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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “1984”

Mar, 22/10/2024 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
1984
di George Orwell
adattamento di Robert Icke e Duncan Macmillan
traduzione Giancarlo Nicoletti
con Violante Placido, Ninni Bruschetta, Woody Neri
e con Silvio LavianoBrunella PlataniaSalvatore Rancatore,
Tommaso PaolucciGianluigi RodriguesChiara Sacco
scene Alessandro Chiti
musiche Oragravity
costumi Paola Marchesin
disegno video Alessandro Papa
disegno luci Giuseppe Filipponio
regia Giancarlo Nicoletti
Roma, 22 Ottobre 2024
La nuova versione teatrale di “1984” diretta da Giancarlo Nicoletti rappresenta uno degli adattamenti più ambiziosi dell’ultimo decennio. L’opera di Orwell, pilastro della letteratura distopica, viene trasposta in una produzione che riesce a mantenere viva la cupezza e la potenza narrativa del romanzo originale, riuscendo al contempo a offrire una riflessione attuale e provocatoria sulla nostra società contemporanea. Il romanzo di George Orwell, pubblicato nel 1949, è uno dei più potenti racconti distopici del ventesimo secolo. Racconta la storia di Winston Smith, un uomo comune intrappolato in un regime totalitario dove ogni pensiero e azione vengono sorvegliati. Orwell esplora la perdita dell’individualità e l’annullamento della verità, rappresentando la paura di un futuro totalitario. Nicoletti ha mantenuto intatto il messaggio dell’autore, riuscendo a farlo risuonare con il pubblico moderno, costretto a confrontarsi con temi come la sorveglianza di massa e la manipolazione delle informazioni. L’adattamento di Nicoletti non si limita a replicare fedelmente la trama, ma arricchisce l’esperienza visiva e sensoriale attraverso un uso sapiente di videoproiezioni ed elementi multimediali. Flussi di dati e immagini di telecamere di sorveglianza amplificano la sensazione di essere costantemente sotto controllo, suggerendo una connessione profonda tra la distopia immaginata da Orwell e la nostra realtà attuale. Questa scelta stilistica rende ancora più evidente l’attualità del messaggio di Orwell, ponendo l’accento sull’invasività delle moderne tecnologie di sorveglianza e sul crescente potere delle istituzioni nel controllo della vita privata. La regia  crea una messa in scena tesa e coinvolgente, mantenendo l’intensità e la cupezza dell’opera originale. L’interpretazione del controllo totalitario si concretizza in un allestimento scenico essenziale ma fortemente evocativo, fatto di ambienti claustrofobici e luci oppressive. La scenografia volutamente minimalista, insieme alla scelta di luci e ombre, contribuisce a ricreare un’atmosfera asfissiante, in cui i personaggi sembrano imprigionati non solo fisicamente, ma anche mentalmente. La narrazione visiva alterna momenti di tensione palpabile a passaggi di profondo silenzio, volutamente angoscianti, che suggeriscono un’assenza di speranza e un senso di impotenza. Tuttavia, queste pause, sebbene drammaticamente efficaci, possono talvolta spezzare il ritmo della rappresentazione, risultando in un andamento frammentario che ha il potere di attenuare l’intensità emotiva dell’opera. Questa scelta stilistica, pur coerente con l’intento di evocare un’atmosfera di desolazione e controllo, può risultare divisiva, poiché non tutti gli spettatori apprezzano un ritmo così volutamente rallentato. La scenografia di Alessandro Chiti è stata studiata con particolare attenzione per accentuare il senso di oppressione e isolamento vissuto dal protagonista. Non c’è via di fuga nella stanza 101, e questo viene trasmesso al pubblico attraverso uno spazio volutamente limitato, che diventa una vera e propria trappola mentale. La scelta di ambientazioni ristrette, con pareti che sembrano chiudersi sempre di più intorno ai personaggi, dà vita a un ambiente che simboleggia il controllo inesorabile del Partito. Le luci di Giuseppe Filipponio, con cambi repentini dal buio soffocante a esplosioni di luce accecante, simboleggiano l’alternanza tra la sorveglianza totalitaria e i momenti di oppressione invisibile. Questa alternanza contribuisce a rendere l’esperienza teatrale ancora più coinvolgente, trasportando lo spettatore nel mondo angoscioso di Winston. Uno degli aspetti più evidenti dell’allestimento è stata senza dubbio l’interpretazione degli attori. Woody Neri, nel ruolo di Winston Smith, ha restituito con grande intensità la fragilità e la sofferenza del personaggio, mostrando il suo progressivo annientamento psicologico sotto il peso del sistema totalitario. L’attore è riuscito a incarnare le paure più profonde dell’essere umano: la perdita dell’identità e dell’umanità di fronte al potere. La sua performance è stata caratterizzata da una vulnerabilità autentica, che ha permesso al pubblico di empatizzare profondamente con Winston e con la sua lotta disperata contro un nemico invisibile. Violante Placido, nel ruolo di Julia, ha saputo trasmettere con efficacia sia la speranza sia la disperazione del suo personaggio, donando alla scena una carica emotiva vibrante e carismatica. Placido è riuscita a dare vita a una Julia complessa, combattuta tra il desiderio di libertà e la consapevolezza dell’inevitabilità del fallimento. Ninni Bruschetta ha dato corpo con maestria al ruolo del traditore, un personaggio che si muove con disinvoltura tra l’inganno e la spietatezza. Inizialmente, accoglie i due protagonisti nella “Fratellanza” clandestina, solo per svelare, con fredda determinazione, la sua vera identità di funzionario del regime. La sua interpretazione di O’Brien si distingue per una crudeltà calcolata, priva di empatia e di ogni briciolo di umanità: il suo obiettivo, ancor prima della condanna a morte dei dissidenti, è quello di spezzarli, di condizionarli fino a svuotarne lo spirito ribelle, anche nel momento estremo della loro esecuzione. Accanto a lui, il cast si è distinto per una resa coesa ed efficace, con Silvio Laviano, Brunella Platania, Salvatore Rancatore, Tommaso Paolucci, Gianluigi Rodrigues e Chiara Sacco a incarnare inquisitori e aguzzini, aggiungendo al tutto un’aura di minaccia costante e ineluttabile. “1984” di Giancarlo Nicoletti è un adattamento teatrale che riesce a catturare l’essenza del romanzo di Orwell senza rinunciare a scelte stilistiche audaci. La potenza della regia, l’uso intelligente della scenografia e delle luci, e le interpretazioni intense degli attori fanno di questo spettacolo un’esperienza immersiva e disturbante, capace di scuotere le coscienze del pubblico. Un’opera che conferma come il teatro possa ancora essere uno strumento potente di critica e riflessione sul presente, in grado di attualizzare i grandi temi della letteratura e renderli significativi per il nostro tempo. Con tutte le sue sfumature e ambivalenze, l’adattamento di Nicoletti è un invito a confrontarsi con le nostre paure più profonde e a riflettere sul prezzo della libertà in una società sempre più monitorata e controllata. Il pubblico ha applaudito convintamente, in particolare per le interpretazioni degli attori, riconoscendo l’impegno e la profondità delle loro performance.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Vascello: “La Vegetariana” dal 29 Ottobre al 03 novembre 2024

Mar, 22/10/2024 - 23:00

Roma, Teatro Vascello
LA VEGETARIANA
scene dal romanzo di Han Kang Premio Nobel per la letteratura 2024
adattamento del testo Daria Deflorian e Francesca Marciano
una co-creazione con Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese
scene Daniele Spanò
luci Giulia Pastore
suono Emanuele Pontecorvo
costumi Metella Raboni
consulenza artistica nella realizzazione delle scene Lisetta Buccellato
collaborazione al progetto Attilio Scarpellini
direzione tecnica Lorenzo Martinelli con Micol Giovanelli
regia Daria Deflorian
per INDEX Valentina Bertolino, Elena de Pascale, Francesco Di Stefano, Silvia Parlani
una produzione INDEX
in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale; La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello in corealizzazione con Romaeuropa Festival; TPE – Teatro Piemonte Europa; Triennale Milano Teatro; Odéon–Théâtre de l’Europe; Festival d’Automne à Paris; théâtre Garonne, scène européenne – Toulouse
con la collaborazione di ATCL / Spazio Rossellini; Istituto Culturale Coreano in Italia
con il supporto di MiC – Ministero della Cultura
Torna al Romaeuropa Festival in veste di regista e attrice per portare in scena insieme a Monica Piseddu, Paolo Musio e Gabriele Portoghese il gesto misterioso, potente, irrazionale quanto politico di Yeong-hye, protagonista de “La vegetariana”, romanzo della scrittrice sudcoreana Han Kang. Un testo sensuale, provocatorio, ricco di immagini potenti, colori sorprendenti e domande inquietanti: il rifiuto radicale, categorico quanto violento di una donna che sceglie di non mangiare più carne dà il via ad un graduale processo di metamorfosi. Mentre Yeong-hye cambia, cercando di diventare essa stessa vegetazione, ecco che è l’intero mondo che la circonda a vivere l’impatto della sua trasformazione: dall’irritazione sconcertata del marito, all’esaltazione artistica del cognato fino alla consapevolezza addolorata della sorella. L’umanità è dannosa, furiosa, assassina, violenta, tutte cose che Yeong-hye non vuole essere. Lei non vuole smettere di vivere. Vuole smettere di vivere come noi. Daria Deflorian Attrice, autrice e regista, tra i nomi di spicco della scena teatrale contemporanea. Come attrice lavora tra gli altri con Nanni Moretti, Stephane Braunschweig, Massimiliano Civica, Lotte Van Den Berg, Lucia Calamaro, Martha Clarke, Fabrizio Arcuri, Mario Martone, Remondi e Caporossi. Vince il Premio Ubu 2012 come miglior attrice e il Premio Hystrio2013. Dal 2008 al 2021 condivide i progetti con Antonio Tagliarini. I loro spettacoli girano l’Europa e vincono molti premi: Premio Ubu 2014 come miglior testo, miglior spettacolo straniero in Canada nel 2015, Premio Riccione 2019 e Premio Hystrio 2021. I loro testi sono pubblicati da Titivillus, Cue Press e Luca Sossella. Nel 2022 firma la drammaturgia e la regia di En finir dai testi di Edouard Louis per La Manufacture/Alta scuola di formazione di Losanna e poi per l’Accademia Silvio D’Amico di Roma. Nel 2023 firma drammaturgia e regia di Elogio della vita a rovescio, prima tappa del progetto biennale attorno a La vegetariana. Dal 2021 cura la direzione artistica di INDEX (index-productions.com) insieme alla compagnia Muta Imago.

Categorie: Musica corale

Parma, Festival Verdi 2024: “Messa da Requiem”

Mar, 22/10/2024 - 22:05

Parma, Teatro Regio, Festival Verdi 2024
Filarmonica “Arturo Toscanini”
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore James Conlon
Maestro del Coro Martino Faggiani
Solisti: Roberta Mantegna, Szilvia Vörös, Fabio Sartori, Alexander Vinogradov
Giuseppe Verdi: “Messa da Requiem” per soli, coro e orchestra
Parma, 19 ottobre 2024
Tradizionale appuntamento del Festival è la Messa da Requiem: quest’anno diretta da James Conlon. La cui lettura rifugge l’enfasi, la retorica, l’effetto; alla ricerca invece di un raccoglimento, di un’intimità che sono garantiti dall’eleganza, dalla sobrietà. Benché il ventaglio delle dinamiche sia alla sua massima apertura, com’è naturale e necessario, non si avvertono forzature, contrasti violenti, in una parola: eccessi. La Filarmonica Arturo Toscanini suona davvero bene, con una mirabile trasparenza, figlia del reciproco ascolto fra le sezioni, garantendo sempre un perfetto equilibrio fra i diversi piani sonori. Anche nei pianissimi più smaterializzati i tremoli degli archi restano fittissimi e nitidi; anche nel disorientante inizio del Tuba Mirum gli ottoni assicurano esattezza ritmica e d’intonazione. Quando piccole sbavature, qui, sono cose che capitano anche nelle migliori orchestre. Anche il Coro del Teatro Regio si distingue per intelligibilità del testo latino, scansione ritmica e equilibrio fra le voci più che per corposità o colore del suono. In generale, ne risulta un Requiem tutto etereo, tutto celeste, un Requiem che è un fatto intellettuale, interiore, che trova il suo svolgimento nella coscienza dell’individuo, un Requiem autenticamente ed esclusivamente sacro. Non con questo si vuol sostenere che sia questa musica sacra e niente abbia di teatrale (inutile qui ritornare sui vasi comunicanti, sui ricicli dalla prima versione dell’incipit dell’atto del Nilo e dal compianto su Posa morto di Philippe Deux): la musica è musica, è l’interpretazione a doverle restituire il giusto carattere. Storicamente, essendo il nome di Verdi così strettamente legato al teatro, si è troppo spesso guardato al suo Requiem come una sorta di sacra rappresentazione con effetti speciali. Nel ricondurne la musica alla sua dimensione più spirituale, Conlon ne raffredda forse la materia, ma non le fa certo torto: anzi rifulge di un’inedita, spigliata, agile, leggera, vibrante modernità. Fra i solisti spicca la voce invero di rara bellezza di Roberta Mantegna: limpida e chiara, eppure piena, sostanziosa, ricca di armonici, voluminosa, è un incanto. Szilvia Vörös fa assai bene con un timbro ambrato e snello, senza inutili rigonfiamenti, e dunque la voce è ben proiettata. Fabio Sartori canta da par suo, con un serbatoio di accortezze, intenzioni, sfumature espressive che si può mettere insieme solo con una lunga esperienza; e se il volume e la solidità della voce non conoscono vacillamenti, lo smalto conosce invece qualche crepa. Alexander Vinogradov è un basso piuttosto luminoso, che canta con un’ottima pronuncia e corretta posizione nei risuonatori cerebrali (se vi piace “in maschera”, o comunque à la Christoff per capirci subito): il punto critico che sembra un po’ preoccuparlo è il volume non immenso della voce, cui però la corretta proiezione può porre rimedio. Il concerto si è concluso con trentasette secondi di religioso silenzio, tale da lasciar trasparire in lontananza gli scrosci che fuori si stavano abbattendo sulla città; silenzio finalmente interrotto dall’entusiasmo di un pubblico pago e riconoscente.

Categorie: Musica corale

Padova, Teatro Verdi: “Madama Butterfly”

Mar, 22/10/2024 - 20:58

Teatro Verdi di Padova – Stagione 2024/25
“MADAMA BUTTERFLY”
Tragedia giapponese in due atti. Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini
Cio-Cio-San FRANCESCA DOTTO
F.B.Pinkerton GIORGIO BERRUGI
Suzuki FRANCESCA DI SAURO
Sharpless JORGE NELSON MARTINEZ
Goro ROBERTO COVATTA
Il principe Yamadori WILLIAM CORRÒ
Lo zio Bonzo CRISTIAN SAITTA
Kate Pinkerton ALEZANDRA METELEVA
Il commissario imperiale FRANCESCO MILANESE
L’ufficiale del registro FRANCESCO TOSO
Danzatrice ALESSIA GELMETTI
Orchestra di Padova e del Veneto Coro Lirico Veneto
Direttore Francesco Rosa
Maestro del coro Matteo Valbusa
Regia, scene e luci Filippo Tonon
Costumi Filippo Tonon e Carla Galleri
Nuovo allestimento e nuova produzione del Teatro Verdi di Padova
in coproduzione con il Teatro Sociale di Rovigo e col Teatro Comunale Mario Del Monaco
Padova, 20 ottobre 2024
La Stagione Lirica di Padova 2024 rende un doveroso omaggio al maestro Giacomo Puccini, in occasione del centenario della morte, aprendo la stagione lirica con Madame Butterfly, opera tra le più struggenti e amate del repertorio lirico, della quale ricorre il 120° anniversario della prima rappresentazione. Sin dalla scena di apertura, grazie alla scenografia di Filippo Tonon, ci si sente soavemente trasportati in un Giappone di raffinata purezza, stilizzato e poetico. La quinta è una casa in più piani, capaci di trasformare gli spazi alle esigenze rappresentative; le porte a soffietto riescono a donare al palcoscenico la profondità necessaria, trasformandolo da una collina che si affaccia sul porto ad un luogo di pura intimità. Il gioco di luci è pure molto elegante e sobrio: un chiarore, o meglio un bagliore dalle tenui sfumature, in stretta correlazione con i tempi, luoghi e vicissitudini dell’opera, insomma una perfetta aderenza tra colore e calore. La regia dello stesso Tonon viaggia sul filo della coerenza, restituendo verità allo stile e alla cultura giapponese, senza esaltarla né togliendone credibilità. Infine molto apprezzata la filologia sulla scelta dei costumi di Filippo Tonon e Carla Galleri che rende ancora più autentico ed elegante il nostro viaggio. La concertazione è affidata al direttore Francesco Rosa, esperta bacchetta del Teatro di Padova, perfettamente a suo agio con la collaudata Orchestra di Padova e del Veneto. Il maestro ha diretto l’opera con la dovuta enfasi, come richiesto dalla partitura, mettendo in risalto la bellezza delle armonie pucciniane.La rappresentazione è stata di grande impatto emotivo anche grazie a un cast molto ben selezionato. Nel primo atto un po’ tutte le voci sono state penalizzate da un volume orchestrale leggermente troppo carico, includendo purtroppo anche il momento topico della comparsa di Butterfly (dove coro, orchestra e solisti dovrebbero fondersi in un unicum sonoro), ma tutto si è successivamente ritarato e tutte le compagini hanno saputo ricalibrarsi alla perfezione. Francesca Dotto, nel ruolo della sfortunata Cio-Cio-San, ha dato vita a una performance toccante e appassionata. La sua interpretazione, ben bilanciata tra fragilità e forza, ha catturato il cuore del pubblico, grazie a una voce limpida e ben proiettata, capace di esprimere con intensità il dramma interiore della protagonista; nel “Un bel dì vedremo” ha saputo incantare per delicatezza e profondità. Molto buona la sua interpretazione scenica. Giorgio Berrugi, (F.B. Pinkerton), ha restituito con abilità la complessità del personaggio. La sua voce sicura e brillante, unita a una presenza scenica adeguata, ha delineato un Pinkerton forse meno superficiale del solito, aggiungendo un velo di rimorso alle azioni che lo rendono così tragicamente colpevole agli occhi dello spettatore. Come Suzuki Francesca Di Sauro è stata una presenza solida e affettuosa, offrendo un’interpretazione vocale ben equilibrata. Il suo rapporto con Cio-Cio-San ha evidenziato il legame di fiducia e compassione, risultando in uno dei momenti più sinceri della rappresentazione. Jorge Nelson Martínez ha convinto nei panni di Sharpless, con una voce calda e un’interpretazione empatica del console americano, che ben riflette la sua impotenza di fronte al dramma imminente. Roberto Covatta, nei panni di Goro, ha saputo esprimere la meschinità del personaggio con un’ottima interpretazione attoriale e vocale. William Corrò (Yamadori), Cristian Saitta (Zio Bonzo), Aleksandra Meteleva (Kate Pinkerton), Francesco Milanese (il commissario imperiale) e Francesco Toso (l’ufficiale del registro) hanno completato il cast con grande professionalità e capacità interpretativa. Come sempre buona la prova del Coro Lirico Veneto diretto da Matteo Valbusa. È altresì doveroso menzionare un momento di rara bellezza e per di più giunto inaspettato: il balletto durante il coro a bocca chiusa. La brava Alessia Gelmetti, incorniciata in una scenografia eterea, è stata capace di commuovere lo spettatore interpretando la funzione simbolica che la danza rappresentava vale a dire la morte che viene a prendersi la vita. In conclusione questa produzione di Madame Butterfly è stata un successo sotto ogni punto di vista. La combinazione di regia attenta, una scenografia evocativa e un cast di grande talento ha permesso al pubblico di vivere un’esperienza teatrale ed emotiva intensa. E la tragica fine di Cio-Cio-San ha lasciato tutti profondamente toccati, in un silenzio sospeso che si è trasformato poi in applausi calorosi. Un appuntamento che, sicuramente, resterà nei cuori degli spettatori padovani e non solo.

 

Categorie: Musica corale

Pompei, Parco Archeologico: “Colloculi” di Annalaura di Luggo

Mar, 22/10/2024 - 19:57
Parco Archeologico di Pompei
COLLOCULI
di Annalaura di Luggo
Il 22 ottobre 2024, alle ore 17.00, presso le Terme del Foro del Parco Archeologico di Pompei (Piazza Esedra, ingresso pedonale) si terrà l’opening di Collòculi @Pompeii di Annalaura di Luggo, a cura di Antonello Tolve, con il patrocinio del MiC. Collòculi è un’installazione multimediale interattiva realizzata in alluminio riciclato, materiale simbolo di sostenibilità scelto dall’artista come metafora di rinnovamento. Scrive Antonello Tolve: “Con Collòculi, l’imponente occhio nato nel 2022 e oggi nel Parco Archeologico di Pompei, le istanze sociali e i dialoghi si intensificano, si rischiarano, aprono una breccia temporale tra un momento primario (performativo-laboratoriale) e un momento secondario (più strettamente fruitivo), dove lo spettatore, reso complice, è invitato a attivare l’apparato tecnologico, ad ascoltare una storia (un brusio, un battito), una voce corposa, a sentire l’odore nostalgico dell’umanità.” Collòculi – sottolinea Gabriele Perretta – deriva dalla fusione di due lemmi – collŏquĭum, (colloquio) e ŏcŭlus (occhio) – e nel combinare significato grammaticale e artistico, diventa forma circolare, assumendo come “geometria essenziale” e come “struttura concettuale di sostenibilità” il legame tra persona, opera ed ambiente.” La presenza di nell’area delle Terme del Foro pompeiane, riattualizza il concetto di socializzazione a cui il Collòculi luogo era adibito, amplificando la connessione tra passato e presente. Guardare all’interno di Collòculi, la cui pupilla trasmette il video interattivo “We Are Art”, significa “entrare” nell’opera (attraverso un sistema di telecamere gesture recognition) e confrontarsi con i mondi di quattro giovani che hanno affrontato sfide come il bullismo, l’alcolismo e la discriminazione: tematiche attuali a cui siamo tenuti ad offrire sostegno e risposte e che vedono il Parco Archeologico – diretto da Gabriel Zuchtriegel – in prima linea, attraverso una promozione culturale particolarmente attenta alle nuove generazioni e all’inclusività. Nei lavori di Annalaura di Luggo la forma è la concretizzazione della necessità di invadere e sfondare lo spazio, per accogliere non soltanto il proprio universo immaginifico ma anche per costituire un territorio di approdo, dove sviluppare una poetica in fieri, ovvero processi concettuali formalizzati nell’impiego di nuove tecnologie, verso cui l’artista è naturalmente sedotta. La realizzazione dell’opera ha visto la partecipazione di ragazzi con diverse abilità e con difficoltà di inserimento sociale, coinvolti dalla Onlus 3xTe grazie al sostegno di Intesa San Paolo Private Banking e Luca de Magistris Private Banker Fideuram che hanno inoltre promosso la fruizione accessibile attraverso un’audioguida per i non vedenti. Così, documentazione storica e innovazione costruttiva – nelle opere di Annalaura di Luggo – diventano forma di società, stimolando, nella diversità dei punti di vista, interessanti processi di reciprocità multidisciplinari spostando l’offerta tecnologica da una fredda concettualità verso esperimenti ed esperienze che hanno la loro unica ragione di esistere nella contaminazione e nella trasversalità, offrendosi come “archeologia” del sentimento. “A Pompei abbiamo 26 secoli di arte contemporanea – commenta Gabriel Zuchtriegel, direttore del sito – una storia nella quale possiamo ritrovare diverse declinazioni del tema dello sguardo verso gli altri che è al centro dell’opera di Annalaura di Luggo. Penso, per esempio, alle numerose raffigurazioni del mito di Narciso, che girano intorno alla negazione di quello sguardo, rappresentando l’uomo rapito dal fascino della propria immagine, rispecchiata nell’acqua… un potente monito per un’epoca che rischia di perdersi nello specchio dei social media e di una produzione sfrenata di immagini e selfie, mentre Collòculi ci invita a tornare nel presente e guardare l’altro negli occhi.” L’opera, accompagnata da un catalogo edito da Artem Edizioni con testi del curatore e di Gabriele Perretta, rimarrà aperta, secondo gli orari del Parco, fino al 4 maggio 2025.
Categorie: Musica corale

Mantova, Teatro Sociale: “Balance of Power” 21 novembre 2024

Mar, 22/10/2024 - 19:36

Mantova, Teatro Sociale
BALANCE OF POWER
produzione di Art Works Production – Antonio Gnecchi Ruscone
in collaborazione con Alveare Produzioni
distribuzione in Italia Sava’ Produzioni Creative
organizzata da Mister Wolf per la rassegna Mantova Live Theatre
Parsons Dance si prepara a travolgere nuovamente le platee italiane con la sua danza vibrante e radiosa che è un inno alla fantasia e alla vita. Il programma del nuovo tour, dal titolo Balance of Power, presenta una tappa a Mantova, organizzata da Mister Wolf per la rassegna Mantova Live Theatre. Fondata nel 1985 dal genio creativo dell’eclettico coreografo David Parsons e del lighting designer Howell BinkleyParsons Dance è una tra le poche compagnie che, oltre a essersi affermate sulla scena internazionale con successo sempre rinnovato, è riuscita a lasciare un segno nell’immaginario contemporaneo e a creare coreografie divenute veri e propri “cult” della danza mondiale. I loro spettacoli, sempre attesissimi, sono già andati in scena in più di 445 città, in 30 paesi nei cinque continenti e nei più importanti teatri e festival del mondo, fra cui The Kennedy Center for the Performing Arts di Washington, Sydney Opera House, Maison de la Danse di Lione, Teatro La Fenice di Venezia e Teatro Municipal di Rio de Janeiro. Parsons Dance incarna alla perfezione la forza dirompente di un’arte carica di energia e positività, acrobatica e comunicativa al tempo stesso. È una danza solare che diverte in quanto espressione di gioia, capace di trasmettere emozioni tali da raggiungere un vasto pubblico. L’elevata preparazione atletica dei ballerini, guidata dalla maestria di David Parsons nel dare anima alla tecnica, è stata, sin dagli esordi, tra gli elementi distintivi della compagnia.  “L’arte è un potente strumento espressivo e di comunicazione. Il mio obiettivo è fornire a più persone l’opportunità di vivere le meraviglie della danza.” (David Parsons) Balance of Power, titolo di una coreografia che caratterizza il nuovo tour 2024, sottolinea l’importanza del potere dell’equilibrio, nella vita e sul palcoscenico. Tutte le creazioni di David Parsons – prima fra tutte l’iconica Caught (coreografia che Parsons creò per sé stesso nel 1982) – portano il segno di una straordinaria teatralità e di un lavoro fisico che si trasforma in virtuosismo e leggerezza. Fondamentale nella storia della compagnia il ruolo del pluripremiato lighting designer Howell Binkley (vincitore, tra gli altri, di un Tony Award per il musical di Broadway Hamilton) che, con la semplicità e l’efficacia delle soluzioni sceniche date dalla padronanza dell’utilizzo della luce, ha sempre esaltato le creazioni coreografiche di David Parsons. Il programma di Balance of Power – tour 2024 include sei pezzi coreografici – amati classici del repertorio di Parsons Dance e due novità – in un mix che valorizza l’intera compagnia e i suoi singoli elementi. Tra le pietre miliari del loro repertorio non poteva mancare la già citata Caught, definita dalla critica “una delle più grandi coreografie degli ultimi tempi”: un assolo mozzafiato, sulle note di Let The Power Fall di Robert Fripp, nel quale il danzatore sembra sospeso in aria grazie a un gioco di luci stroboscopiche. Un altro classico del programma è Takademe (1996), assolo creato da Robert Battle quando era ballerino della compagnia, che mescola umorismo e movimento acrobatico in una decostruzione accorta dei ritmi della danza indiana Kathak; forme chiare e salti propulsivi imitano le sillabe ritmiche vocalizzate della partitura sincopata di Sheila Chandra. Al centro del programma saranno presentati, per la prima volta in Europa, due nuove produzioni del 2024: Juke e The Shape of UsJuke, commissionato a Jamar Roberts, già ballerino dell’American Dance Theatre di Alvin Ailey e coreografo residente, è un omaggio a Spanish Key, tratto dall’album Bitches Brew (1970) del leggendario jazzista Miles Davis, e agli anni ‘70, con le forme psichedeliche che creano una cornice per far risaltare il talento dei singoli danzatori. Sempre intorno alla musica ruota The Shape of Us, l’ultima creazione di David Parsons: un viaggio dall’alienazione alla connessione con la musica del gruppo elettronico sperimentale Son Lux, guidato da Ryan Lott, che ha ricevuto una nomination all’Oscar per la colonna sonora del film premio Oscar 2023 Everything Everywhere All At Once. I ballerini si esplorano scoprendo la reciproca bellezza e i loro legami comunitari. Balance of Power, che dà il titolo al tour, è un recente assolo di David Parsons di grande successo. Creato nel 2020, in periodo di pandemia, in collaborazione con il compositore/percussionista italiano Giancarlo De Trizio, Balance of Power mette in luce l’intrigante equilibrio di potere tra musicista, danzatore e coreografo. Ogni movimento ha un suo corrispettivo sonoro ed è perfettamente accordato a uno specifico suono delle percussioni, dall’inizio in sordina fino al frenetico finale. Chiude il programma un lavoro di Parsons che mette in luce la sua affascinante visione artistica: Whirlaway, commissionato nel 2014 per celebrare Allen Toussaint, il fenomeno musicale di New Orleans. Sulle note che spaziano dal rock al blues, passando per tutta la gamma del jazz, la coreografia è un continuo alternarsi di assoli, passi a due, a quattro, a sei, a otto, con coppie che si rimescolano continuamente, come se si divertissero spensieratamente in una danza giocosa. David Parsons si dice più innamorato che mai dell’Italia: “La mia prima volta fu nell’89 e fu subito amore a prima vista. L’Italia ha cambiato la mia vita, mi ha dato potere ed energia”. Parsons Dance incarna il senso più genuino di una danza che punta dritto all’emozione e al desiderio nascosto di ogni spettatore di ballare, saltare e gioire insieme ai ballerini. Difficile non lasciarsi trasportare dalla leggerezza dei corpi, dal ritmo incalzante, dalla commistione di linguaggi, e dai colori caldi, sofisticati e profondi. I biglietti per l’appuntamento del 21 novembre al Teatro Sociale sono in vendita su TicketOne e presso il botteghino del teatro.

Categorie: Musica corale

Milano, fACTORy 32: “Casa di Bambola, Parte 2”

Mar, 22/10/2024 - 19:26

Milano, fACTORy 32, Stagione 2024/25
“CASA DI BAMBOLA, PARTE 2”
di Lucas Hnath
Nora ALICE MISTRONI
Torvald SIMONE LEONARDI
Anne Marie ANTONIA DI FRANCESCO
Emmy ERICA SANI
Traduzione e regia Claudio Zanelli
Nuova produzione CDM
Milano, 19 ottobre 2024
FACTORy 32, probabilmente la più interessante proposta off del teatro milanese, ha inaugurato la nuova stagione con un testo inedito in Italia, recentissimo, di produzione americana, ma, per evidenti motivi, molto legato alla grande drammaturgia europea: “Casa di bambola, parte 2“, scritto dal giovane drammaturgo statunitense Lucas Hnath, che nel 2017 è stata candidata a otto Tony Award, vincendo quello per Miglior Interpretazione di un’Attrice in un Ruolo da Protagonista. È davvero raro trovare sui palcoscenici italiani testi tanto recenti, che ci aiutano a comprendere la temperie culturale della drammaturgia globale, e ad uscire dal nostro orticello, talvolta decisamente provinciale; inoltre, l’idea di un sequel del celeberrimo dramma di Ibsen “Casa di Bambola“, è stimolante, vuoi per il valore ideologico che questo dramma ha incarnato da sempre, vuoi per il fatto che, in effetti, il suo è un finale aperto, con Nora che lascia la casa di suo marito e dei suoi figli per un futuro nebuloso, ma nel quale potrà sentirsi libera. L’idea di Hnath riparte proprio da qui: dopo quindici anni, Nora bussa di nuovo a quella porta, perché ha da chiedere un favore al suo ex marito Torvald, che, dal canto suo, non ha mai depositato i documenti del divorzio; Nora, per questo, potrebbe essere perseguita per vari capi d’accusa, ma, soprattutto, questo potrebbe minare la sua nuova credibilità di autrice femminista apertamente contro l’istituzione matrimoniale. Il testo, da un punto di vista drammaturgico, funziona alla perfezione: nell’arco di un pomeriggio, Nora dovrà confrontarsi con la sua vecchia governante, rimasta al servizio degli Elmer, con suo marito, e, inaspettatamente, con la sua figlia diciottenne, Emmy, che nemmeno la ricorda – ne seguiranno, come previsto, molte scene ad alta tensione, ma anche altre cariche di sarcasmo, che strappano più di una risata – fino al dialogo finale, che, vivaddio, trova una nuova Nora, più consapevole, meno legata a certi dogmi femministi, ma comunque pronta ad uscire di nuovo da quella porta. La produzione italiana di questo testo è affidata alla Compagnia del Musical, ossia la compagnia di attori che è uscita dalla Scuola del Musical di Milano, sebbene questo testo non possegga nemmeno una musica: questa ai nostri occhi è un’anomalia, giacché un testo simile, che si rifà a un tale capolavoro, avrebbe dovuto essere attenzionato da compagnie ben più importanti, con risorse maggiori, e, detto francamente, anche con un novero di talenti maggiormente accreditati. In ogni caso, sebbene la produzione sia davvero low budget, quasi tutto il cast ha saputo essere pienamente all’altezza: Alice Mistroni è una Nora molto convincente, dotata di una fisicità e una vocalità piacevolissime, ma soprattutto consapevole di tutti i colori che il suo personaggio deve mostrare, da quelli più cupi, rabbiosi, introspettivi, a quelli più leggeri, scherzosi, quasi frivoli; la sensazione che si ha è che Mistroni sia più a suo agio proprio con questi momenti di leggerezza che con quelli di profonda amarezza, ma in generale ci offre una performance davvero ad alto livello; anche la prova di Antonia Di Francesco nei panni della governante Anne Marie è convincente, forse soltanto un filo troppo versata sul lato buffo: a un certo punto la governante si rivolta contro il pensiero rivoluzionario di Nora, con un’imprecazione volgare molto forte, e il pubblico ride, non capendo davvero cosa implica per il personaggio una simile parolaccia rivolta a quella che era non solo la sua padrona, ma anche la sua bambina; in ogni caso anche Di Francesco è perfettamente a suo agio nel ruolo, sia sul piano vocale che su quello scenico, ed è chiaro che si tratti di un’interprete con molte esperienze scenice di estrazione molto variegata. Tuttavia, è la performance di Simone Leonardi, nei panni di Torvald, quella più impressionante: la voce baritonale, lievemente graffiata, la naturale eleganza del gesto, lo sguardo profondo dell’interprete, sanno rendere un Torvald per niente antipatico o ottuso, ma ci offrono un uomo spezzato, ancora dopo quindici anni, un marito che apparentemente non ha saputo andare avanti, un padre approssimativo, un essere umano svuotato dalla dipartita dell’adorata moglie; eppure, durante lo spettacolo, è proprio questo il personaggio che sa evolvere di più, e Leonardi ci accompagna passo passo sul percorso di redenzione, questa volta del marito, e non della moglie. L’interprete meno convincente della produzione, invece, è senza dubbio Erica Sani, nei panni della figlia Emmy, a causa in primis di una vocalità non piacevole, oltre che di un lavoro sul personaggio che si mantiene sempre superficiale: non ci convince una parola di quello che dice, capiamo da subito come si evolverà la scena con la madre; Sani forse non ha avuto modo di costruire a tutto tondo questo personaggio, che, a sua volta, gode di un’unica scena di confronto. Claudio Zanelli, regista e traduttore, ha fatto senz’altro un buon lavoro, con alcuni limiti: la regia è molto tradizionale, ma funziona bene, pur mancando di qualche guizzo più perturbante; sulla traduzione, invece, abbiamo alcuni dubbi: il linguaggio della recita è molto contemporaneo, e questo porta a una recitazione altrettanto contemporanea; non che ciò sia di per sé un male, ma, considerata la ricostruzione storica delle scene e dei costumi, e anche il precedente letterario, ci saremmo aspettati una lingua più ricercata, una recitazione giusto un filo più manierata, tradizionale, insomma, più “teatrale“ e meno da serie TV. Tuttavia, non avendo noi avuto il piacere di leggere il testo originale, può anche essere che Lucas Hnath abbia pensato a questo tipo di registro linguistico, in contrasto con la messa in scena, e che quindi Zanelli si sia giustamente limitato a rispettare l’intenzione del drammaturgo – cosa che, trattandosi di una prima nazionale, è sempre consigliabile: tanto, considerata la grande qualità di questo testo, di sicuro presto vedremo regie anche più “sperimentali” applicarsi ad esso. Foto Riccardo Italiano

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Roma, Piazza Euclide: “Fonte di Anna Perenna” visite straordinarie sino al 30 Novembre 2024

Mar, 22/10/2024 - 12:40

Roma, Fonte di Anna Perenna
Piazza Euclide
FONTE DI ANNA PERENNA
Un nuovo allestimento immersivo dedicato alla dea dell’eterna rinascita si svela nel ciclo di aperture straordinarie della Fonte di Anna PerennaDal 5 ottobre al 30 novembre, quattro date per scoprire il sito archeologico rinvenuto alla fine del 1999 nel corso di uno scavo di archeologia preventiva per la costruzione di un garage in piazza Euclide. «La ninfa Anna Perenna era conosciuta attraverso le fonti antiche, Ovidio in particolare, ma, al contrario di altre divinità – spiega il Soprintendente Speciale di Roma Daniela Porro – fino al secolo scorso non erano stati trovati luoghi di culto a lei dedicati. Dopo un lungo lavoro di allestimento, con queste aperture straordinarie, restituiamo alla città una delle scoperte più importanti avvenute a Roma alla fine del secolo scorso, con l’intenzione di rendere sempre più regolare l’apertura di questo sito».  Le visite guidate gratuite fino a esaurimento posti si terranno il 5 e il 26 ottobre, il 9 e il 30 novembre con quattro turni di 50 minuti, con partenza ogni ora dalle 9.40. La prenotazione è obbligatoria compilando gli appositi moduli. «Per la riapertura della Fonte di Anna Perenna, è stato realizzato un progetto di valorizzazione – dichiara l’archeologo Fabrizio Santi, responsabile del sito – volto a migliorare l’esperienza di visita. La nuova illuminazione è pensata per creare un ambiente immersivo, evocando la presenza dell’acqua attraverso il blu, mentre una luce bianca radente consente una migliore leggibilità delle iscrizioni. Sono stati realizzati un intervento di pulitura e il restauro delle murature; un video, attraverso un rilievo 3D, mostrerà ai visitatori le caratteristiche costruttive e degli oggetti rinvenuti nella fonte». Il rinvenimento della fonte e il culto di Anna Perenna sono al centro di un podcast di approfondimento realizzato dal Servizio Educativo della Soprintendenza Speciale con il responsabile del sito Fabrizio Santi https://open.spotify.com/episode/2SiP93NXtPoiOpws7tehxT?si=AheBled3ROepPfdxerTWxg

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Parma, Festival Verdi 2024: “Un ballo in maschera”

Mar, 22/10/2024 - 11:54

Parma, Teatro Regio, Festival Verdi 2024
UN BALLO IN MASCHERA”
Melodramma in tre atti su libretto di Antonio Somma da Gustave III ou Le bal masqué di Eugène Scribe
Musica di Giuseppe Verdi
Riccardo GIOVANNI SALA
Renato KANG HAE
Amelia ILARIA ALIDA QUILICO*
Ulrica DANBI LEE*
Oscar LICIA PIERMATTEO*
Silvano GIUSEPPE TODISCO
Samuel AGOSTINO SUBACCHI*
Tom LORENZO BARBIERI
Un giudice/ Un servo di Amelia FRANCESCO CONGIU*
* Allievi e già dell’Accademia Verdiana
Orchestra Giovanile Italiana
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore Fabio Biondi
Maestro del Coro Martino Faggiani
Regia Daniele Menghini
Scene Davide Signorini
Costumi Nika Campisi
Luci Gianni Bertoli
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
In coproduzione con Teatro Comunale di Bologna, Fondazione Rete lirica delle Marche
Parma, 18 ottobre 2024
Nella piccola Mecca dei verdiani quest’edizione del Festival ha proposto Un ballo in maschera per parlare del quale conviene cominciare dalla regia di Daniele Menghini. Che punta tutto sul carattere libertino, anzi: epicureo del protagonista. Un palloncino è l’effimero simbolo della vita, che come tutte le feste è destinata a finire: vanità delle vanità. E di palloncini (e scoppi) si popola l’eclettica scena fissa di sottile eleganza visiva firmata da Davide Signorini. Riccardo, nei suoi folleggianti eccessi, si trasforma in un’icona fluida (grazie ai bei costumi di Nika Campisi, di ricca varietà materica): insomma, il fascino del personaggio è tale che il regista decide di tradurlo in quello che oggi è un modello più che positivo, vincente, di tendenza. Perché lo sbarazzino Conte di Boston ancora oggi ci affascini e catturi in un’ammirata complicità è mistero che Andrea Rostagno aveva tentato di dissipare con una tesi altrettanto seducente. In quest’opera così eccentrica i cospiratori da eroici che erano stati sempre diventano una macchietta, e il sovrano da tiranno passa a irresistibile simpaticone, amatore ma leale, superficiale e volubile, ma buono e giusto. È lui, V.E.R.D.I., che, fallito il progetto rivoluzionario, i patrioti dovranno appoggiare, il Re italiano che dell’italiano ha tutti i caratteri (anche se l’italiano ancora non esiste). Ecco perché, insiste Rostagno, Verdi ci teneva a dare l’opera a Napoli, o almeno a Roma, comunque nel meridione: perché era lì che il messaggio doveva ancora arrivare. Giovanni Sala è un protagonista dai centri timbratissimi, morbidi e pieni, e se il registro acuto lo è meno, se la voce corposa ma non squillante può sembrare poco rispettosa dell’ortodossia verdiana, si fa però perdonare: è una presenza scenica e vocale insieme, un mattatore, non c’è niente da fare. Kang Hae è invece un Renato stentoreo, inscalfibile, voluminoso e brillante; che poi sa però trovare accenti più teneri nella sua grande aria del terz’atto. L’Amelia di Ilaria Alida Quilico ha voce di bel timbro e di gran volume, valorizzato poi da una magnifica proiezione del suono. Soltanto il passaggio di registro resta un poco scoperto, lo si nota solo nelle scale delle cadenze, perché forse centro e grave non si sono ancora altrettanto sviluppati. Impressionanti invece nell’Ulrica di Danbi Lee: sempre ben timbrata, morbida, consistente, voluminosa e ricca di armonici. Perché ricorrere a quelle sonorità cosiddette di petto non è affatto sbagliato, anzi; a patto però che sia sempre preservata la qualità del suono, com’è qui. Licia Piermatteo, seppur annunciata indisposta, ha cantato brillantemente il suo credibilissimo Oscar: en travesti come il suo Conte. Nel ricordare ancora le belle voci di Agostino Subacchi, Samuel, e Lorenzo Barbieri, Tom, va fatto notare quanto giovino all’ascolto spazi così ridotti: si gode davvero di ogni sillaba (dizione ottima da tutti) e sempre perfettamente a tempo (essendo così vicini è difficile perdersi). Ma qui il merito è di Fabio Biondi, che dirige con gesto netto e sicuro l’Orchestra Giovanile Italiana. In una formazione ad organico ridotto, naturalmente, approntata per l’occasione da lui stesso con meticolosa sensibilità all’orchestrazione, cui sa restituire ogni effetto. La sua lettura è di un nitore e di una definizione probabilmente possibili solo in quello spazio per pochi privilegiati.

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Torino: la NDR Elbphilharmonie Orchester ai Concerti del Lingotto

Mar, 22/10/2024 - 08:50

Torino, I Concerti del Lingotto, stagione 2024-25
NDR Elbphilharmonie Orchester
Direttore Alan Gilbert
Pianoforte Yefim Bronfman
Sergej Rachmaninov: Concerto per pianoforte e orchestra n.3 in re minore op.30. Pëtr Il’ič Čajkovskij: Sinfonia n.4 in fa minore op.36.
Torino, 18 ottobre 2024
Il Lingotto Musica, con l’iniziata stagione 2024-25, festeggia anch’esso, come già segnalato per l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, il trentennale. Nel maggio del 1994, i Berliner con Abbado inauguravano, eseguendo la Nona di Mahler, la nuova sala ideata dall’architetto Piano nell’ex stabilimento FIAT delle automobili. La Elbphilharmonie Orchester della Radio NDR di Amburgo è protagonista della serata, a guidarla Alan Gilbert, direttore principale dell’orchestra fin dal 2019. Vincitore di un Grammy Award e titolare di molte registrazioni, non conta molte presenze nel nostro paese e quindi neppure della notorietà che ne deriverebbe. Il pubblico è foltissimo, la curiosità e l’attesa, vista la qualità delle proposte di Lingottomusica, sono vivissime. Rachmaninov con il suo Terzo concerto per pianoforte (il Rach 3 di filmica memoria) apre la serata. Il pianista Yefim Bronfman, una sola volta a Torino vent’anni fa, siede alla tastiera. Fin da subito si nota quanto sia l’intesa tra podio e pianista; il direttore costantemente gli si volge e ne segue le intenzioni. Noto per le sparate di virtuosismo richieste, il concerto ci sorprende per un’inattesa “classicità”. Il discorso si svolge, senza mai sfondare sul forte-fortissimo, in un clima crepuscolare di ricordi e nostalgie. Parrebbe di essere scivolati, passeggiando la sera tra i vialetti del giardino di Sergej, in Svizzera, in un racconto di Čekov. L’esposizione è screziata di mille sfumature, brillano come lampi gli acuti, sussurrano e mormorano i bassi, tra di loro si snodano pazzeschi virtuosismi, doveri imprescindibili del concertista di successo. Il pedale non viene mai neppure sfiorato, tant’è che, abbagliati dalla quantità di colori e di dinamiche, si sospettano invisibili affossamenti millimetrici e progressivi. Nel solo spettacolare e rumoroso finale, imprescindibile impegno del solista per ottenerne un trionfo, per superare il clangore della massa orchestrale, il piede affonda e vince la contesa con sfolgoranti risonanze. L’orchestra, in assoluta concordanza, si allinea alla visione del pianista e non gli oppone mai la visione cinamatografico-hollywoodiana di cui sovente si è tacciato l’autore. Il successo è stato strepitoso ma, nonostante le innumerevoli richiamate sul palco, quasi a pietire un (doveroso?) fuori programma, nulla c’è stato. Dal tramonto di Čekov alla straziante mezzanotte di Dovstoevskij, così, all’avvio della Sinfonia n.4 di Čaikovskij, suona la fanfara di corni e fagotti che così prosegue, con un’impudica esposizione dei sentimenti, lungo l’intera sinfonia. La provenienza newyorkese del direttore avrebbe dovuto prepararci allo choc. Così facevano alcuni dei grandi direttori del Novecento che hanno forgiato il carattere all’orchestra della Grande Mela. Mitropoulos, il giovano Bernstein, Maazel e, dal 2009 al ’17, lo stesso Gilbert. Nella tradizione russa contemporanea, Mravinskij, Temirkanov, Jansons, attenuano razionalizzano sotterrano perorazioni e slanci, nella “libera” NY tutto è più spontaneo: si grida, si ride e si piange senza remore. La brillantezza dei suoni, il lussureggiare degli impasti timbrici, la scienza degli intrecci polifonici e dei trapassi armonici fungono da predella ad un’esposizione assolutamente appassionante e coinvolgente. L’Helbphilharmonie suona come da anni non si era più sentito a Torino. L’orchestra è in maggioranza costituita da giovani strumentisti che seguono, con un’attenzione spasmodica, il direttore che, con gesti mai eccessivi e mai sovrabbondanti, li guida in una ridda infinita di colori, di ritmi contrastanti con dinamiche estreme. È affascinante cogliere come, ad ogni minimo gesto e ad ogni accennato movimento della bacchetta, corrispondano immediatamente, senza esitazioni, sorprese sonore. I piani strumentali sono sempre ben delineati e i loro intrecci si definiscono all’ascolto, senza necessità di leggere la carta, impresa non facilissima, coabitando essi con il gran dispiegamento appassionato delle passioni. Già la fanfara iniziale degli ottoni qualifica l’altissima qualità tecnica dei leggii che viene ulteriormente confermata dall’ingresso delle altre sezioni. In specifica evidenzia il fascino introdotto, con suono brillante e compatto, dagli archi che si tramuta poi nel virtuosismo più spinto nei pianissimi del pizzicato dello scherzo. La cavalcata folgorante del Finale Allegro con Fuoco trascina inesorabilmente tutti verso il successo conclusivo. Un Čaikovskij che crediamo rimarrà, per tutti i presenti, di riferimento. Per l’orchestra e il direttore ci auguriamo numerosi riapprodi alle nostre latitudini. Più che un felice successo la serata ha scontato un trionfo completo, sancito dai ben perduranti e sonori applausi che il numerosissimo pubblico ha tributato agli artisti sul palco.

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Milano, Teatro alla Scala: “Der rosenkavalier”

Lun, 21/10/2024 - 19:00

Milano, Teatro alla Scala, Stagione Lirica 2023/2024
DER ROSENKAVALIER”
Commedia per musica in tre atti su libretto di Hugo von Hofmannsthal
Musica di Richard Strauss
Die Feldmarschallin KRASSIMIRA STOYANOVA
Der Baron Ochs GÜNTER GROISSBÖCK
Octavian KATE LINDSEY
Herr von Faninal MICHAEL KRAUS
Sophie SABINE DEVIEILHE
Jungfer Marianne Leitmetzerin CAROLINE WENBORNE
Valzacchi GERHARD SIEGEL
Annina TANJA ARIAN BAUMBARTNER
Ein Polizeikommissär/ Ein Notar BASTIAN THOMAS KOHL
Der Haushofmeister bei der Feldmarschallin HAIYANG GUO
Der Haushofmeister bei Faninal/ Ein Wirt/ Ein Tierhändler JÖRG SCHNEIDER
Ein Sänger PIERO PRETTI
Eine Modistin LAURA LOLITA PEREŠIVANA
Drei Adelige Waisen GABRIELLA LOCATELLI, DANIELA DE PREZ, ELONORA ARDIGÒ
Vier Lakaien der Marschallin/ Vier Kellner LUIGI ALBANI, GUILLERMO ESTEBAN BUSSOLINI, ANDRZEJ GLOWIENKA, EMIDIO GUIDOTTI
Hausknetcht GIORGIO VALERIO
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Kirill Petrenko
Maestro del Coro Bruno Malazzi
Maestro del Coro di Voci Bianche Marco de Gaspari
Regia Harry Kupfer
Scene Hans Schavernoch
Costumi Yan Tax
Luci Jürgen Hoffman
Video Thomas Reimer
Milano, 15 ottobre 2024
La ripresa del Teatro alla Scala della produzione di “Der Rosenkavalier” curata da Henry Kupfer è decisamente apprezzabile, sebbene non presenti grandi novità nemmeno dal punto di vista vocale: gode, infatti, ancora dei magnifici talenti di Krassimira Stoyanova e Günter Groissböck, Marescialla e Barone, due interpreti ormai di riferimento per questi ruoli, che mettono in luce tutte le loro doti (sceniche e musicali) con la disinvoltura che ci aspetteremmo. La Stoyanova rimane soprano di granitica presenza vocale, centri poderosi e acuti svettanti, ancora padrona della linea di canto e di un fraseggio forse perfettibile, ma senza dubbio navigato; Groissböck, da parte sua, è rutilante, instancabile, capace di mascherare perfettamente il naturale fascino con lo stolido e detestabile viscidume che il barone Ochs non cessa mai dimostrare; la prova canora è sontuosa, di livello altissimo, perfettamente consapevole lungo tutta la tessitura e caratterizzata da suoni naturalmente smaltati. Accanto a questa coppia veramente formidabile, il nuovo cast pone perlomeno due apprezzatissimi artisti, a partire dalla giustamente celebrata Sabine Devieilhe, ormai soprano di riferimento della sua generazione, il cui suono argentino sembra nato per cantare Sophie, perfettamente a proprio agio sia negli abbandoni più lirici che nei momenti più rapidi della pochade, oltre che ben incarnati scenicamente nella splendida grazia della cantante francese; queste recite sono altrettanto benedette dalla presenza di Michael Kraus nei panni di Faninal: la sua voce potente e vellutata allo stesso tempo, percorsa da venature calde, si piega con nobiltà su un fraseggio accuratissimo. L’Octavian di Kate Lindsey, invece, pur muovendosi nell’alveo della correttezza, non sa brillare in mezzo a questi quattro maestosi interpreti, e se trova apprezzatissimi slanci nei momenti più languidi, appare più impersonale in quelli d’azione, quando non lievemente a disagio nei panni di Mariandel; dispiace, invece, constatare come la zitella Marianne Leitmetzerin di Caroline Wenborne non fosse del tutto a fuoco, né per intonazione, né per emissione. Fra i molti ruoli di lato, di sicuro si è fatta notare Tanja Ariane Baumgartner, contralto sonoro e splendidamente proiettato, cui non mancano accenti di mezzo carattere che il personaggio di Annina giustamente richiede; molto apprezata pure la piccola ma incisiva performance di Piero Pretti, nel ruolo del cantore italiano. Senz’altro il vero protagonista di queste nuove recite, è, tuttavia, il direttore Kirill Petrenko, per la prima volta sul podio del tempio scaligero: senza abbandonarci a sperticati encomi dalla delirante deriva, come è avvenuto ad alcuni colleghi di altre testate, constatiamo che tanto entusiasmo sia giustamente ripagato dall’elegantissimo gesto e dalla grande coesione che Petrenko ottiene dall’orchestra, che padroneggia perfettamente, conducendola fra i diversi momenti sinfonici dell’opera così come al pieno servizio di una scena dal quale non si distacca mai; probabilmente il maestro russo, abituato ai Berliner Philarmoniker, ha trovato la formazione nostrana singolarmente compiacente al suo stile, e questo lo capiamo anche dai pubblici riconoscimenti che artisti di scena e di cavea gli hanno tributato anche in occasione della nostra recita. Infine, pure questa volta non ci è possibile fare una precisa disamina dell’apparato creativo scenico, ma, considerato il successo che ebbe otto anni fa, possiamo facilmente rifarci ad una recensione dell’epoca (qui). Foto Brescia & Amisano

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Milano, Teatro Leonardo: “Amleto” di Corrado Elia sino al 27 ottobre 2024

Lun, 21/10/2024 - 18:35

Teatro Leonardo di Milano
AMLETO
di Corrado D’Elia
sino al 27 ottobre 2024
“Racconta di me e della mia causa, non dimenticare…”
Sono queste le ultime parole che Amleto morente rivolge a Orazio, l’amico carissimo, l’unico sopravvissuto della storia. E questi accoglie la preghiera e ne diventa il testimone. Col procedere del tempo però, com’è normale, il ricordo si sbiadisce e nella mente di Orazio la vicenda si confonde. In una stanza vuota raccontiamo – ma forse è più esatto dire ricordiamo – la vicenda di Amleto, così come la memoria di Orazio ce la rimanda: una sequenza più o meno logica di quadri in cui i volti e le immagini emergono dal buio con la rapidità di un battito di ciglia. La scena è una stanza della memoria, claustrofobica e senza via d’uscita. Le azioni si susseguono al ritmo ossessivo del ricordo, si confondono e si mischiano come avviene nella mente di Orazio, che ci restituisce una storia spezzata, frammentaria, ma colma di umanità. Amleto si inserisce nel filone degli spettacoli shakespeariani della compagnia: Otello, Romeo e Giulietta e Macbeth, allestimenti caratterizzati da messe in scena originali, un linguaggio visivo marcato e quasi cinematografico, ritmo sostenuto, uso drammaturgico delle luci e della musica e spesso mancanza totale di coordinate spazio-temporali concrete e naturalistiche. Un percorso verso la frammentarietà, che qui, con Amleto, raggiunge il suo apice. Per info e biglietti, qui

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Vicenza, Teatro Olimpico:” Ariadne Auf Naxos” dal 24 al 27 ottobre 2024

Lun, 21/10/2024 - 18:29

Teatro Olimpico di Vicenza
“ARIADNE AUF NAXOS”
dal 24 al 27 ottobre
Il “Vicenza Opera Festival” giunge alla sua VII edizione: dopo le inquietanti ambiguità di The Turn of the Screw (Britten) e il lacerante dramma familiare di Pelléas et Mélisande (Debussy), quest’anno con “Ariadne auf Naxos” Iván Fischer abbandona le tinte fosche e propone un’opera leggera e brillante che nacque dalla collaborazione fra Richard Strauss e il librettista Hugo von Hofmannsthal. Fischer ci restituisce una versione inedita, creativa e in qualche modo filologica del capolavoro di Strauss anteponendo alla messa in scena dell’opera la suite orchestrale da “Le bourgeois gentilhomme” che il compositore scrisse nel 1920. Così la Suite torna alla sua originaria dimensione teatrale e la Commedia dell’Arte si innesta sul mito di Arianna con gag e parentesi molto divertenti che coinvolgono anche i musicisti sul palco. Per info e biglietti qui

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Rho, Teatro Civico: “Madama Butterfly” 25 e 27 ottobre 2024

Lun, 21/10/2024 - 18:24

Teatro Civico di Rho
“MADAMA BUTTERFLY”

 25 e il 27 ottobre
Una delle opere più amate di Puccini, in occasione del centenario della morte dell’autore, verrà provata, messa in scena e presentata in prima nazionale al Teatro Civico di Rho grazie ad una importante coproduzione con altri quattro teatri (Teatro Sociale di Mantova, Teatro Splendor di Aosta, Teatro Galli di Rimini ed Ente Musicale Luglio Trapanese) e con International Music&Arts. Nel cast, Daria Masiero come Cho-Cho San e Giuseppe Distefano nel ruolo di Pinkerton; la direzione è affidata al maestro Riccardo Bianchi. Un appuntamento nel segno della Lirica, che assesta un secondo significativo passo del Teatro di Rho in questa direzione, dopo l’opera contemporanea “Il sogno liberato” andata in scena la scorsa primavera. Per info e biglietti qui

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Roma, Museo Nazionale Romano: “Massimo Pelletti. Versus” dal 24 ottobre 2024 al 12 gennaio 2025

Lun, 21/10/2024 - 17:51

MASSIMILIANO PELLETTI – Versus
24 ottobre 2024 – 12 gennaio 2025
A cura di Stéphane Verger
Museo Nazionale Romano – Palazzo Massimo, Roma
Il Museo Nazionale Romano – Palazzo Massimo accoglierà, dal 24 ottobre 2024 al 12 gennaio 2025, la mostra dedicata all’artista Massimiliano Pelletti. Il progetto espositivo, intitolato Versus e curato dal direttore del Museo, Stéphane Verger, è un’operazione site-specific che vede le opere inedite di Pelletti entrare in un dialogo serrato con la collezione permanente di scultura antica. Promossa dal Ministero della Cultura, dal Dipartimento per la Valorizzazione Culturale, dai Musei Italiani e con il supporto della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, la mostra è stata realizzata in collaborazione con la Galleria Barbara Paci, che ha partecipato attivamente all’ideazione e all’organizzazione dell’evento, insieme all’artista stesso. La mostra Versus si configura come un confronto tra le opere della collezione museale e le sculture create ex novo da Pelletti, con una riflessione sulla dialettica tra azione e inazione, tra coazione alla produttività e l’atto contemplativo. L’esposizione si fa portavoce di una meditazione sulla natura umana e sul nostro tempo, ponendo l’accento sull’urgenza del fare che caratterizza la contemporaneità e la tensione tra l’azione immediata e la contemplazione più profonda. Massimiliano Pelletti, riprendendo i modelli classici presenti a Palazzo Massimo, li reinterpreta utilizzando materiali naturali insoliti e preziosi, talvolta mai adoperati prima in scultura, così da proporre un contrappunto, una dimensione speculare e contemplativa alle opere classiche. In questo contesto, la collezione del Museo offre una stimolante opportunità di riappropriazione e rielaborazione, che stimola nell’osservatore una potenziale narrazione alternativa. “Con Versus, Massimiliano Pelletti entra nel vivo delle opere della collezione di Palazzo Massimo – afferma il Direttore Stéphane Verger –. Il suo è un progetto di grande innovazione, al quale ho partecipato con entusiasmo e attenzione. Insieme abbiamo dato forma a un dialogo ravvicinato con alcuni dei capolavori del Museo, come l’Afrodite accovacciata, il Dioniso, il Discobolo Lancellotti, e la Testa di Eracle. Sono convinto che il linguaggio del contemporaneo, fatto di ricerca, confronto e innovazione, sia il passepartout ideale per conoscere l’archeologia classica, di cui Palazzo Massimo è lo scrigno per eccellenza.Federico Mollicone, Presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, ha dichiarato: “Nelle opere di Pelletti, la mano dell’artista scolpisce pietre antiche, evocando figure mitologiche. Al pari del tempo, le sue sculture si mostrano corrose, come testimoni di un passato remoto che si interseca con il presente. Mettere in dialogo forme classiche e moderne è un’operazione di profonda suggestione e valore culturale, capace di rivelare l’eterno fluire del divenire umano. Complimenti al Museo Nazionale Romano, alla Galleria Barbara Paci e all’artista Pelletti per questo contributo prezioso.Massimiliano Pelletti, nel delineare la propria visione della mostra, cita Paul Valery: “L’essenza del classicismo è venire dopo. L’ordine presuppone un disordine che esso viene a sistemare.” In questa frase risiede il senso profondo del suo lavoro: il classico non è mera riproduzione del passato, ma risorge in un contesto nuovo, assumendo una nuova vitalità e una dimensione ancora più autentica. Il percorso espositivo si articola lungo una serie di confronti speculari: opere come il Discobolo Lancellotti trovano nel lavoro di Pelletti una figura ribaltata, che suggerisce quiete e contemplazione, contrapponendo l’azione fisica alla riflessione estatica. La Testa di Saffo, reinterpretata dall’artista, utilizza un raro onice nero con inserti di micromosaico che riproducono la costellazione delle Pleiadi, simbolo di un altrove luminoso e onirico. Questi dettagli instaurano un legame con il passato classico, attualizzandolo e facendo emergere nuovi significati. L’approccio dell’artista alla materia è altrettanto significativo: Pelletti utilizza materiali come il quarzo, l’onice, il calcare e altre rocce naturali che presentano venature e imperfezioni, espressione delle trasformazioni geologiche. In questo modo, le opere si possono definire co-autoriali: il dialogo è non solo tra classico e moderno, ma anche tra l’uomo e la natura. La mano dell’artista e quella della Terra si fondono, creando sculture che trascendono il mero oggetto per diventare specchio di un equilibrio esistenziale. L’esposizione Versus è un viaggio tra epoche diverse, accomunate da una medesima aspirazione alla comprensione della condizione umana. Nel cuore del Palazzo Massimo, il visitatore viene invitato a contemplare non solo l’arte, ma anche la natura stessa della storia e della temporalità, con la consapevolezza che è proprio l’inazione, l’otium latino, a dare forma piena all’humanum, a rendere l’atto del fare autenticamente umano. Questa mostra rappresenta un invito a ritrovare il valore del contemplare, del fermarsi a riflettere, in un mondo in cui la velocità del fare spesso sottrae spazio all’essere. Con Versus, Pelletti propone una riconciliazione con il ritmo naturale della creazione artistica, in cui ogni dettaglio, ogni venatura, racconta un processo che è al contempo fisico e spirituale.
Massimiliano Pelletti
Nato nel 1975 a Pietrasanta (Lucca), Massimiliano Pelletti è cresciuto nella bottega del nonno, apprendendo le tecniche di lavorazione del marmo. Diplomatosi al Liceo Artistico di Pietrasanta, ha proseguito gli studi in Filosofia all’Università di Pisa, disciplina che ha profondamente influenzato la sua visione artistica. Dal 2006, anno del suo esordio vincendo la XII Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo, Pelletti ha esposto le sue opere in importanti contesti nazionali e internazionali, inclusa la Biennale di Venezia e altre prestigiose mostre. Le sue sculture, caratterizzate dall’uso innovativo di materiali naturali, sono il frutto di una continua sperimentazione, che guarda al passato classico con spirito contemporaneo, reinterpretando la tradizione con uno sguardo al futuro.

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Venezia, Teatro La Fenice: Juanjo Mena e Nicolò Cafaro in concerto

Lun, 21/10/2024 - 09:50

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2023-2024
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Juanjo Mena
Pianoforte Nicolò Cafaro
Sergej Rachmaninov: Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 in re minore op. 30; Witold Lutosławski: Concerto per orchestra
Venezia, 18 ottobre 2024
Due titoli, che non sono ancora entrati stabilmente nel grande repertorio concertistico – il Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 in re minore op. 30 di Sergej Rachmaninov e il Concerto per orchestra di Witold Lutosławski – costituivano il programma, proprio per questo particolarmente allettante, del penultimo appuntamento della Stagione Sinfonica della Fondazione Teatro La Fenice, che vedeva come interpreti due musicisti particolarmente attesi dagli appassionati: il pianista Nicolò Cafaro, vincitore XXXVIII Premio Venezia, e il direttore d’orchestra Juanjo Mena, al suo debutto in Fenice. Composto da Rachmaninov nell’estate del 1909, durante un periodo di riposo nella tenuta di famiglia a Ivanovka, presso Mosca, il Terzo concerto per pianoforte e orchestra non ebbe, inizialmente, un’accoglienza entusiastica, soprattutto da parte di interpreti e critici. Lontano dal carattere melodioso del Concerto n. 2, appariva troppo lungo e formalmente poco ortodosso, oltre che tecnicamente impervio. Difficoltà che il giovane, ma già affermato pianista siciliano ha brillantemente superato, dimostrando una sbalorditiva sicurezza, che – unita ad una straordinaria maturità interpretativa – gli ha consentito di dar vita a un’esecuzione in certi momenti elettrizzante per il l’incandescente virtuosismo, in altri intrisa di delicato lirismo, grazie anche ad un tocco, che perdendo la perlacea brillantezza esibita nei passaggi di più sperticata agilità, assumeva una diafana morbidezza. Nel complesso, una prestazione, che non esitiamo a definire “indimenticabile”. Pacato e quasi esitante il pianoforte nel riprendere il tema in ritmo puntato con cui clarinetti, fagotti e violoncelli, accompagnati dagli strumenti ad arco, hanno aperto il primo movimento, Allegro ma non tanto, dove – affrontando la cadenza eccezionalmente lunga e complessa che sostituisce la tradizionale ripresa – ha dimostrato una mirabile padronanza tecnica, unita a un’immacolata nitidezza nell’affrontare le turgide sequenze accordali. Analogamente il solista ha affrontato da par suo l’ampio Intermezzo: Adagio, dove entra con una frase fortemente cromatica, per poi intonare una melodia fervida e nostalgica. Il giovane interprete ha superato se stesso nel Finale: Alla breve, una danza frenetica, che – riprendendo alcuni temi del movimento iniziale – riserva allo strumento solista trascendentali difficoltà e nella cui sezione centrale la scintillante e metallica sonorità pianistica sembra anticipare Prokof’ev e Šostakovič. Precisa e coesa l’Orchestra nel sostenere il solista, autorevolmente guidata da Juanjo Mena, che ha saputo pienamente valorizzare la raffinata orchestrazione di Rachmaninov ora nitida e brillante ora cameristica e delicata. Successo travolgente e non poteva essere altrimenti. L’Orchestra del Teatro La Fenice è stata poi protagonista di un’esecuzione veramente splendida del Concerto per orchestra di Witold Lutosławski. Composta tra il 1950 e il 1954 – su proposta del direttore artistico della Filarmonica di Varsavia, Witold Rowicki, che richiedeva un brano sinfonico, per celebrare la rinascita, dopo la guerra, dell’orchestra –, la partitura si articola in tre movimenti e costituisce – sebbene il compositore la considerasse un lavoro marginale – il coronamento della fase “folklorica” della sua attività creativa, attestata – prima che vedesse la luce il Concerto per orchestra – da una serie di brevi composizioni ispirate alla musica della regione di Kurpie. Stimolato da Rowicki, Lutosławski utilizzò l’esperienza maturata nella stilizzazione del folklore polacco, per produrre il Concerto per orchestra. Nella partitura, l’autore inserisce undici melodie popolari della Masovia, creando una trama sotterranea che collega i tre movimenti: melodie che, usate come microstrutture ritmico-intervallari, creano sofisticate trame contrappuntistiche e stringenti sviluppi, sacrificando il loro potenziale colore locale alla pura invenzione. Quanto all’esecuzione, il gesto chiaro e suggestivo del direttore spagnolo ha ottenuto dall’Orchestra estrema qualità del suono e ragguardevole finezza interpretativa; il che si è apprezzato negli interventi solistici come in quelli delle singole sezioni e dell’insieme, che hanno dato pieno risalto alla raffinatezza della scrittura e alla ricchezza dei colori orchestrali, da cui proviene il fascino di questa straordinaria partitura, in cui si ravvisa una chiara impronta bartókiana, suggerita fin dal titolo stesso, identico a quello scelto da Bartók per la sua analoga composizione di dieci anni prima. Calorosi applausi e numerose chiamate a fine serata.

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Roma, Nuovo Teatro Ateneo: “Matrimonio con Dio. Vaclav Nižinskij e la trasfigurazione della danza in luce”

Dom, 20/10/2024 - 22:03

Roma, Nuovo Teatro Ateneo, Stagione Sperimentale 2024
“MATRIMONIO CON DIO. VACLAV NIŽINSKIJ E LA TRASFIGURAZIONE DELLA DANZA IN LUCE”
Racconto teatrale di e con Vito Di Bernardi
Immagini in movimento Ilaria D’Agostino
Roma, 17 ottobre 2024
All’incrocio tra lezione universitaria e spettacolo teatrale si colloca la lecture-performance su Vaclav Nižinskij ideata e messa in scena da Vito Di Bernardi, Professore Ordinario di Storia della Danza all’Università La Sapienza di Roma. La forma spettacolare nata negli anni Sessanta come nuovo genere delle arti performative rende visibile il rapporto singolare che lega l’arte alla sua conoscenza, la ricerca intellettuale all’esperienza pratica, l’oggettività della scienza alla singolarità di approcci radicati però nell’unicità del fenomeno in esame. In questo senso la performance vista nel contesto della prima stagione sperimentale del Nuovo Teatro Ateneo è particolarmente esemplare. Nel suo libro edito nel 2012 da Bulzoni dal titolo Cosa può la danza. Saggio sul corpo, lo studioso Di Bernardi nel riflettere sulla presenza e sulla creazione scenica del grande danzatore russo, messa in relazione con la scrittura dei famosi Diari, affermava il corpo era energia e forza prima di essere significato: era desiderio, era libido nell’Après-midi d’un Faune, era violenza, era crudeltà nel Sacre du Printemps”. Nižinskij per Di Bernardi è “voce, è gesto che si nega come linguaggio pur parlando, pur agendo”, è “un essere sensibile, aperto e mai definibile in un’immagine chiusa”, è “corporeità che si sperimenta nella processualità, nell’incontro con gli altri e con il mondo. Riflessioni queste dettate da una lunga carriera scientifica che ha coniugato lo studio della danza contemporanea all’antropologia in una prospettiva non eurocentrica, ma aperta al confronto, soprattutto con le tradizioni teatrali asiatiche, nonché al rapporto tra diversi generi spettacolari. Tuttavia, riflessioni non facilissime da afferrare per chi non sia abituato a confrontarsi con una scrittura scientifica di profondo spessore filosofico. Ecco che la forma della lecture-performance offre dunque una possibilità in più allo studioso e al pubblico per interagire con la geniale figura di Nižinskij. L’eletto di Diaghilev, colui che seppe far combaciare la curiosità europea per il folklore russo con gli intenti di rottura delle Avanguardie, segnando il punto di svolta dei Ballets Russes, fu anche amato da uno dei più noti esponenti della danza indiana, Ram Gopal, definito dal critico polacco Tadeusz Zelenski “il Nižinskij indiano”. Nižinskij, a sua volta, incarnò il dio indiano Krishna in Le Dieu bleu al Théatre du Châtelet di Parigi il 13 maggio 1912. La spiritualità di Nijinskij era però ben diversa da quella indiana, e anche se affine alla cultura religiosa russa dell’esicasmo e del tolstoismo, era radicata nella personale sensibilità del danzatore, nelle sue aspirazioni artistiche e nei suoi conflitti interiori, espressi successivamente nei Diari quando l’artista aveva cominciato a soffrire di schizofrenia. Attraverso il movimento delle immagini realizzate da Ilaria D’Agostino, artista visiva diplomata all’Accademia di Brera, essenziali e significativi oggetti scenici, la tenuta del palcoscenico, il ritmo e il tono della voce, il racconto senza perdere di scientificità diventa una lettura performata che aiuta lo spettatore a entrare nel mondo intimo del grande Vaclav, svelandone particolari momenti di vita ed esaltando la dimensione immateriale della sua arte. Uno spettacolo di buon auspicio per la rinascita del Nuovo Teatro Ateneo, che fino al 19 dicembre ospiterà spettacoli di prosa e danza, artisti di rilievo nazionale e internazionale, laboratori didattici e progetti di Terza Missione. Per coniugare la riflessione teorica alla necessaria visione e sperimentazione.

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Roma, RomaEuropa Festival 2024: ” Close Up” al Teatro Argentina

Dom, 20/10/2024 - 17:14

RomaEuropa Festival 2024
“CLOSE UP”
Ideazione e coreografia Noé Soulier
Interpreti Julie Charbonnier, Nangaline Gomis, Yumiko Funaya, Samuel Planas, Mélisande Tonolo, Gal Zusmanovich
Musiche Brani dall’Arte della fuga di Johann Sebastian Bach ed estratto dalla Sonata n. 2 per violone solo
Musicisti Ensemble Il Convito (Maude Gratton, clavicembalo e direzione artistica; Amelie Michel, traverso; Sophie Gent, violino; Claire Gratton, viola da gamba; Ageet Zweistra, violoncello)
Scenografia Noé Soulier, Kelig le Bars, Pierre Martin Oriol
Luci Kelig Le Bars
Direzione luci Nicolas Bazoge
Video Noé Soulier, Pierre Martin Oriol
Ingegneria del suono Pierre Durand
Produzione Cndc-Angers
Coproduzione il Convito, Théâtre de la Ville (Parigi), Angers Nantes Opéra, Romaeuropa Festival, Espaces Pluriels Scène conventionnée danse (Pau), Theater Freiburg, Arsenal Cité musicale de Metz, Maison de la danse Pôle européen de création (Lyon), Théâtre Auditorium de Poitiers, Chaillot Théâtre national de la danse (Paris)
Con il sostegno di OARA (programma di residenza), Villa Albertine e Dance Reflections by Van Cleef & Arpels
Prima Nazionale
Roma, Teatro Argentina, 16 ottobre 2024
Un nuovo lavoro dedicato a Bach e alla rimediazione in danza dei concetti di polifonia e contrappunto lo si potrebbe definire Close Up di Noé Soulier, presentato al Teatro Argentina in prima nazionale il 16 ottobre scorso in occasione del Romaeuropa Festival (coproduttore dello spettacolo). Da anni l’attività coreografica di Soulier si incentra sui gesti d’azione improntanti alle funzioni di “frapper, éviter, lancer, attraper”. Il coreografo, depositario delle sperimentazioni succedutesi da Cunningham a Forsythe, intende allontanarsi dalla pura narratività per dedicarsi all’analisi del linguaggio del corpo, rifuggendo però allo stesso tempo anche dalla completa astrazione. I gesti sono quindi concreti, ispirati da pulsioni primarie, ed ancorati a una certa aggressività. L’interprete rintraccia le motivazioni del proprio movimento nel confronto quasi bellicoso con gli altri. Si tratta in realtà di un contrappunto in danza, che nella sua espressività ridona slancio alla musica barocca di Johann Sebastian Bach. La cerebralità del pensiero strutturale si coniuga a una gustosa corposità, è questo il comune denominatore tra la musica e la danza. A un impulso piuttosto energico segue una fase di rilascio più morbida, i passi danzanti hanno un loro ritmo ed una loro intensità segnalata dal respiro. Oltre al dialogo con la musica, si esplora qui anche il binomio danza-nuove tecnologie. Il titolo Close Up rimanda alla tecnica cinematografica del primo piano. Ad essere messi in rilievo sono le singole parti del corpo e la loro partitura gestuale: una rotazione delle anche o una mano che stringe il polso dell’altro braccio. In questo momento a condurre il gioco è il rapporto del danzatore con la telecamera, una relazione gestita dal vivo nel corso dello spettacolo, e dunque con un alto livello di agency. Diverso è il discorso per lo spettatore, che nella prima parte dello spettacolo può tentare un’interpretazione e un punto di vista più personali, e nella seconda parte dello spettacolo è maggiormente guidato “dall’alto”. Un confronto dunque contrappuntistico anche con l’audience dello spettacolo, che dalla riflessione analitica si spinge però verso un appagamento più propriamente estetico, anche in questo caso con una tensione baroccheggiante. Va detto che il lavoro di Noé Soulier, direttore del Centre National de danse contemporaine di Angers, istituzione francese che riunisce la produzione coreografica al lavoro didattico-educativo, nasce questa volta dall’intreccio con l’ensemble musicale Il Convito, spazio creativo fondato nel 2015 su base cameristica attorno al clavicembalo, al pianoforte e all’organo di Maude Gratton, la musicista francese direttrice dell’ensemble. Tale centro si dedica per l’appunto a progetti artistici destinati a fondere musica, arte e storia. Il repertorio barocco è investigato dal gruppo in connessione con le tendenze artistiche contemporanee e coinvolgendo forme di spettacolo molto diverse tra loro, tra cui la danza, le arti circensi, le arti visive. In questo senso, la dinamica coreografica di Noé Soulier, con la sua vicinanza alle arti marziali, si mostra perfettamente adatta alle esigenze di ricerca musicale e con molta probabilità darà vita ad altri progetti in comune. Per quanto riguarda RomaEuropa, si tratta di un successo confermato dopo numerose altre presenze (Mouvement sur mouvement, 2014; Removing, 2016; Passage, 2022). Inoltre, a livello di ricerca concettuale, lo spettacolo si rivela tra i più interessanti delle produzioni di danza viste quest’anno al Festival, superando finanche Sasha Waltz. Foto Delphine Perrin e Christophe Raynaud Delage

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Roma, Parco Archeologico del Colosseo: “Göbeklitepe: L’enigma di un luogo sacro” dal 25 ottobre 2024 al 02 marzo 2025

Dom, 20/10/2024 - 16:41

Roma, Parco Archeologico del Colosseo
Göbeklitepe: L’enigma di un luogo sacro
La più antica struttura monumentale di culto mai scoperta in mostra al Colosseo, una finestra sul misterioso passato dell’umanità
Dal 25 ottobre 2024 al 2 marzo 2025 il Colosseo di Roma ospiterà una mostra unica: “Göbeklitepe: L’enigma di un luogo sacro”, promossa dal Parco archeologico del Colosseo, con la curatela di Alfonsina Russo, Roberta Alteri, Daniele Fortuna e Federica Rinaldi. La collaborazione con il Ministero della Cultura e del Turismo della Repubblica di Türkiye e l’Ambasciata di Türkiye a Roma porta un importante contributo a questo evento culturale, che sarà ospitato lungo il secondo livello dell’Anfiteatro Flavio, lungo il percorso di visita. La mostra intende presentare al pubblico italiano la straordinaria scoperta del sito archeologico di Göbeklitepe, situato vicino Şanlıurfa, in Turchia. Inserito nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO nel 2018, Göbeklitepe risale tra il 9.500 a.C. e l’8.200 a.C., e rappresenta il più antico luogo monumentale di culto mai scoperto, capace di riscrivere la comprensione della storia umana durante il cruciale passaggio tra Paleolitico e Neolitico. Le strutture di Göbeklitepe, costituite da pilastri monolitici a forma di T decorati con rilievi animali e motivi astratti, suggeriscono un uso rituale di carattere religioso, molto prima della comparsa della scrittura, della metallurgia e della ceramica. Gli scavi archeologici, iniziati nel 1994 e oggi giunti al loro trentesimo anniversario, hanno portato alla luce solo una minima parte del sito, che comprende diversi complessi circolari di pilastri decorati. Secondo l’archeologo Klaus Schmidt, uno dei principali studiosi di Göbeklitepe, questo luogo potrebbe essere stato un centro di pellegrinaggio per comunità neolitiche, un’ipotesi che mette in discussione le teorie tradizionali sulla nascita della civiltà. Schmidt suggeriva infatti che il bisogno di luoghi di culto, come Göbeklitepe, abbia stimolato la sedentarizzazione e l’agricoltura, cambiando così il volto della storia umana. L’espressione “prima venne il tempio, poi la città” è divenuta un punto di riferimento per comprendere il ruolo delle pratiche religiose nella nascita delle prime comunità stanziali. I monumentali pilastri a forma di T di Göbeklitepe, molti dei quali decorati con rilievi di animali come serpenti, volpi, leoni e uccelli, rappresentano figure simboliche e potenti, probabilmente connesse a credenze religiose e mitologiche. Questi pilastri non mostrano facce umane, ma alcuni di essi sono scolpiti con braccia e cinture, suggerendo rappresentazioni antropomorfe. L’arte di Göbeklitepe si caratterizza per una raffinatezza sorprendente, considerando l’epoca di costruzione, con incisioni molto dettagliate che testimoniano un livello artistico e concettuale avanzato per una civiltà preistorica. La mostra al Colosseo è un’opportunità unica per esplorare da vicino uno dei luoghi più enigmatici della storia umana, capace di affascinare non solo per la sua antichità, ma anche per il mistero che ancora lo circonda. Come dimostrato dagli scavi e dalle teorie emergenti, Göbeklitepe sfida le nostre concezioni sulla nascita della religione e sulla costruzione delle prime strutture monumentali. Questo evento mira a creare un ponte culturale tra l’Italia e la Turchia, coinvolgendo il pubblico in una riflessione profonda sul significato del sacro nelle società antiche.

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Parma, Festival Verdi 2024: “Macbeth”

Dom, 20/10/2024 - 09:28

Parma, Teatro Regio, Festival Verdi 2024
MACBETH”
Melodramma in quattro parti su libretto di Francesco Maria Piave, da Shakespeare. Traduzione in francese di Charles Louis, Étienne Nuitter e Alexandre Beaumont
Musica di Giuseppe Verdi
Macbeth ERNESTO PETTI
Lady Macbeth LIDIA FRIDMAN
Banquo MICHELE PERTUSI
Macduff LUCIANO GANCI
Malcolm DAVID ASTORGA
La Comtesse NATALIA GAVRILAN
Un Médecin ROCCO CAVALLUZZI
Un serviteur/Un sicaire/Premiere fantôme EUGENIO MARIA DEGIACOMI
Deuxième fantome AGATA PELOSI
Troisième fantome ALICE PELLEGRINI
Filarmonica Arturo Toscanini
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore Roberto Abbado
Maestro del Coro Martino Faggiani
Regia Pierre Audi
Scene Michele Taborelli
Costumi Robby Duiveman
Luci Jean Kalman, Marco Filibeck
Coreografie Pim Veulings
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
Parma, 17 ottobre 2024
Il Macbeth in francese è quel che ci vuole per i palati sofisticati del pubblico da Festival: che finiscono tuttavia per ritrovarvi l’opera che già conoscevano, se non fosse quel dettaglio che è tutta in francese. Forse maggiore stupore desterebbe l’originale fiorentino del 1847 che si ascolterà a Busseto nella prossima edizione 2025 del Festival. Sì, perché il Macbeth cui siamo tutti abituati è il restyling del 1865: per Parigi, ma condotto tutto in italiano. Per i nuovi testi dei nuovi brani viene scomodato financo il prestigio intellettuale d’un Maffei (oggi magari lo diremmo Dramaturg), accanto al povero Piave di sempre e, sopra tutti, il povero Verdi: che ci prova a spiegare quel che vuole, ma poi La luce langue se la scrive da solo ché fa prima. E la traduzione? A Verdi, dimostra Giuseppe Martini nel programma di sala, interessava il giusto. L’elemento francese è semmai da ricercare allora nella sensibilità cromatica dell’orchestrazione: ad esempio dei favolosi balletti (pas d’action e non divertissements, prego). Ovvero il gusto tutto nordico e pervicacemente estraneo al romanticismo italiano (e non soltanto musicale) per il fantastico e il soprannaturale. Un carattere che era già del primo Macbeth fiorentino, con quella scena delle apparizioni che nel panorama teatrale italiano è un’autentica follia: sicché torni il Verdi a fare il patriota come si deve e lasci perdere siffatte fantasie. Oltre a lodevolmente spianare tutti i molti e irti ostacoli della lingua cantata, la magnifica direzione di Roberto Abbado sa cogliere, sottolineare, esaltare queste qualità d’oltralpe che appartengono, si diceva, alla più intima natura dell’opera. Nella volatile inconsistenza delle silfidi; nell’inquietante invenzione cromatica di una cornamusa immaginaria, fantastica e remota; nell’allucinata panoramica sulla desolazione che è l’introduzione del coro alla patria (in francese non più oppressa, ma noble-terre): ecco il Verdi visionario del suono. Del resto, l’edizione francese Roberto Abbado l’aveva tenuta a battesimo già nel 2020 in forma di concerto al Parco Ducale, e anche incisa per la Dynamic. Qui la riprende con un vassoio di voci che giustificherebbe una seconda incisione. Protagonista è l’irreprensibile dizione francese del salernitano Ernesto Petti, baritono verdiano per nascita. Chi scrive ricorda la folgorazione nell’Ernani kundiano di qualche anno fa: volume nerboruto e accento virile certificavano l’incontenibile esuberanza di un temperamento autentico. Non si parli di promesse: qui l’Artista è già maturo, padrone d’un canto sfumatissimo e pienamente consapevole. Il timbro si caratterizza per una ruvida, insolita granulosità, che lo rende personalissimo e immediatamente riconoscibile: e assolutamente perfetto per un villain di questa caratura. Lidia Fridman è una Lady dalle tinte cupe, che sfodera insospettabili spessore e consistenza nel registro grave, mantenendo sempre bellissimo, tondo e smaltato il suono. Una Lady senza macchia, forse, ma impeccabile e fascinosa nella sua tetraggine: tanto da rimandare il pensiero, scusate se è troppo, all’arbasiniana “upupa leggendaria”. Terzo protagonista è il coro delle streghe, che fa benissimo, e non da meno è l’arduo coro dei sicari: il merito è sempre del Coro del Teatro Regio e del suo Maestro Martino Faggiani. Michele Pertusi gioca in casa con quella pastosità di struggevole morbidezza che suggerisce al verdiano autoctono sempre nuovi paragoni con la gastronomia locale: una garanzia di valore musicale e piacere d’ascolto. Luciano Ganci dimostra di saper all’occorrenza ammantare di pena lo squillantissimo brillìo della sua voce solare, aperta, schietta. Molto degnamente completano il cast il Malcolm ben timbrato di David Astorga, il Médecin elegantissimo di Rocco Cavalluzzi e la Dama promossa Comtesse dal volume invero impressionante di Natalia Gavrilan. L’allestimento manieratissimo di Pierre Audi compendia il vocabolario più classico, ma anche più usurato, del cosiddetto teatro di regia: è piuttosto chiaro, ma risulta fatale a quell’affare sporco e imperfetto che è il teatro. Nelle scene di Michele Taborelli e nei costumi di Robby Duiveman, in ossequio all’impianto registico, la sobrietà dialoga con la modestia. Forse c’è più Shakespeare (leggi: teatro di parola) che Verdi, ma sicuramente non c’è Parigi. Foto Roberto Ricci

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