrontare crisi e risollevarsi continuamente. In questo contesto, i due cuori rossi trafitti da una freccia, posti accanto alla figura principale, sembrano rappresentare l’idea di un amore non solo romantico, ma anche universale: l’amore per la città, per le sue contraddizioni e per la sua storia. L’inserimento di questo simbolo accanto alla figura di Pulcinella crea un legame tra passato e presente, tra tradizione e innovazione, e tra sentimento e ironia. Questi cuori feriti evocano inoltre la sofferenza e la resilienza della città di Napoli, capace di sopravvivere alle difficoltà e di mantenere sempre un cuore pulsante di vita e di emozioni. Tu sì ‘na cosa grande rappresenta anche il testamento artistico di Gaetano Pesce, essendo l’ultima opera su cui ha lavorato prima della sua morte. Pesce ha impiegato due anni per completarla, e la sua scomparsa ha aggiunto ulteriore significato all’installazione. L’opera riassume molti degli elementi che hanno caratterizzato la carriera dell’artista: l’attenzione al femminile, la poetica dell’imperfetto, l’utilizzo di materiali inusuali e la capacità di trasmettere messaggi universali attraverso forme apparentemente semplici. Pesce, nel corso della sua lunga carriera, ha sempre cercato di dialogare con il presente, di creare opere che fossero in grado di parlare al pubblico contemporaneo, e “Tu sì ‘na cosa grande” non fa eccezione. L’installazione di “Tu sì ‘na cosa grande” è un’opera che, al di là dell’ironia suscitata dalla sua forma, merita di essere compresa nella sua interezza e nel suo significato più profondo. È un tributo a Napoli, alla sua cultura e alla sua storia, ma è anche una riflessione sull’arte, sulla bellezza dell’imperfetto e sull’importanza di reimmaginare la tradizione. Come Pulcinella, l’opera di Pesce è destinata a suscitare emozioni contrastanti, ma proprio in questa capacità di stimolare il dibattito e di far riflettere risiede la sua forza e il suo valore artistico.
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
Compagnia Molière
presenta
ANFITRIONE
di Plauto
con Emilio Solfrizzi, Simone Colombari, Sergio Basile, Rosario Coppolino,
Viviana Altieri, Cristiano Dessì, Beatrice Coppolino
scene Fabiana Di Marco
luci Massimiliano Gresia
costumi Alessandra Benaduce
regia Emilio Solfrizzi
Roma, 08 Ottobre 2024
Plauto, uno dei più grandi commediografi latini, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia del teatro con la sua straordinaria capacità di combinare il linguaggio popolare con riflessioni universali sull’umanità. Anfitrione è una delle sue opere più celebri, e si distingue per la fusione tra il comico e il tragico, giocando sul tema dell’inganno e del doppio. Il capolavoro plautino mette in scena il dio Giove che, innamorato di Alcmena, assume le sembianze del marito di lei, Anfitrione, per sedurla. L’intero inganno è orchestrato con l’aiuto di Mercurio, che a sua volta assume l’identità del servo Sosia. Il ritorno del vero Anfitrione dalla guerra innesca una serie di equivoci, tra cui lo scontro tra il vero e il falso Anfitrione e il confronto tra i servi Sosia e Mercurio, che crea una girandola di situazioni comiche e drammatiche. L’allestimento curato da Emilio Solfrizzi, che ne è anche protagonista, si inserisce in un solco di grande prestigio nel teatro contemporaneo. La scelta di rappresentare Anfitrione al Teatro Quirino porta sul palco una rilettura di un testo classico che spesso viene proposto in manifestazioni estive. In questa occasione, però, lo spettacolo avrà un’ampia circolazione sui palcoscenici italiani, facendo rivivere al pubblico moderno le battute fulminanti e i travestimenti tipici del teatro plautino. Plauto scrisse la commedia in un periodo storico turbolento, quello della Seconda Guerra Punica (215-202 a.C.), quando Roma si trovava a confrontarsi con sconfitte devastanti. Nonostante ciò, il successo del commediografo rimase incontrastato, e le sue opere risuonarono nelle strade e nei teatri di una Roma che cercava sollievo dalle difficoltà della guerra. Il genio di Plauto risiede nella capacità di costruire personaggi dinamici, espressivi e psicologicamente complessi, che in poche battute riescono a delineare un’intera gamma di emozioni umane, dall’iperbole comica alla riflessione malinconica. In questo allestimento, la regia di Solfrizzi si distingue per la sua sensibilità nel risolvere le difficoltà del testo originario, compromesso da una lacuna di circa 300 versi che si colloca verso la fine del terzo atto. La mancanza delle scene in cui il vero e il falso Anfitrione si confrontano è stata colmata con l’inserimento di nuovi personaggi, tra cui la figura di Ercole e Ippofante, figli di Giove e Anfitrione. Questo espediente permette alla narrazione di mantenere la sua coerenza senza tradire lo spirito originale dell’opera. La scenografia di Fabiana Di Marco e i costumi disegnati da Alessandra Benaduce contribuiscono a creare un mondo scenico essenziale ma potente. Le strutture mobili e gli spazi aperti permettono una fluida dinamica tra gli attori, che possono così muoversi agevolmente all’interno di una trama complessa e ricca di scambi. L’uso delle luci, curato da Massimiliano Gresia, accentua i momenti di maggiore tensione e confusione, creando un contrasto visivo che riflette la natura duale della commedia: l’alternarsi di chiaro e scuro accompagna lo svelarsi e il nascondersi delle identità. Solfrizzi, oltre a dirigere, interpreta un Anfitrione intriso di ambivalenza emotiva, oscillando tra lo stupore, la rabbia e la frustrazione. La sua interpretazione è arricchita da una mimica espressiva e da un uso sapiente del corpo, che rendono il personaggio non solo comico, ma anche tragicamente umano. Accanto a lui, Simone Colombari offre una performance adeguata nel ruolo di Anfitrione, regalando momenti di irresistibile comicità nei suoi scontri verbali con Mercurio, interpretato con distacco e ironia da Rosario Coppolino. Sergio Basile, nel ruolo di Giove, diverte il pubblico con una recitazione volutamente enfatica e ridondante, creando un’espressione di comicità teatrale vivace e sagace. Viviana Altieri, nel ruolo di Alcmena, conferisce al personaggio una compostezza che ben contrasta con il caos che si sviluppa intorno a lei, sottolineando il dramma personale di una donna vittima dell’inganno divino. Il copione si sviluppa in un flusso rapido e scintillante, grazie alla capacità degli attori di mantenere un ritmo serrato e dinamico. Le continue battute tra i personaggi, soprattutto tra Sosia e Mercurio, creano un meccanismo farsesco perfettamente orchestrato, che diverte lo spettatore dall’inizio alla fine. La moltiplicazione degli equivoci e degli scambi di persona, tema ricorrente nel teatro di Plauto, viene qui portata all’estremo, generando situazioni comiche ma anche riflessioni più profonde sul ruolo delle apparenze e sull’identità. La regia di Solfrizzi si arricchisce di intelligenti riferimenti alla contemporaneità, come la parodia del programma televisivo “Affari tuoi” e i richiami ad altre opere teatrali e cinematografiche, che non solo strappano sorrisi al pubblico, ma mostrano come le dinamiche dell’inganno e del doppio siano ancora oggi universali. Il lavoro risulta particolarmente agile e divertente, soprattutto nelle scene in cui la comicità si sposa con la riflessione, come nel caso delle interazioni tra il geloso Anfitrione e la confusa Alcmena. La rappresentazione, pur mantenendo fedeltà al testo classico, si arricchisce di elementi moderni che ne esaltano la contemporaneità, dimostrando quanto il teatro plautino, con i suoi temi di inganno e apparenza, sia ancora capace di parlare alla sensibilità del pubblico di oggi.
La Chiesa di Santa Maria della Pietà in Vaticano ospiterà, sabato 19 ottobre 2024 alle ore 20:00 (prova generale per gli operatori del settore il 18 ottobre alla stessa ora), la prima mondiale di Blood&Breath, la terza produzione multimediale immersiva di Frequency Opera, ideata dalla celebre artista multimediale Honora Foà. Un evento eccezionale, che esplora attraverso musica, immagini e narrazione la leggenda di Maria Maddalena e Giuseppe d’Arimatea, nel periodo di solitudine che vissero ritirandosi nelle grotte del sud della Francia dopo la morte del loro Maestro. Blood&Breath è parte del ciclo di sette opere intitolato RecombinantDNA, una serie unica di performance che combina l’arte e la scienza, il mito e la tecnologia, per esplorare differenti spettri di frequenze attraverso queste due lenti. Foà, con la sua vasta esperienza nell’arte multimediale, è riconosciuta per la sua capacità di unire linguaggi diversi in esperienze che toccano il profondo della sensibilità umana. In Blood&Breath, la solitudine diventa una condizione attraverso la quale Maria Maddalena sperimenta una profonda trasformazione interiore. Ed è proprio la riflessione e la gratitudine per la natura il tema centrale nonché uno dei messaggi fondamentali di quest’opera. Le musiche dell’opera sono state composte da Lucas Richman, musicista dalla sensibilità emotiva e intellettuale nel trattare temi legati alla condizione umana. In questa cantata, in particolare, ha voluto esplorare, attraverso un linguaggio musicale profondamente evocativo, tematiche come la vita, la morte e la spiritualità. La sua scrittura musicale, delicata e al contempo fortemente drammatica, vuole mettere in risalto la capacità dell’arte di connettersi ai momenti più intensi della nostra esistenza, combinando i testi poetici con l’essenza di argomenti quali il sacrificio, la speranza, la fragilità della vita e il riscatto degli esseri umani. Ad accompagnare questa potente narrazione, sonora e visiva, sarà un organico orchestrale di otto elementi da lui stesso diretto: il Maestro Lucas Richman guiderà infatti i “Solisti dell’Orchestra di Roma”, coordinati da Antonio Pellegrino, in un viaggio multisensoriale sui generis. Ad intercalare i momenti orchestrali saranno le voci di due solisti lirici, il mezzo-soprano Joelle Morris che, con il suo colore vocale ambrato e vellutato, offrirà un contrappunto pregnante alla tessitura emotiva dell’opera, e il baritono Isaac Bray, noto per il suo timbro caldo e potente capace di infondere nei ruoli drammatici una presenza autorevole e intensa. Le esibizioni musicali si alterneranno a letture vocali di testi poetici che vedranno protagonisti gli attori Stefania Rocca e Amedeo Fago, la cui rispettiva versatilità interpretativa e intensa presenza scenica promette di coinvolgere il pubblico in una riflessione profonda e spirituale. Le scenografie, infine, prevedono l’uso di numerose opere realizzate dalla rinomata pittrice americana Margot McLean. La sua arte è infatti caratterizzata da un uso intenso e simbolico delle forme naturali, in particolare degli animali, che spesso fungono da specchio per esplorare emozioni umane complesse. Il suo lavoro per Blood&Breath si inserisce perfettamente in un contesto che intreccia leggenda, scienza e natura, offrendo una visione intima e onirica del rapporto tra uomo e ambiente. L’evento gode del sostegno dell’associazione onlus Mythic Imagination Company.
Roma, Teatro Argentina
HOUSE
scritto e diretto da Amos Gitaï
con Bahira Ablassi, Dima Bawab, Benna Flinn, Irène Jacob, Alexey Kochetkov, Micha Lescot, Pini Mittelman, Kioomars Musayyebi, Menashe Noy, Minas Qarawany, Atallah Tannous, Richard Wilberforce
Prima Nazionale
Riconosciuto internazionalmente come uno dei punti di riferimento del cinema contemporaneo, Amos Gitai torna a confrontarsi con la scena teatrale. House racconta la storia di una casa in Gerusalemme Ovest per un quarto di secolo attraverso le vite degli abitanti che qui si sono succeduti: arabi ed ebrei, palestinesi ed israeliani. Basandosi sulla trilogia di documentari – “La Maison” (1980), “Une maison à Jérusalem” (1997), “News from Home / News from House” (2005) – e portando in scena, tra gli altri, le attrici Bahira Ablassi (“Laila in Haifa”) e Irène Jacob (“La doppia vita di Veronica”, “Tre colori – Film Rosso”), Gitai evoca questi percorsi umani in una creazione teatrale che ripercorre il corso del tempo.
In scena, la storia della casa diventa metafora e luogo per il dialogo artistico tra attori e musicisti provenienti da tutto il Medio Oriente, con le loro diverse lingue, origini e tradizioni musicali, che si incontrano per cercare di esprimere la memoria del passato e la possibilità di riconciliazione. Nella profondità del tempo che scorre, House crea luoghi possibili per tutti, lo spazio che desidereremmo per ognuno su questa terra.
Roma, Teatro dell’Opera
PETER GRIMES
Il Teatro dell’Opera di Roma presenta, per la stagione 2023/2024, una nuova produzione di Peter Grimes, capolavoro di Benjamin Britten, sotto la direzione del Maestro Michele Mariotti e con la regia di Deborah Warner. Questo allestimento, frutto di una prestigiosa coproduzione internazionale con il Teatro Real di Madrid, la Royal Opera House di Londra e l’Opéra National de Paris, si distingue per la potenza evocativa delle scenografie di Michael Levine, i costumi raffinati di Luis F. Carvalho e le luci suggestive di Peter Mumford. Protagonista è Allan Clayton nel ruolo di Peter Grimes, affiancato da Sophie Bevan come Ellen Orford e Simon Keenlyside nei panni del Capitan Balstrode. Il cast, supportato dall’Orchestra e dal Coro del Teatro dell’Opera di Roma, promette un’interpretazione intensa di questa storia che esplora i drammi umani e sociali, restituendo al pubblico un’esperienza visiva e sonora di altissimo livello. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Maxxi
70 ANNI DI TELEVISIONE, 100 ANNI DI RADIO
Inaugura al MAXXI di Roma la mostra che celebra l’evoluzione della radio e della televisione italiane, tra innovazioni tecnologiche e impatti culturali.
L’evento inaugurale della mostra “70 anni di televisione, 100 anni di radio” si terrà il 9 ottobre 2024 presso il MAXXI di Roma alle 17:30. Questo evento è dedicato alla celebrazione di due tappe fondamentali nella storia dei mezzi di comunicazione italiani: il centenario della radio, che vide la sua prima trasmissione ufficiale nel 1924, e i settant’anni della televisione italiana, che iniziò le trasmissioni regolari nel 1954. La mostra intende esplorare l’impatto sociale e culturale che questi due media hanno avuto sul nostro Paese. In particolare, la radio, nata come uno strumento di comunicazione di massa all’inizio del XX secolo, ha contribuito a creare un senso di unione nazionale, informando e intrattenendo il pubblico durante momenti cruciali come la Seconda Guerra Mondiale, il boom economico e le successive trasformazioni socio-politiche. In mostra saranno presenti oggetti simbolici come vecchi apparecchi radiofonici, registrazioni d’epoca e documenti storici che raccontano l’evoluzione della radio in Italia, dal sistema delle onde medie fino all’avvento del digitale. Dall’altro lato, la televisione italiana, con i suoi settant’anni, rappresenta una parte altrettanto fondamentale della storia contemporanea del nostro Paese. Fin dai suoi esordi nel 1954, la televisione ha offerto una finestra sul mondo, portando informazione e intrattenimento a milioni di famiglie italiane. La mostra ripercorre il passaggio dal bianco e nero ai primi esperimenti televisivi a colori negli anni ’70, fino all’avvento del digitale terrestre. Verranno esposti apparecchi storici, prime videocamere e registratori, permettendo ai visitatori di comprendere l’evoluzione della tecnologia televisiva. Attraverso questi strumenti sarà possibile riflettere anche sul ruolo educativo e politico che la televisione ha avuto in Italia, promuovendo programmi culturali e divulgativi, ma anche divenendo parte del dibattito pubblico e della costruzione dell’immaginario collettivo. L’inaugurazione si preannuncia un momento ricco di emozioni, un’occasione per fare il punto non solo sul passato di questi due media, ma anche sulle sfide future, in un contesto sempre più digitale e interattivo. Sarà un’opportunità per riflettere su come radio e televisione abbiano contribuito alla formazione dell’identità italiana e su come continueranno a farlo anche nell’era della convergenza mediale e delle piattaforme di streaming. La mostra sarà aperta al pubblico fino al 9 novembre 2024, offrendo ai visitatori la possibilità di esplorare in modo approfondito le tappe fondamentali della radio e della televisione italiane, due mezzi che, nonostante i cambiamenti tecnologici, continuano a rappresentare un elemento centrale nella cultura e nella società italiana.
I CARABINIERI TUTELA PATRIMONIO CULTURALE
RESTITUISCONO DOPO OLTRE 100 ANNI UNA STATUETTA
VOTIVA AL MUSEO NAZIONALE ROMANO
Museo Nazionale Romano – Palazzo Massimo
Roma, 9 ottobre 2024
Il torello di Veio torna al Museo Nazionale Romano dopo oltre 100 anni grazie all’azione dei Carabinieri del Nucleo per la Tutela del Patrimonio Culturale di Monza e della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Como, Lecco, Monza-Brianza, Pavia, Sondrio e Varese. È il felice epilogo di una vicenda che ha avuto inizio in piena pandemia, quando i Musei Civici di Monza avevano ricevuto in forma anonima una statuetta votiva in terracotta riproducente un toro, accompagnata da una lettera dattiloscritta con oggetto: “Il ritorno a casa di 47220 dopo 80 anni e più”. Il numero era quello riportato nella parte inferiore del manufatto, mentre nel testo che lo accompagnava erano narrate le rocambolesche vicende successorie del reperto, fino a quando era giunto nelle mani dell’attuale detentore. Questi, evidentemente con qualche senso di colpa, spiegava la motivazione che lo aveva spinto alla restituzione, auspicando che “prima di intraprendere il suo ultimo viaggio” avrebbe voluto ammirare la scultura esposta in museo. Gli immediati accertamenti richiesti dalla direzione dei Musei di Monza ai Carabinieri del locale Nucleo Carabinieri TPC, che hanno coinvolto anche i funzionari della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Como, Lecco, Monza-Brianza, Pavia, Sondrio e Varese, hanno permesso di stabilire che si trattava di una statuetta votiva originariamente proveniente dall’antica città etrusca di Veio, sottratta negli anni ’20 del secolo scorso dal Museo Nazionale Romano. È infatti emerso che questo istituto aveva concesso in prestito alla Società Umanitaria di Milano un lotto di 23 reperti archeologici da porre a disposizione degli studenti dell’Istituto Superiore delle Industrie Artistiche (I.S.I.A.) che all’epoca aveva sede nella Villa Reale di Monza. L’ente era stato fondato agli inizi degli anni ’20 dal consorzio costituito dalla Società Umanitaria e dai Comuni di Milano e Monza ed ebbe vita fino al 1943. Da allora, complici i tragici eventi bellici di quegli anni, dei reperti archeologici ne sono state perse le tracce. Dal punto di vista storico artistico, la statuetta è un ex voto zoomorfo in terracotta molto frequente nelle stipi votive etrusco-laziali e campane dalla metà del IV al II secolo a.C. In genere realizzate in terracotta, queste statuette raffiguranti generalmente bovini e suini sono state interpretate come elemento sostitutivo di un animale sacrificato, ovvero come richiesta di protezione sul bestiame, fonte primaria di sostentamento familiare. In data odierna il “torello 47220” di Veio è stato restituito al Museo Nazionale Romano dai Carabinieri del Nucleo per la Tutela del Patrimonio Culturale di Monza e dai funzionari della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Como, Lecco, Monza-Brianza, Pavia, Sondrio
e Varese. Per ulteriori informazioni:
Nucleo Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale di Monza
Tel.: 0392300741 E-mail: tpcmbnu@carabinieri.it
Museo Nazionale Romano mn-rm@cultura.gov.it
Milano, Teatro Menotti
MEDEA di Euripide
Dal 10 al 20 ottobre, il Teatro Menotti riporta in scena Medea di Euripide, con Romina Mondello nel ruolo della protagonista, interpretazione che le è valsa il Premio Enriquez 2020 come Miglior Attrice. La tragedia classica torna a parlare al pubblico contemporaneo, offrendosi come un viaggio senza ritorno verso un destino oscuro e ineluttabile. Il ritorno, tuttavia, è tutto da decifrare, da confrontare con la nostra epoca: Euripide dissemina nella sua opera tracce di un percorso che continua a interrogarci ancora oggi, in un mondo sempre più distratto e corrotto dalla perdita di riferimenti etici. Eppure, in noi risuona ancora la sensibilità di chi, nonostante tutto, continua a cercare un senso, una direzione per quella “cosa” che ostinatamente chiamiamo umanità. Medea veste gli sguardi, i gesti, la voce di un’attrice di grazia, passione e talento come Romina Mondello, capace di tramutare intensità in essenzialità, di toccare la terra e guardare il cielo, di sedurre implicitamente ed esplicitamente uomini e Dei per costruire un personaggio multidimensionale, che saprà essere fuori dagli schemi sorprendentemente. Al suo fianco, Gianluigi Fogacci interpreta Giasone, offrendo una lettura del personaggio che ne svela il dualismo: fragilità e ambizione, crudeltà e ingenuità, nemico e amico. Un uomo incapace di riconoscere il dubbio come il preludio necessario alla verità, un protagonista di contraddizioni che si specchia nella sua relazione con Medea. In scena con loro, una compagnia di attori, musicisti e cantanti che, attraverso ruoli individuali e momenti corali, daranno vita a una drammaturgia in cui parola e musica si fondono. La partitura musicale, composta dal visionario Andrea Salvadori (Premio Ubu 2018), contaminerà e amplificherà il testo antico, creando un’esperienza immersiva e suggestiva, fedele alla tragedia originale ma aperta a nuove interpretazioni.” Per info e biglietti, qui
Milano, Teatro Carcano
“SUOR ANGELICA” e “GIANNI SCHICCHI”
10 – 11 ottobre 2024
Anche quest’anno l’anteprima di stagione al Carcano è musicale: un omaggio alle origini del Teatro Carcano il cui palcoscenico, sin dall’Ottocento, ha ospitato le grandi opere liriche, da Donizetti a Bellini. La collaborazione con il Conservatorio G. Verdi di Milano si rinnova e si rafforza nel nome di Giacomo Puccini, il più celebre studente di questa istituzione musicale, nel centesimo anniversario della morte. Il compositore lucchese fu, inoltre anche tra gli azionisti che nei primi del ‘900 sostennero la ristrutturazione e la riapertura del teatro meneghino. Una doppia produzione operistica riporta al centro due istituzioni, che condividono l’impegno nei confronti delle giovani generazioni: le rappresentazioni di Suor Angelica e Gianni Schicchi segnano per gli studenti del Conservatorio il passaggio nel mondo della professione, sotto la guida di un direttore, Andrea Solinas, già studente dello stesso Conservatorio, oggi affermato in una carriera internazionale, e di un regista, Mario de Carlo, di riconosciuta fama. Un salto dal mondo degli studi al palcoscenico, che assimila gli studenti di oggi a Giacomo Puccini, le cui prime prove pubbliche risalgono proprio agli anni trascorsi in Conservatorio. Per info e biglietti, qui.
Niccolò Porpora: “Placida surge, Aurora” S232, “Salve Regina” S308, “Concerto per violoncello in Sol maggiore”, “Qualis avis cui perempta” S234. José Maria Lo Monaco (mezzosoprano), Stile Galante, Stefano Aresi (direttore). Registrazione: Seminario arcivescovile di Brescia, Settembre 2022. 1 CD GLOSSA GCD 923537.
Venezia nel XVIII secolo, una delle capitali europee della musica e uno dei centri maggiormente capaci di attrarre talenti musicali da tutta la penisola e non solo. Uno spazio importante nella vita musicale della città lagunare era occupato dai quattro “Ospedali Grandi”, istituzioni benefiche che si occupavano non solo della cura ai malati ma forse ancor più all’assistenza e alla formazione dei poveri. La vita di queste istituzione prevedeva ampio spazio al servizio liturgico caratterizzato da una vivace attività musicale che accompagnava questi eventi e che diventava strumento di formazione musicale per gli orfani assistiti.
L’importanza musicale degli Ospedali è confermata dal prestigio dei musicisti chiamati a operarvi, come detto non solo veneziani. Tra i forestieri una particolare importanza rivesti il napoletano Niccolò Porpora, rivale di Händel a Londra e tra i maggiori operisti della prima metà del secolo. Porpora collaborò con diverse istituzioni veneziane e in particolar modo con l’Ospedale dei Derelitti – il cosiddetto Ospedalleto che compare nel titolo dell’album – dove fu maestro di canto tra il 1742 e il 1747 e per cui compose un gran numero di composizioni sacre caratterizzate dallo stesso brillate virtuosismo che ritroviamo delle sue opere. Lo stile delle composizioni veneziane di Porpora è assai interessante perché se da un lato troviamo il gusto per il virtuosismo vocale e il senso melodico della scuola napoletana dall’altro notiamo l’adeguarsi a un gusto locale di sapore quasi vivaldiano ritrovabile ad esempio nella particolare brillantezza della scrittura strumentale.
La presente registrazione per l’etichetta spagnola Glossa Musica presenta due mottetti e un “Salve Regina” per contralto e orchestra. Si tratta di composizioni destinate ad Angiola Moro, la più talentuosa delle allieve veneziane di Porpora e la destinataria di molte delle musiche composte tra il 1744 e il 1746, anno della prematura scomparsa della cantante. I brani sono caratterizzati da sezioni brevi – solo “Quali avis cum perempta” presenza un andamento più ampio e disteso – e fortemente contrastanti con una predilezione per brani brillanti e di gusto galante e mondano, cui solo il testo richiama la destinazione liturgica degli stessi.
L’orchestra Stile Galante impegnata su strumenti originali è diretta da Stefano Aresi, fondatore e anima del complesso. Musicologo e filologo prima che direttore parte da un accurato studio critico di cui l’esecuzione musicale è una sorta di messa in prova. Si riscontra quindi una particolare cura per la resa sonora non solo strumentale ma anche spaziale. Il coinvolgimento della Stanford University mira proprio alla ricerca di ricreare la spazialità sonora per cui queste musiche furono concepite.
L’esecuzione non è però solo rigore filologico, anzi, l’orchestra si fa apprezzare per la bellezza del suono e per la qualità dell’intonazione, non così comune nelle esecuzioni con strumenti antichi. Aresi mostra inoltre notevole sensibilità nell’accompagnamento del canto esaltando l’ottima prova di José Maria Lo Monaco.
La cantante siciliana ha una lunga frequentazione con questo mondo musicale che emerge in un rigore stilistico pienamente interiorizzato e reso con assoluta naturalezza. La voce della Lo Monaco affascina per il colore caldo e morbido e per la bella omogeneità su tutta la gamma, ammirevole la gestione dei gravi su cui la tessitura batte con frequenza. Le colorature sono sgranate con naturalezza e la tenuta sul fiato le permette di reggere alcune lunghe frasi sostenute presenti nelle composizioni. L’impeccabile musicalità e l’eleganza nel fraseggio completano l’ottima prova complessiva. Le composizioni vocali sono integrate dal Concerto per violoncello in Sol maggiore in cui la formazione orchestrale ha l’occasione di sfoggiare tutte le proprie qualità.
Torino, Camera, Centro Italiano di Fotografia
TINA MODOTTI
Dal 16 ottobre 2024 al 2 febbraio 2025, gli spazi di CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia – accolgono la più completa esposizione mai dedicata a Modotti in Italia.
Tina Modotti (1896-1942) è una figura cardine della fotografia del XX secolo, un’artista capace di intrecciare arte e impegno politico, vita privata e ideale collettivo. La sua storia è un mosaico di incontri, viaggi e passioni che hanno definito la sua opera come una straordinaria testimonianza dei tempi che ha vissuto. Nata a Udine, Modotti emigrò giovanissima negli Stati Uniti, dove lavorò come sarta e poi come attrice a Hollywood. Fu a San Francisco che incontrò Edward Weston, il celebre fotografo statunitense che divenne il suo mentore e compagno. L’incontro con Weston rappresentò una svolta fondamentale per Tina, avvicinandola alla fotografia non solo come documentazione della realtà ma come forma d’arte. Assieme a Weston, si trasferì in Messico nel 1923, dove la sua vita e carriera assunsero una dimensione inaspettatamente intensa e militante. In Messico, Modotti si immerse nel vivace clima culturale e politico degli anni post-rivoluzionari. Qui conobbe personaggi iconici come Diego Rivera, Frida Kahlo e David Alfaro Siqueiros, artisti impegnati nella trasformazione sociale del Paese. L’attivismo politico di Tina si manifestò tanto nelle sue fotografie quanto nella sua vita: divenne membro del Partito Comunista Messicano e usò la sua arte per dare voce agli oppressi, ritraendo lavoratori, contadini e donne con una sincerità priva di retorica. Le sue immagini, spesso contraddistinte da un forte senso della composizione e della luce, rappresentano un manifesto visivo delle lotte sociali e delle disuguaglianze dell’epoca. Il Messico non fu solo il luogo in cui Modotti maturò artisticamente, ma anche quello delle sue relazioni più intense e significative. Lì intrecciò una relazione con il rivoluzionario cubano Julio Antonio Mella, tragicamente interrotta dall’assassinio di quest’ultimo nel 1929. Nello stesso anno, Tina venne arrestata e accusata, senza prove, di essere coinvolta in complotti politici. Queste vicende segnarono profondamente la sua vita e la costrinsero ad abbandonare il Messico, trasferendosi prima a Berlino e poi a Mosca, dove continuò il suo impegno politico ma si allontanò progressivamente dalla fotografia. È in questo contesto complesso e appassionato che si inserisce la mostra Tina Modotti. L’opera, che approda a Torino dopo il grande successo di Palazzo Roverella a Rovigo. Dal 16 ottobre 2024 al 2 febbraio 2025, gli spazi di CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia – accolgono la più completa esposizione mai dedicata a Modotti in Italia. Curata da Riccardo Costantini e promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, la mostra è realizzata in collaborazione con Cinemazero e presenta oltre 300 opere, offrendo un ritratto sfaccettato dell’artista e della sua poliedrica produzione. Le fotografie esposte raccontano la straordinaria capacità di Modotti di catturare l’essenza del suo tempo: dalla dignità dei lavoratori all’ineluttabile realtà della povertà, dalle contraddizioni del progresso alla bellezza della quotidianità. Le sue immagini non sono mai fredde rappresentazioni, ma testimonianze partecipi, animate da una profonda empatia verso i soggetti ritratti. Come scriveva lei stessa: “Io voglio che la mia fotografia contribuisca al cambiamento; voglio che essa sia uno strumento per la lotta, non un oggetto da ammirare”. La mostra di Torino non si limita a esporre le sue opere più iconiche, ma presenta anche materiali inediti: documenti, ritagli di giornale, video e riviste dell’epoca, offrendo una prospettiva più intima sulla vita di Modotti. Particolarmente significative sono le fotografie della sua prima e unica esposizione, tenutasi nel 1929, che testimoniano l’importanza della sua visione artistica e politica. L’esposizione è accompagnata da un catalogo edito da Dario Cimorelli Editore, che rappresenta una preziosa guida per approfondire l’opera e la vita di questa straordinaria figura. Tina Modotti fu, come la definì il poeta Pablo Neruda, “Pura come un vetro, nella sua trasparente durezza e nella sua fragilità”. La mostra torinese rende finalmente giustizia all’intensità della sua vita e alla forza delle sue immagini, restituendoci la complessità di un’artista che, con la sua opera, ha saputo raccontare il mondo attraverso gli occhi dell’umanità più vulnerabile e coraggiosa.
Roma, Via Appia
La Via Appia, conosciuta sin dall’antichità come la “Regina Viarum”, è stata una delle prime grandi strade romane e un simbolo della potenza e dell’ingegneria dell’Impero. Costruita nel 312 a.C. per volere del censore Appio Claudio Cieco, la via aveva l’obiettivo di collegare Roma al porto di Brindisi, passando per Capua. Il tracciato si estendeva per oltre 500 chilometri e divenne presto una via cruciale per il trasporto di merci, truppe e messaggi. Oltre a rappresentare un’importante infrastruttura strategica, la Via Appia divenne anche una strada funeraria, fiancheggiata da sontuosi sepolcri e monumenti funebri che celebravano i cittadini romani più illustri. Nel corso dei secoli, la Via Appia ha custodito sotto i suoi strati un patrimonio storico e artistico inestimabile, rivelato gradualmente dagli archeologi che, con scavi sistematici, hanno restituito al mondo moderne scoperte di antiche meraviglie. Lungo questo antico tracciato, interrotto da tempi e storie lontane, sono stati ritrovati imponenti mausolei, ville patrizie e straordinarie testimonianze dell’arte musiva romana. In questo contesto, l’ultimo ritrovamento avvenuto presso il civico 39 della Via Appia Antica ha acceso nuove speranze per la ricostruzione di frammenti della vita quotidiana e artistica dell’antica Roma. Gli archeologi, impegnati in un complesso scavo archeologico all’interno di un’area sepolcrale, si sono imbattuti in un mosaico di rara bellezza. Parte di un pavimento decorato, il mosaico si distingue per la raffinatezza delle tessere bianche e nere, che formano complessi motivi a girali, con elementi geometrici a doppia T, incorniciati da semicerchi. La scoperta, avvenuta nel contesto del progetto ECeC (Economia Circolare e Cultura), ha subito destato grande interesse nel mondo accademico e tra gli appassionati di storia romana. Gli archeologi, dopo aver rivelato un angolo del mosaico, hanno spiegato che la sua composizione è piuttosto inusuale per Roma, il che lo rende ancora più prezioso. La datazione dell’opera, stimata tra la fine del II secolo e l’inizio del III secolo d.C., colloca il mosaico nel periodo dell’età severiana, caratterizzato da un rinnovato impulso architettonico e artistico a Roma. Nonostante il mosaico sia frammentato, l’eleganza dei disegni e la cura nei dettagli offrono una testimonianza tangibile della maestria musiva dell’epoca. Lo scavo è stato concepito come un progetto di valorizzazione aperto al pubblico, con visite guidate che permettono ai cittadini di osservare da vicino il processo di recupero e di partecipare attivamente alla riscoperta del patrimonio storico locale. Questo mosaico non solo contribuisce ad arricchire la comprensione della vita nell’antica Roma, ma getta anche una nuova luce sull’evoluzione dell’arte figurativa del periodo severiano. Il lavoro degli archeologi continua, con l’obiettivo di recuperare ulteriori frammenti e ricostruire un quadro più completo di quella che fu una delle civiltà più avanzate e influenti della storia antica.
Roma, Romaeuropa Festival 2024
ColletivO CineticO – Francesca Pennini
<AGE> (2024)
Regia e coreografia Francesca Pennini
Drammaturgia Angelo Pedroni, Francesca Pennini
Azione e creazione Nicola Cipriano, Piero Cocca, Francesco Gelli, Giulio Mano, Beatrice Monesi, Alice Ada Petrini, Nicole Raisa, Sofia Russo, Adele Verri
Cura e organizzazione Matilde Buzzoni, Carmine Parise
Co-produzione ColletivO CineticO, Fondazione Romaeuropa, Centrale Fies Art Work Space, Fondazione Sipario Toscana
Prima Nazionale
Roma, Teatro India, 28 settembre 2024
La dimensione della casualità, l’unione delle arti in un concetto più vasto di teatro, l’aspetto ludico, la fusione tra arte e vita, tra il performer e lo spettatore sono ciò che lega la storica attività artistica di John Cage alla contemporaneità performativa di ColletivO CineticO di Francesca Pennini. Il gruppo fondato nel 2007 si è gradualmente imposto all’attenzione grazie alla sua forza innovativa conquistando numerosi premi, tra cui il Premio UBU 2017 come “Miglior spettacolo di danza”. A Romaeuropa aveva debuttato proprio con la versione originale di <age> nel 2012, dopo una breve incursione l’anno prima nell’ambito della sezione DNA (Danza Nazionale Autoriale). Nel 2012 il Centro Teatro Ateneo dell’Università La Sapienza di Roma aveva indetto in occasione del centenario dalla nascita di John Cage un premio speciale dedicato al ripensamento dell’eredità artistica del compositore statunitense e la coreografa di origini ferraresi Francesca Pennini aveva ideato per la prima volta questa performance giocosa. In scena vi era un gruppo di adolescenti tra i 14 e i 18 anni che rivelavano la loro condizione di “esemplari umani” attraverso i comportamenti assunti in risposta a molteplici situazioni di vita. A distanza di più di dieci anni, quando ormai i vecchi interpreti sono diventati “insegnanti, architetti, disoccupati, premi Ubu, artisti, avvocati, sposati, emigrati”, l’ideatrice dello spettacolo si pone l’intento di scoprire come e se sia cambiato lo spirito di questo materiale umano che in condizioni sempre più incerte e minate da guerre, catastrofi naturali e pandemie ha l’arduo compito di prepararsi alla vita adulta. Pochi oggetti scenici, tra cui delle panchine ai lati su cui si siedono come automi i nuovi interpreti e un gong che fa partire le domande su un display, contribuiscono a determinare un clima di straniamento e attesa, animato da entrate e uscite sceniche separate da brevi e alquanto astratte “performance” di coloro che tra gli interpreti si sentono di volta in volta chiamati in causa dalle questioni poste in essere. Solo di rado appaiono composizioni sceniche costruttive e movimenti realmente coreografici, nella loro danza teatrale i 9 interpreti esagerano, rendendoli caricaturali, gesti, smorfie, atteggiamenti della vita reale, così come principi di presenza scenica ripresi da precoci esperienze con nomi di punta quali Virgilio Sieni o la stessa Pennini. Lo spettatore non è più di tanto chiamato a godere esteticamente dell’evento teatrale, quanto a osservare e porsi domande insieme ai 9 ragazzi, magari per ridere di gusto dei loro atteggiamenti di duello, dell’insubordinazione ai genitori, dell’incertezza di fronte alle questioni religiose o del rifiuto della politica. La dimensione del racconto è pervasiva, ma osservata sotto la lente dell’indeterminatezza, dell’aleatorietà, della costante messa in gioco di sé in rapporto agli altri. Il riferimento a Cage permane nella sua istanza di fonte d’ispirazione, ma lo spettacolo nella sua chiave matematica rivela una grande potenza attuale e aperta verso il futuro. Ci si chiede soprattutto in risposta alla definizione di “esemplari” cosa sia oggi l’umanità. Sono molte le sovrastrutture con cui l’uomo è chiamato a confrontarsi sin da quando muove i primi passi del mondo, e forse per resistere, per imporre il proprio essere, la propria individualità in relazione al gruppo, l’atteggiamento giusto è quello di non prendersi mai del tutto sul serio, prendendo parte alla realtà, ma osservandola allo stesso tempo con distacco, in attesa di un momento di rivelazione e di gioia autentica. Per ora lo intravediamo nell’applauso soddisfatto finale. Foto Bruno Leggieri