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Roma, Teatro Palladium:” Les Fleurs” di Michela Lucenti/Balletto Civile

Lun, 17/03/2025 - 12:20

Roma, Teatro Palladium
“LES FLEURS” DI MICHELA LUCENTI/BALLETTO CIVILE
Centro Nazionale di Produzione della Danza Orbita/Spellbound, stagione danza 2025 “In Levare” a cura di Valentina Marini
“LES FLEURS”
Michela Lucenti/Balletto Civile
Regia e coreografia Michela Lucenti
Drammaturgia Maurizio Camilli, Michela Lucenti, Emanuela Serra
Progetto sonoro Guido Affini
Progetto luci Stefano Mazzanti
Consulenza spazio Alberto Favretto
Aiuto regia Giulio Spattini
Assistenza alla messa in scena Jacopo Squizzato
Interpreti Maurizio Camilli, Michela Lucenti, Alessandro Pallecchi Arena, Gianluca Pezzino, Emanuela Serra, Francesca Zaccaria
Collaborazione produttiva Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale, Balletto Civile
Roma, Teatro Palladium, 7 marzo 2025
I fiori hanno da sempre affascinato il mondo della danza. Basti pensare al ‘Valzer dei fiori’ di Pëtr Il’ič Čajkovskij ne Lo Schiaccianoci, alle sontuose ghirlande che abbelliscono la scena ‘Le jardin animé’ in Le Corsaire, allo spettacolo del 1894 Il Risveglio di Flora con la coreografia di Marius Petipa, nonché al tardosettecentesco Flore et Zéphire di Charles Louis Didelot. Ai giardini delle residenze imperiali pietroburghesi pare si siano ispirati Vsevoložskij e Petipa nella creazione de La bella addormentata dove del resto a figurare tra i protagonisti della produzione era la famosa Fata dei lillà. Sono tali fiori non solo un elegante decoro, ma i simboli dell’aspirazione verso un mondo di bellezza ideale, ricercata con grande esaltazione nel mondo del balletto in quanto non possibile nel mondo reale. Di ideale parlava anche la prima sezione della raccolta di liriche Les fleurs du mal pubblicata nel 1857 da Charles Baudelaire, che intendeva avvalersi della poesia per estrarre la bellezza dal male. Nell’aspirare ad un mondo talmente surreale, qui il poeta si scontrava con una profonda angoscia esistenziale. Quanto più cercava di elevarsi verso il bello, maggiori diventavano gli scherni che tarpavano le ali della sua sensibilità. Ciò non impediva a Baudelaire di rivolgere lo sguardo alla terra, ed in particolare al mondo della città, dove si rinnegava la divinità per dedicarsi ai piaceri carnali ed a effimere consolazioni. È questo il tema che attrae ai nostri giorni Michela Lucenti, erede della danza teatrale di Pina Bausch. La compagnia da lei fondata nel 2003 porta il nome impegnativo di Balletto Civile, pur sostanziandosi di una forte contemporaneità. Il termine balletto è per lei sintomo di una significazione danzata che prende vita grazie al lavoro di danzatori lucidi, attenti a quello che avviene nel mondo che li circonda. Il lavoro teatrale è per lei un equilibrio vertiginoso tra diversi generi e linguaggi, al cui centro è sempre il corpo del performer. Se per aprirsi al mondo dell’immaginazione è necessario svuotarsi di tanti piani esteriori, della presenza fisica non ci si può sbarazzare. Occorre dunque darle un senso che attraversa il tempo e lo spazio, che penetra l’anima degli spettatori o li colpisce con un pugno nello stomaco. Di lavori ispirati alla letteratura ne ha già realizzati molti come Il Maestro e Margherita nel 2017, o come gli spettacoli di ascendenza shakespeariana Killing Desdemona (2016), Before Break (da La Tempesta, 2016) e L’amore segreto di Ofelia. Baudelaire non le fa paura, anzi le offre la possibilità di cimentarsi con un mondo di antieroi, di creature ai margini che chiedono riscatto, di corpi imperfetti e fragili. In crisi è lo stesso personaggio chiamato a rappresentare Baudelaire, di cui restano salde solo le iniziali in legno poste a terra. Su una lavagna vengono scritte le parole chiave cui sono ispirati i quadri di cui è costituito lo spettacolo. Oltre al tema del poeta, si tratta qui della bellezza, del tempo, dell’esilio, della rivolta, della ferita, della città, nonché naturalmente della poesia stessa. Nell’ambiente musicale creato da Guido Affini risuonano impattanti parole che contrappongono il mondo della felicità e della luce di un sole accecante ad una valanga di morte. Scarni ed essenziali gli oggetti scenici. Centrali i gesti dei performers, che nella loro fisicità teatrale incisiva chiedono una cosa sola: «Lasciateci fiorire». Foto Margherita Caprilli

 

Categorie: Musica corale

I “Folk Songs” diretti da Robert Treviño per il centenario della nascita di Luciano Berio

Dom, 16/03/2025 - 18:37

Auditorium RAI “Arturo Toscanini” di Torino, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Robert Treviño
Soprano Justina Gringyte
Luciano Berio: “Folk Songs” (1973);  Dmitrij Šostakovič: Sinfonia n.4 in do minore, op.43
Torino, 13 marzo 2025.
1973 è la data dei Folk songs di Luciano Berio e nel 1961 Dmitrij Šostakovič, rimette insieme, ricostruendola dalle parti per orchestra, la sua Sinfonia n4 visto che la partitura originale manoscritta, del 1936, gli era stata persa. Le due opere risultano quindi non così lontane nel tempo e neppure nelle intenzioni. Ambedue trovano una ragione nel gesto musicale in sé, ovvero: nel suono per il suono. Berio fa un bouquet di canti popolari, mescolando strumenti e idiomi per un effetto complessivo magnificamente estetico che non racconta nulla, non esprime nulla, filtrato com’è da un egocentrico intellettualismo assolutamente né pop né folk. Questa bellezza in sé si rivelò essere, in allora, strettamente funzionale ad esaltare l’iperbolica vocalità di Cathy Berberian, dall’estensione formidabile, arricchita, in sovrappiù, da un funambolico virtuosismo. L’attacco delle due viole coi due violoncelli a seguire, nella prima canzone, non è che un preludio che sostiene il velluto vocale della mitica Cathy. Il bello che si giustifica col piacere del suono. È vano cercarvi altro. Il soprano lettone Justina Gringyte, moglie di Treviño, con voce, nelle note basse, assai poitrinée, ce la mette tutta per reggere il difficile confronto con il ricordo della grande Cathy e, fortunatamente, non soccombe. Robert Treviño l’accompagna con amorevole distacco, badando a curare al meglio il ricercato suono cameristico della splendida Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI che, seppur ripiegata su un volume ridotto, si espande in uno smagliante e variegato tripudio timbrico. Il pubblico, a ranghi ridottissimi, ha, questa volta con molta regione, applaudito cantante e orchestra. Forse è tempo che anche le sale da concerto si dotino di schermi per sottotitoli: si fornirebbero così, ad un pubblico non sempre avvertito, alcuni aiuti ad una maggior consapevolezza d’ascolto. Ad esempio, i testi di quanto viene cantato e la segnalazione dei punti cruciali dell’esecuzione, quali le indicazioni di tempo e di movimento, come la numerazione di eventuali variazioni, che il troppo buio della sala impedisce di cogliere dalla lettura del programma. Nel nostro caso poi, i testi dei folk songs assenti e la prescrizione dello spartito che impone l’attacca subito senza pause, lasciavano il pubblico ignaro, senza alcun punto di riferimento. I burocrati staliniani, dando seguito ad una smorfia di disgusto dell’acciaioso despota nel corso della Lady Macbeth, si impegnarono con tutti i mezzi ad accusare il povero Dmitrij di “formalismo”, spaventandolo a morte e con lui ne sortirono terrorizzati anche gli esecutori della sua musica. Si era, a Leningrado, nel 1936 e le Prove della 4° sinfonia, ormai in corso, furono perentoriamente interrotte. Ci fu un fuggi-fuggi generale e qualcuno si adopererò per smarrire l’autografo della sinfonia. I burocrati, pur moralmente deprecabili, nella valutazione effettiva del lavoro ci avevano preso. Se per “formalismo” s’intende una musica che si esaurisce, seppur magnificamente, in sé stessa; una forma che non ha agganci con la realtà e col popolo, questa sinfonia ha effettivamente solo suono, puro ed assoluto. Per quanto in molti ci abbiano provato, nessuno è riuscito a costruirci sopra una trama e una drammaturgia coerente con quanto espongono le note e i suoni. Né in questo affanno c’è stato, da parte dell’autore, un pur minimo soccorso con scritti e con parole. L’opera si pone come un avventuroso universo sonoro che si evolve inesorabilmente su se stesso. Come dalla materia dispersa dal big-bang si agglomerarono, grazie alla gravità, diverse strutture singolari e misteriosamente interdipendenti, così, dal caos musicale europeo di fine Ottocento e dalla sua confusa ristrutturazione tonale, Šostakovič fa coagulare i grumi della sua nuova costruzione. Bruckner, Strauss, Mahler, i musicisti della seconda scuola di Vienna, i russi suoi contemporanei e chissà quanti altri contribuirono a fornire spunti per il nuovo percorso iniziato da Šostakovič. Avrebbe potuto portare, senza lo stop imposto dal populismo di regime, a una strana e personale adesione all’opinione di Stravinskij che la musica si giustifichi solo con la musica e che questa si esprima solo con la strutturazione del suono. Se questo fosse stato l’intento, rimase congelato fino al 1961, quando però il mondo della musica e la realtà sovietica erano ormai definitivamente cambiate. La guerra, la vittoria, le stragi e, non ultime, le vicende personali avevano ormai, e con forza irresistibile, provveduto a soppiantare il “formalismo” e l’autosufficienza con contenuti e trame sempre più ineludibili. Il texano Treviño, esente da questi affanni tipicamente europei, gran maestro della bacchetta e provetto conduttore di masse orchestrali, può riallacciarsi all’impostazione originaria e, a tutta forza, riaffermare la primaria importanza di forma e suono. Si trapassa, con naturalezza e assoluto controllo, dai fortissimi assordanti che impegnano più di cento orchestrali, ai pianissimi, quasi inudibili, di consistenza cameristica. Il suono si mantiene sempre pieno e chiaro, i timbri con inesauribile cura vengono esaltati e sovraesposti. L’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI, grazie a una flessibilità pronta e formidabile, si auto promuove come più strepitosamente non si potrebbe. Tutte le prime parti, ma pure le seconde e le terze (vedi ottoni e legni) sarebbero da citare singolarmente se non si scadesse, visto lo spazio, ad una sterile elencazione. Giustamente, a concerto concluso, Treviño associa, con una lunga sfilata di ringraziamenti, agli applausi a lui indirizzati, tutte le singole prime parti, le file e i ranghi. Si ripete venerdì 14 e si può trovare il live streaming video su raicultura.it.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Vascello: “Behind the light” dal 21 al 23 marzo 2025

Dom, 16/03/2025 - 18:23

Roma, Teatro Vascello
BEHIND THE LIGHT
coreografia, drammaturgia e interpretazione Cristiana Morganti
regia Cristiana Morganti e Gloria Paris
disegno luci Laurent P. Berger
creazione video Connie Prantera
datore luci Matteo Mattioli
audio/video Giovanni Ghezzi
una produzione Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale in coproduzione con Fondazione I Teatri – Reggio Emilia, Théâtre de la Ville – Paris, MA scène nationale-Pays de Montbéliard e con il sostegno di Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento
distribuzione per l’Italia Roberta Righi
international management Aldo Grompone
Gemo in un pianto e fremo
Fosco mi sembra il giorno
Ho cento affanni intorno
Ho mille furie in sen
Pietro Metastasio, L’Olimpiade, musica di Antonio Vivaldi
Dopo il successo di Moving with Pina e Jessica and Me tutt’ora in tour, e dopo aver firmato altri quattro spettacoli come autrice e coreografa (A Fury Tale del 2016, Non sapevano dove lasciarmi del 2017, Another Round for Five del 2019 e Young Birds del 2023) e dopo il Trio In Another Place creato nel 2021 in collaborazione con il danzatore Kenji Takagi e la violoncellista Emily Wittbrodt , ecco un nuovo assolo dell’artista italiana di base a Wuppertal, che fin dalle prime battute conferma e rilancia, alla luce di una nuova maturità interiore, la grande ironia alternata a momenti di intensa poesia che sono la sua cifra distintiva. Spettacolo fortemente autobiografico, che racconta di una crisi familiare, professionale e intima, una sequela di eventi con il tipico “effetto domino”, in cui una disgrazia pare chiamarne un’altra, in cui sembra venga meno ogni singolo punto di riferimento, ogni certezza. La vicenda personale risuona con intensità in chi guarda, dalla platea, in un momento storico che, una crisi economica e di valori, si può definire fra i più destabilizzanti della contemporaneità. Questa “personale crisi globale” viene mostrata, presa in giro, aggirata, attraversata, evasa, superata grazie al potere rigenerativo della confessione e soprattutto dell’arte, ora urlata, ora sussurrata tra le lacrime, con il capo adagiato sul pavimento. Scorre un montaggio di quadri, che vede la protagonista recitare, danzare, cantare su una scena bianca e sospesa in cui irrompono, per dialogare con l’interprete, gli originali e raffinati video di Connie Prantera. È una danza che fa venire voglia di danzare quella di Cristiana Morganti, complice l’esplosione di energia che fa seguito alla catarsi di questa confessione aperta, sincera, sofferente ma di un dolore mai autocompiaciuto, anzi immediatamente lenito dalla risata, anche di sé, con il pubblico. Accompagnati da un collage musicale che spazia da Vivaldi al punk-rock di Peaches, da Giselle, di Adolphe Adam alla musica elettronica di Ryoji Ikeda, si alternano momenti di danza e di parola, come l’irresistibile sfogo sui divieti stilistici che imbrigliano chi è cresciuto sotto la direzione di uno dei più grandi nomi della danza di sempre, Pina Bausch. Oppure il tentativo ripetuto, e inevitabilmente sempre fallito, di spiegare lo spettacolo a chi guarda, così che poi “ci si possa rilassare”. Numerose altre piccole, deliziose storie conducono a un finale che è un delicato ritorno all’interiorità. Lo spettacolo non va spiegato, sembra dire Cristiana Morganti, meglio godersi il viaggio, esattamente come nella vita. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Roma, Sala Umberto: ” A Mirror” dal 18 al 30 marzo 2025

Dom, 16/03/2025 - 18:12

Roma, Teatro Sala Umberto
A MIRROR
di Sam Holcroft
con Ninni Bruschetta, Claudio ‘Greg’ Gregori, Fabrizio Colica, Paola Michelini, Gianluca Musiu
Scene Alessandro Chiti
Costumi Giulia Pagliarulo
Musiche Mario Incudine
Disegno Luci Sofia Xella
Aiuto regia Giuditta Vasile
per gentile concessione dell’Agenzia Danesi Tolnay
Una coproduzione Altra Scena
Viola Produzioni – Centro di Produzione Teatrale
Regia di Giancarlo Nicoletti
Con un meccanismo geniale, esilarante e imprevedibile di teatro-nel-teatro-nel-teatro – a metà fra Pirandello e Rumorifuoriscena – “Spettacolo falso e non autorizzato (A Mirror)” arriva in Italia, dopo l’enorme successo inglese, con un cast e un adattamento sorprendenti. Affrontando temi come la libertà di parola, l’autoritarismo e la censura, è un elettrizzante thriller dark ad alto tasso di ironia e adrenalina, in cui nulla è come sembra e che chiede al pubblico di essere continuamente parte attiva della messinscena. Siete tutti invitati al matrimonio di Nina e Leo, nell’elegante sala eventi di uno stato totalitario in cui le opere teatrali e cinematografiche devono passare il vaglio della censura del Ministero. La cerimonia, però, è solo una copertura, per cui siate pronti a essere testimoni e complici di una performance clandestina e non autorizzata. Dove stia la verità è continuamente in discussione, i ruoli sono pronti a capovolgersi e le forze dell’ordine attendono in agguato, riducendo sempre più ogni distanza fra il dietro le quinte e il palcoscenico. Ce la farà il gruppo di attori ribelli a portare lo spettacolo fino alla fine, evitando di fare arrestare anche il pubblico per questo gesto di insubordinazione? Protagonisti del falso matrimonio e pronti ad accogliervi in teatro, una variegata compagnia di amatissimi attori “ribelli”: Ninni Bruschetta, Claudio “Greg” Gregori, Fabrizio Colica, Paola Michelini e Gianluca Musiu. La regia e l’adattamento italiano sono di Giancarlo Nicoletti, le scene di Alessandro Chiti, le musiche originali di Mario Incudine, i costumi di Giulia Pagliarulo, il disegno luci di Sofia Xella e la produzione è firmata da Altra Scena e Viola Produzioni. Qui per tutte le informazioni.

Categorie: Musica corale

Marco Schiavo & Sergio Marchegiani :”Mozart For Two”

Dom, 16/03/2025 - 16:46

Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791): Sonata in F KV 497; Andante and Variations in G KV 501; Fantasia in F minor for mechanical organ KV 594; Fantasia in F minor for mechanical organ KV 608; Sonata in G KV 357. Marco Schiavo (pianoforte). Sergio Marchegiani (pianoforte). Registrazione: 8-10 febbraio, 2023 presso la Wiener Saal at the Mozarteum, Salzburg. T. Time: 80′ 1CD Decca  4851327
Produzione destinata ai nobili dilettanti che amavano suonare sia il più “moderno” per l’epoca pianoforte che il clavicembalo, indicato quest’ultimo nel frontespizio della Grande sonata in fa maggiore K. 497, composta nel 1786, quella a quattro mani costituisce, comunque, una parte interessante all’interno dell’opera di Mozart, che, in un certo qual modo, come spesso fece nella sua carriera di compositore, “trasgredì” a quelle regole non scritte secondo le quali questo repertorio avrebbe dovuto rispondere a criteri di semplicità compositiva. In effetti, se l’irrealistica indicazione del clavicembalo, uno strumento che, all’epoca di Mozart, incominciava ad essere desueto, sembra corrispondere all’intenzione dell’editore di allargare la sua clientela, l’aggettivo “grande” mostra, invece, la volontà del compositore di scrivere un lavoro artisticamente di un certo livello. In effetti si tratta di un sonata estremamente impegnativa, il cui primo movimento si apre con un Adagio introduttivo di 29 battute piuttosto lungo, già per una sinfonia dell’epoca alla quale essa si accosta. In questo CD la Sonata è, però, accompagnata da pagine impegnative come l’Andante e 5 variazioni K. 501 e la Sonata in G KV 357, risalenti entrambi al 1786, nel quale la scrittura ammicca in modo molto più smaccato a un pubblico di esecutori dilettanti. Al 1791 risalgono, invece, le due Fantasie per organo meccanico K. 594 K. 608, due pagine di intensa drammaticità qui presentate in una versione per pianoforte a 4 mani circolante già all’epoca di Mozart. Queste pagine sono egregiamente eseguite da Marco Schiavo Sergio Marchegiani che riescono a rendere molto bene i valori espressivi di questi pezzi e mostrano un affiatamento tale da dare l’impressione di essere di fronte a un unico interprete anche nei brevi passi in imitazione tra il primo e il secondo che contraddistinguono la terza variazione.

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Brancaccio: “Prova a prendermi” dal 19 al 23 marzo 2025

Dom, 16/03/2025 - 16:04

Roma, Teatro Brancaccio
PROVA A PRENDERMI
basato sul film Dreamworks
libretto di Terrence McNally
musiche di Marc Shaiman
liriche di Scott Wittman & Marc Shaiman
con Claudio Castrogiovanni e Tommaso Cassissa
e con Simone Montedoro
regia di Piero Di Blasio
coreografie di Rita Pivano
scenografie di Lele Moreschi
costumi di Francesca Grossi
luci di Emanuele Agliati
produzione di Alessandro Longobardi per VIOLA PRODUZIONI – Centro di Produzione Teatrale
Dai Produttori di Aggiungi un Posto a Tavola e Rapunzel il musical arriva per la prima volta in Italia, PROVA A PRENDERMI IL MUSICAL, tratto dal film cult con Leonardo Di Caprio e Tom Hanks, con orchestra dal vivo. Il film PROVA A PRENDERMI del 2002 è stato campione di incassi superando i 350 milioni di dollari in tutto il mondo. Ha riunito star di primordine come Leonardo Di Caprio, Tom Hanks e Christopher Walken. Ha raccontato la storia vera di Frank Abagnale Junior e di come, negli anni ’60, riuscì a imbrogliare l’America (banche, compagnie aeree, ospedali, alberghi…) per crearsi il proprio sogno americano. Sotto la guida della vorticosa regia di Steven Spielberg, PROVA A PRENDERMI (Catch me if you can) ha stupito il mondo. Nel 2012, dopo quasi 10 anni e alcune preview, la storia di Frank Abagnale Junior approda a Broadway con Aaron Tveit, Norbert Leo Butz e Tom Wopat.
Il racconto del giovane truffatore, arrestato dall’Agente dell’FBI (e poi amico) Carl Hanratty, è stato preso e adattato per il teatro grazie alla maestria dei più illustri compositori e scrittori americani: Terence McNally (The Full Monty, Anastasia, Kiss of the Spider Woman e tanti altri) al libretto e Marc Shaiman e Scott Wittman (candidati agli Oscar e vincitori di Tony Awards, Grammy, Olvier Awards per Hairspray, Smash, Il Ritorno di Mary Poppins e tantissimi altri) per testi e musiche. Dopo repliche in tutto il mondo finalmente, per la prima volta, arriva nei teatri italiani! Alessandro Longobardi, per Viola Produzioni – Centro di Produzione Teatrale, è lieto di annunciare questa anteprima assoluta per l’Italia, in accordo con Music Theatre International. A dare voce e corpo ai divi del grande schermo, ci saranno CLAUDIO CASTROGIOVANNI che interpreterà Carl Hanratty (ruolo che fu al cinema di Tom Hanks), TOMMASO CASSISSA nel camaleontico ruolo di Frank Abagnale Junior (interpretato da Leonardo Di Caprio) e SIMONE MONTEDORO sarà il padre Frank Abagnale Senior (ruolo cesellato dal premio Oscar Christopher Walken). Claudio Castrogiovanni torna al musical, suo primo grande amore, senza mai abbandonare il cinema e le serie televisive tanto amate come Il capo dei capiVaninaLa SquadraIl giovane MontalbanoIl silenzio dell’AcquaUn medico in famiglia e tantissimi altri. Per Tommaso Cassissa, invece, è un debutto assoluto nel mondo del musical. La giovane star dei social (solo su TikTok, con il nome di @tommycassi, ha superato i 2 milioni e mezzo di follower!) non è stata certo ferma in questi anni tra cinema, libri e televisione, fino alla sua ultima partecipazione al programma cult LOL 5. Anche per SIMONE MONTEDORO siamo al debutto assoluto in un musical. Volto storico della tv italiana (per quasi dieci anni è stato il commissario Tommasi in una delle serie più amate della Rai “Don Matteo”) con incursioni anche nel mondo della danza (semifinalista di Ballando Con Le Stelle) e del canto (Tale e Quale show con Carlo Conti), ha dimostrato di sapersi muovere con grande abilità in tutte le sfaccettature del suo mestiere, dal teatro, che ha segnato l’inizio della sua carriera, al cinema, alla tv. L’adattamento e la regia dello spettacolo sono stati affidati a Piero Di Blasio (Tutti Parlano di JamieLa piccola Bottega degli Orrori e tanti altri); Rita Pivano (RapunzelSister ActPeter PanLa regina di ghiaccio e tanti altri) curerà le coreografie sulle musiche originali dei favolosi anni ’60 americani suonate dal vivo. La direzione musicale è nelle abili mani di un veterano del musical in Italia, il maestro Angelo Racz (Kinky BootsHairspraySpamalotLa febbre del sabato sera e tanti altri) che dirigerà dal vivo una splendida orchestra jazz/swing. Francesca Grossi (Rapunzel il musicalAggiungi un posto a tavolaTutti Parlano di Jamie il musicalLa regina di Ghiaccio il musical) disegna i meravigliosi costumi realizzati dalla sartoria Brancaccio. Le scenografie sono firmate da Gabriele Moreschi (Aggiungi un posto a tavolaSister Act il musicalE… se il tempo fosse un gamberoGrease e tanti altri). Qui per tutte le informazioni.

 

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Sior Todaro Brontolon” dal 18 al 23 marzo 2025

Dom, 16/03/2025 - 12:33

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
SIOR TODERO BRONTOLON
di Carlo Goldoni
drammaturgia Piermario Vescovo
Con Franco Branciaroli
e con Piergiorgio Fasolo, Alessandro Albertin, Maria Grazia Plos, Ester Galazzi, Riccardo Maranzana, Valentina Violo, Emanuele Fortunati, Andrea Germani, Roberta Colacino
in collaborazione con i Piccoli di Podrecca
scene Marta Crisolini Malatesta
costumi Stefano Nicolao
musiche Antonio Di Pofi
luci Gigi Saccomandi
movimenti di scena Monica Codena
regia Paolo Valerio
Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro de gli Incamminati, Centro Teatrale Bresciano
«Quale maggior disgrazia per un uomo, che rendersi l’odio del pubblico, il flagello della famiglia, il ridicolo della servitù? Eppure non è il mio Todero un carattere immaginario. Purtroppo vi sono al mondo di quelli che lo somigliano; e in tempo che rappresentavasi questa commedia, intesi nominare più e più originali, dai quali credevano ch’io lo avessi copiato». Anche oggi non è raro incappare in un “brontolòn” come il Todero di Carlo Goldoni che precedeva la commedia racchiudendo queste riflessioni ne “L’autore a chi legge” e si stupiva di come un lavoro incentrato su un personaggio tanto odioso e negativo potesse aver ricevuto dal pubblico un tale successo. “Sior Todero Brontolòn” scritta nel 1761 e presentata al Teatro San Luca di Venezia l’anno successivo, fu infatti accolta con molto calore, ripresa per 10 repliche a gennaio e poi nuovamente a febbraio, a ottobre… Sior Todero risponde – come carattere – al modello dei rusteghi, ma dei quattro burberi veneziani perde qualsiasi accento bonario. La trama lo vuole avaro, imperioso, irritante con la servitù, opprimente con il figlio e la nipote, diffidente e permaloso verso il mondo. Sembrerebbe impossibile empatizzare con una simile figura. Eppure il capolavoro di Goldoni – e la figura di Todero, scritta in modo magistrale – sono stati molto ambiti dai teatri e dai più grandi attori, da Cesco Baseggio, a Giulio Bosetti, a Gastone Moschin. Ora questo indifendibile “brontolòn” attira un maestro del palcoscenico contemporaneo come Franco Branciaroli, che – diretto da Paolo Valerio – ne offrirà una nuova straordinaria e inaspettata interpretazione. Dopo l’originale e dissacrante interpretazione di Shylock nel “Mercante di Venezia” shakespeariano, Paolo Valerio e Franco Branciaroli si apprestano a stupire il pubblico con la rilettura di un classico del teatro italiano, che molto ancora può suggerire alla sensibilità contemporanea. Basti pensare – a fronte di una figura di protagonista tanto imponente e attrattiva – al ruolo sottile e risolutivo che Goldoni affida, nella commedia, al mondo femminile, l’unico che nello sviluppo drammaturgico appare pienamente positivo: sarà l’alleanza fra la coraggiosa nuora del vecchio avaro e l’intelligente vedova Fortunata a salvare la giovane Zanetta da un matrimonio impostole per mero interesse e foriero di infelicità. Sarà riconsegnata all’amore generoso e vero in un finale che – in tempi in cui il concetto di “patriarcato” domina le nostre cronache nelle sue accezioni più distorte e plumbee – intreccia in prospettiva, alla gioiosità della risoluzione, una venatura di turbamento. Qui per tutte le informazioni.

 

Categorie: Musica corale

Le Cantate di Johann Sebastian Bach: “Durchlauchtster Leopold” BWV 173a

Dom, 16/03/2025 - 10:44

“Durchlauchtster Leopold” BWV 173a è una  cantata profana per il  compleanno per il principe Leopoldo di Anhalt-Köthen. Una composizione relativamente poco impegnativa, che ha portato alcuni a sospettare che sia stata composta piuttosto rapidamente già nel 1717, ma un esame più attento della partitura autografa indica che è stata ovviamente scritta qualche anno dopo, intorno al 1722. Su libretto di Anonimo, questa Cantata evidenzia la relativa irrilevanza che viene data ai recitativi (ne troviamo solo 2) La strumentazione prevede archi e continuo con l’aggiunta di flauti traversi e fagotto. L’utilizzo di due voci solistiche (possiamo anche supporre che il Coro fosse realmente cantato da questi due solisti). Forse Bach considerava un aspetto allegorico. Si può immaginare la parte del soprano sia  sorta di dea protettrice, una personificazione della fama o della poesia; La prima aria con “da capo” (nr. 2) ricorda un movimento  di danza, poiché ha un ritornello introduttivo chiaramente diviso in due ritmi. Il carattere estremamente accattivante della melodia, interrotto da pause e dominato da ritmi di terzine, nonché la delicata strumentazione confermano la bellezza di questa pagina. Particolarmente breve è il nr 3, che Bach ha intenzionalmente evitato di chiamare “aria”. Il  tempo “vivace” e l’irrequietezza degli archi di accompagnamento caratterizzano l’entusiasmo con cui si sta diffondendo la fama di Leopold. Il duetto (Nr. 4), contrassegnato “Al tempo di minuetto”, è una delle arie più originali di Bach Il recitativo del duetto (nr. 5),  assume la forma di un arioso, nel corso del quale i sospiri riverenti che salgono al cielo sono resi pittoricamente nella musica da figure di scale. L’aria nr.. 6  del soprano ha ancora un carattere di danza (“bourrée”)come nelle arie precedenti. Nell’aria  nr. 7,  al fianco della  voce del basso, con il “Continuo” costituito da violone e clavicembalo, spiccano il fagotto e il  violoncello che suonano all’unisono. Un tempo di “polonaise” ,  un altro movimento di danza chiude la Cantata. 
Nr.1 – Recitativo
(Soprano)
Serenissimo Leopoldo,
il mondo di Anhalt  con gioia di celebrare,
la tua Köthen si presenta a te,
si inchina davanti a te,
Serenissimo Leopoldo!
Nr.2 – Aria (Soprano)
Il sole e il cielo sereno,
si sono nuovamente riunite
e diffondono la sua gloria!
Nr.3 – Arioso (Basso)
Quello che eccelle in Leopoldo
è celebrato ogni momento;
la bocca e il cuore,
l’orecchio e l’occhio cantano e con ragione
la sua fortuna.
Nr.4 – Aria/Duetto (Basso, Soprano)
Basso
Sotto il suo stemma di porpora
dopo la sofferenza ora c’è la gioia,
Egli elargisce a tutti ampio spazio
per godere dei doni di grazia
che scorrono come ricchi fiumi.
Soprano
Con paternità nutre e scongiura le sofferenze;
ora è viva la speranza  che lui riporti
la terra di Anhalts a vivere nella felicità.
Soprano, Basso
Ma non ci lasceremo sfuggire
il dovere di pensare a questa gioia,
oggi che la luce del cielo rende felici
i suoi servi e gioisce  del suo scettro.
Nr.5 – Recitativo (Soprano, Basso)
Illustrissimo, che Anhalt chiama padre,
porteremo allora i nostri cuori anche  al sacrificio;
dal nostro petto, che arde di devozione,
con il nostro fervore che sale al cielo,
Nr.6 – Aria (Soprano)
Guardate dunque la luce
di questo bel giorno e per molti
altri a venire,
e come ora ci accompagna
il benessere e la felicità,
la luce che darà la forza
anche quando ritornerà il dolore.
Nr.7 – Aria (Basso)
Il tuo nome  è vicino al Sole,
circondato dalle stelle!
Leopoldo farà risplendere le terre di Anhalt
di gloria principesca.
Nr.8 – Coro/ Duetto (Soprano, Basso)
Anche noi ti onoriamo, grande principe,
per quello che ci elargisci;
sia felice corso della corso di vita,
che sia una benedizione sul capo del tuo popolo!

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Durchlauchtster Leopold” BWV 137a

 

Categorie: Musica corale

Roma, Museo della Fanteria: “Frida Kahlo: through the lens of Nickolas Muray”

Sab, 15/03/2025 - 18:29

Roma, Museo Storico della Fanteria
FRIDA KAHLO: THROUGH THE LENS OF NICKOLAS MURAY
Curatori: Touring Exhibitions Organization e Museo Frida Kahlo di Città del Messico
Mostra prodotta da: Next Exhibition e ONO arte contemporanea
Fotografo: Nickolas Muray
Roma, 15 marzo 2025
Ci sono volti che sembrano parlare, anche quando tacciono. Volti che conservano un silenzio pieno di storie, come una lettera mai spedita o una finestra socchiusa sul cortile interno di una casa messicana. Frida Kahlo aveva un volto così: severo e gentile al tempo stesso, fragile ma indomito, scavato da un dolore che sembrava riscriverle i lineamenti e allo stesso tempo illuminarli. Guardarla era un po’ come guardarsi dentro. C’è qualcosa di molto umano, di molto prossimo, in quel suo sguardo diritto e limpido, che pare sempre cercare qualcuno. Passeggiando tra le fotografie esposte nella mostra Frida Kahlo: through the lens of Nickolas Muray, si ha la sensazione di entrare in un tempo altro, fatto di colori caldi e ombre dolci, di risate smorzate e parole tenute in sospeso. La mostra, che si terrà a Roma, al Museo Storico della Fanteria, dal 15 marzo al 20 luglio 2025, raccoglie sessanta fotografie che raccontano il rapporto tra due persone che si sono volute bene. Prima che il mito di Frida si gonfiasse fino a diventare un’immagine onnipresente, c’era la donna. E davanti a quella donna, con una macchina fotografica tra le mani, c’era Nickolas Muray. Era arrivato a New York con pochi soldi in tasca e un sogno ostinato: diventare qualcuno. E forse non sapeva nemmeno bene cosa volesse dire “diventare qualcuno”. Nato in Ungheria, a Seghedino, nel 1892, Muray era un uomo di determinazione e passione. Lavorò come incisore, fu anche schermidore olimpionico, ma la sua strada era la fotografia. Sapeva guardare, prima ancora di saper scattare. E questa, credo, sia la qualità che fa la differenza. Ci sono persone che sanno vedere. Non solo guardare, ma vedere. E lui vide Frida, in un giorno del 1931, nella casa azzurra di Coyoacán, e non smise più di vederla, anche quando la loro storia d’amore finì. La storia fra loro cominciò piano, come accade con le cose che restano a lungo. Si conobbero grazie a un amico comune, Miguel Covarrubias, artista e intellettuale che li mise in contatto. Frida all’epoca era la giovane moglie di Diego Rivera, ancora poco conosciuta fuori dal Messico. Nick, che già collaborava con Harper’s Bazaar e Vanity Fair, vide qualcosa in lei che andava oltre l’apparenza. Una bellezza non convenzionale, certo, ma anche una forza che sembrava provenire da un altro tempo. Frida gli scrisse una lettera subito dopo il loro incontro, con parole dolcissime: “Nick, I love you like I would love an angel.” E in quelle parole si coglie una fame d’amore che commuove. Era una donna che aveva sofferto molto, eppure sapeva ancora desiderare con la semplicità di una ragazza. Nick e Frida si amarono per dieci anni. Si scrissero lettere, si cercarono tra Messico e Stati Uniti. Ma più che raccontare la cronaca di un amore, queste fotografie parlano della comprensione reciproca tra due persone che si sono accolte per quello che erano. Non c’è forzatura nelle immagini che Muray scattò a Frida tra il 1937 e il 1946. Sono fotografie piene di silenzio, di confidenza. Frida è vestita con i suoi abiti tradizionali tehuana, i capelli raccolti in corone fiorite, i gioielli pesanti di corallo e d’argento. È consapevole di essere osservata, ma non è intimidita. È come se dicesse: “Sì, questo sono io. Guarda pure.” E lui la guarda con rispetto, senza mai tradire l’intimità che la lega a lui. Muray fu un pioniere della fotografia a colori. In quegli anni, pochi si avventuravano nel campo del colore con la sicurezza che ebbe lui. Eppure, guardando queste fotografie, si capisce quanto il colore fosse necessario per raccontare Frida. I rossi accesi delle sue gonne, i verdi profondi dei muri alle sue spalle, il blu del cielo che si intravede dietro di lei—tutto parla di vita, nonostante il dolore. Frida aveva un rapporto intenso con il proprio corpo, che era stato segnato dall’incidente subito da ragazza e dalle continue operazioni. Eppure, sapeva ornarsi, trasformare la sofferenza in qualcosa di forte e bello. Nickolas Muray colse questo aspetto senza mai scivolare nel pietismo. Non c’è compassione nei suoi scatti. C’è ammirazione. Molte di queste fotografie sono oggi considerate iconiche. Rappresentano Frida Kahlo come la conosciamo: una figura che si staglia fiera contro fondali vibranti di colore, con uno sguardo serio e pieno di consapevolezza. Eppure, dietro quell’immagine diventata popolare, si avverte ancora una donna reale. Muray ci ha regalato un ritratto in cui l’intimità e la dignità si fondono. Guardando questi scatti, si ha la sensazione di avvicinarsi a Frida non come simbolo, ma come persona. Certo, Frida Kahlo era già un’artista consapevole del proprio potere iconico. Nei suoi autoritratti si mise in scena come un’araldica, cucendo nella sua immagine elementi della tradizione messicana, della sofferenza fisica e dell’identità femminile. Ma nelle fotografie di Muray c’è qualcosa di diverso. Non è lei a scegliere come mostrarsi: è lui a guardarla e a restituire quello che vede. Non c’è manipolazione, non c’è posa forzata. C’è una donna che si lascia vedere da un uomo che ha saputo amarla e rispettarla. Alla fine della mostra, si esce con una sensazione dolceamara. Le immagini sono ferme, non possono cambiare, eppure raccontano un tempo in cui tutto era in divenire. Frida Kahlo sarebbe diventata un’icona globale; Muray avrebbe continuato a fotografare altri volti, altre storie. Eppure, in quelle fotografie, si conserva un tempo sospeso, in cui due persone si sono trovate e riconosciute. A me piace pensare che le fotografie siano un modo per trattenere le persone, per dire loro: “Rimani ancora un po’”. Nickolas Muray, con la sua Leica e la sua Rolleiflex, ha fermato Frida Kahlo nel tempo, ma non l’ha mai imprigionata. Ha permesso che continuasse a guardarci, così come guardava lui. Con lo stesso sguardo diretto, fiero e umano.

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Venezia, Teatro Malibran: “Il trionfo dell’onore” di Alessandro Scarlatti

Sab, 15/03/2025 - 00:03

Venezia, Teatro Malibran, Lirica e Balletto, Stagione 2024-2025 del Teatro La Fenice
IL TRIONFO DELL’ONORE”
Commedia posta in musica in tre atti Libretto di Francesco Antonio Tullio
Musica di Alessandro Scarlatti
Revisione del manoscritto originale a cura di Aaron Carpenè
Riccardo Albenori GIULIA BOLCATO
Leonora Dorini ROSA BOVE
Erminio Dorini RAFFAELE PE
Doralice Rossetti FRANCESCA LOMBARDI MAZZULLI
Flaminio Castravacca DAVE MONACO
Cornelia Buffacci LUCA CERVONI
Rosina Caruccia GIUSEPPINA BRIDELLI
Capitano Rodimarte Bombarda TOMMASO BAREA
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Enrico Onofri
Regia Stefano Vizioli
Scene e costumi Ugo Nespolo
Costumista realizzatore Carlos Tieppo
Light designer Nevio Cavina
Venezia, 11 marzo 2025
Nel trecentesimo anniversario della morte di Alessandro Scarlatti, debutta a Venezia Il trionfo dell’onore, l’unica “commedia posta in musica” dal sommo musicista di Palermo, insigne rappresentante della Scuola napoletana. Gli spettatori, che assistettero alla prima assoluta dell’opera, il 26 novembre del 1718, presso il Teatro dei Fiorentini in Napoli, salutarono con entusiasmo questo capolavoro, che pure li metteva di fronte a tanti aspetti nuovi: l’utilizzo dell’italiano invece del dialetto; la dovizia di pezzi d’insieme anziché la solita ininterrotta successione di arie; la cura nel definire i caratteri e gli affetti; la presenza di personaggi tutt’altro che aristocratici o eroici, che preannunciava l’imminente affermazione sociale della borghesia. Il pregevole libretto confezionato dall’esperto Francesco Antonio Tullio – che prevede otto personaggi, partecipanti a un funambolico gioco di coppie – permise a Scarlatti di spaziare, dimostrando un estroso humor musicale, tra forme e stili diversi, nell’intento di rinnovare il genere buffo e, verosimilmente, fare anche la parodia dell’opera seria con evidente au­toironia. La regia di Stefano Vizioli si basa su un giusto equilibrio tra verosimiglianza e fantasia, grazie anche all’accattivante apparato scenico progettato dal pop artist Ugo Nespolo: una scenografia abbastanza tradizionale, che utilizza fondali, quinte, siparietti, ma che sa essere anche originale ed estroversa, basti considerare il suo acceso cromatismo. Vi campeggiano le raffigurazioni – di stampo vagamente naïf – di vari animali: il gufo, la gallina, il pavone, il cigno, le oche, altrettante allusioni ai caratteri dei personaggi. Alla fantasia di Nespolo si devono anche i costumi – colorati ed estrosi –, realizzati da Carlos Tieppo. Libertà e inventiva si sono colte anche nei movimenti scenici talora con risvolti erotici, nel continuo gioco di seduzione che impegna i personaggi. Questi sono suddivisi in quattro coppie (Riccardo e Leonora, Erminio e Doralice, Flaminio e Cornelia, Rodimarte e Rosina), ma alcuni di essi sono sempre pronti al tradimento. Almeno prima dell’improbabile, edificante finalino. Vizioli nella sua messinscena, pone in risalto il legame fra Il trionfo dell’onore e il mozartiano Don Giovanni. Nell’opera di Scarlatti, il “dissoluto” è Riccardo, privo però dell’alone satanico che circonda l’eroe mozartiano. Ma ci sono altre analogie – secondo il regista napoletano – rispetto al capolavoro di Mozart e Da Ponte: Leonora, sedotta e abbandonata da Riccardo, è una specie di donna Elvira, il fratello di lei Erminio un don Ottavio, tutto legalità e senso della giustizia, il fanfarone capitano Rodimarte, che accompagna Riccardo nelle sue avventure, somiglia a Leporello. Vizioli riesce a evidenziare la psicologia dei personaggi “seri” (Riccardo, Leonora, Erminio) così come rende irresistibili le figure stereotipate: oltre a Rodimarte, il vecchio scapolo impenitente Flaminio, che assedia in modo ossessivo la servetta Rosina, o l’anziana Cornelia con le sue smanie erotiche, affidata alla voce di tenore. Eccellente il livello degli interpreti vocali. Il soprano Giulia Bolcato – un Riccardo Albenori anticonformista in giubbotto e pantaloni rossi – ha sfoggiato una voce omogenea e corposa, oltre che adeguata presenza scenica nel delineare la figura di Riccardo da seduttore incallito (“È ben far come l’ape”) a seduttore pentito (“Ricevi il mio core / non più mancatore”). Analogamente autorevole la prova del mezzosoprano Rosa Bove – in un corto vestito azzurro –, che ha saputo rendere il patetismo autentico di Leonora fin dalla prima aria, “Mio destin fiero e spietato”, quasi interrotta per un eccesso di commozione, come nelle successive (“Sospirando, penosa, dolente” e “Ne vuoi più, mia fiera sorte?”). Si è positivamente segnalato anche il controtenore Raffale Pe nei panni – giaccone e collana – di un anticonformista Erminio, che medita di vendicare la sorella Leonora (“Daranno al petto / ira e furore”) e l’amata Doralice (“Per quell’impuro indegno”). Ingenua e capricciosa la Doralice – di verde vestita – offerta dal soprano Francesca Lombardi Mazzulli. Ottima la prestazione del tenore Dave Monaco, in redingote verde, che ha ben caratterizzato il vecchio Flaminio, caricatura dello scapolo attempato che si crede ancora un Ganimede (“Con quegli occhi ladroncelli”). Assolutamente irresistibile, per vocalità e presenza scenica, il tenore Luca Cervoni, che ha interpretato – con la verve di Michael Aspinall e di Paolo Poli – un’estroversa Cornelia in vestaglia da camera. Altrettanto travolgente la Rosina delineata dal mezzosoprano Giuseppina Bridelli nei classici panni da cameriera: quintessenza dell’astuzia femminile (“Il farsi sposa”) ma anche disposta alla tenerezza (“Avete nel volto”). Le ha pienamente corrisposto il Rodimarte del basso-baritono Tommaso Barea – costume azzurro con pantaloni alla turca e tricorno che ha sfoggiato una voce ben timbrata e una forte presenza scenica, brillando in “Quando ruoto feroce il mio brando”, grottesca imitazione dell’aria di tipo eroico, con una lunga coloratura, in corrispondenza della parola “espugnando”, e un’aria di portamento nel Lento centrale. Duttile e scattante l’Orchestra del Teatro La Fenice ha assecondato il gesto direttoriale di Enrico Onofri, che con mano sicura quanto delicata ha ottenuto un suono cristallino e scandito dei tempi alquanto serrati. Il maestro ravennate ha guidato strumenti e voci, affrontando da par suo la scrittura estremamente varia ed elegante con cui Scarlatti esprime ogni gesto, ogni affetto, e in particolare coniugando il rigore del contrappunto all’espressività del canto. Successo travolgente senza “se” e senza “ma”.

 

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Milano, Teatro Carcano: “Lo zoo di vetro”

Ven, 14/03/2025 - 14:37

Milano, Teatro Carcano, Stagione 2024/25
LO ZOO DI VETRO”
di Tennessee Williams traduzione di Gerardo Guerrieri
Amanda Wingfield MARIANGELA D’ABBRACCIO
Tom Wingfield GABRIELE ANAGNI
Laura Wingfield ELISABETTA MIRRA
Jim O’Connor PAVEL ZELINSKIY
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Musiche originali Stefano Mainetti
Light designer Pietro Sperduti
Produzione Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale e Best Live srl
Milano, 8 marzo 2025
Pier Luigi Pizzi ha deciso di rileggere, in questi anni, l’opera di Tennessee Williams, e ci propone quest’anno “Lo zoo di vetro“, sempre con protagonista Mariangela D’abbraccio, che in questo repertorio, in effetti, trova un po’ la sua dimensione: qui è, naturalmente, Amanda Wingfield, la garrula e onnipresente madre dei giovani Tom e Laura, un personaggio sicuramente nelle corde della D’abbraccio, che può mettervi tutta la maniera dell’attrice navigata, l’intensità, ma anche i vezzi, supportata da una fisicità ancora piacente e della nota vocalità calda e pastosa. Insomma, con questo ciclo williamsiano la abbraccio cerca quella che solitamente viene chiamata “consacrazione”, e probabilmente la otterrà, dato il grande impegno che negli ultimi trent’anni ha profuso sulle scene italiane. Tuttavia, la carica che ripone nella sua interpretazione rischia di mettere in ombra quelle dei suoi colleghi, specie dei più giovani e/o inesperti: questo “Zoo di vetro“, ad esempio, vede nella parte di Laura un’attrice – Elisabetta Mirra – troppo al di sotto della collega, potremmo dire a malapena accettabile nella sua performance, che non conosce toni, carattere, profondità; è evidente che incorra in un errore, ovvero che confonda il carattere del personaggio (una ragazza drammaticamente asociale, al principio di diverse turbe psichiche, modellata da Williams sul ricordo della sorella in manicomio), con il carattere dell’interprete, cioè la sua capacità di comunicarci questa incapacità di comunicare, di imitarla in modo da renderla evidente, e potervi costruire sopra una specifica personalità. Nella stessa trappola rischia di cadere anche Pavel Zelinskiy, un Jim O’Connor forse un po’ troppo disinvolto e facilone, quando anche questo personaggio meriterebbe una più attenta di esamina, soprattutto in relazione al suo passato rapporto con Laura. Tiene testa alla madre, ma anche all’attrice, invece, Gabriele Anagni, nei panni di Tom, che pur con qualche prudenza di troppo sul piano espressivo risulta comunque ben interpretato, merito anche di una fisicità e una vocalità molto gradevoli. Alle solite scene bianche à la Pizzi, qui si sostituisce un legno chiaro dall’evidente sapore rétro, che rende perfettamente la piccolezza, l’ordinarietà della dimensione familiare e umana degli Wingfield, oltre alla povertà di un interno che sembra incompiuto, con legno vivo ovunque. Le dinamiche tra personaggi si muovono su un binario tradizionale, molto già visto, ma comunque di risultato apprezzabile. Il ritmo a volte latita e cede il passo alla didascalia, ma, trattandosi di Pizzi, non potremmo aspettarci diversamente; tuttavia, almeno in questo “Zoo di vetro” occhieggiano almeno alcune scene conturbanti, soprattutto legati ai rapporti familiari dai toni nemmeno troppo occultamente malati. Forse ci saremmo aspettati più coraggio dall’insieme della produzione, ma, in fondo, sono altri gli artisti dai quali pretendere ancora qualcosa, non certo un vero Maestro del XX secolo, miracolosamente ancora così lucido e attivo nel XXI. Dunque, bene così.

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Roma, Teatro Vascello: “Moby Dick alla prova”

Gio, 13/03/2025 - 23:59

Roma, Teatro Vascello
MOBY DICK ALLA PROVA
di Orson Welles
adattato – prevalentemente in versi sciolti – dal romanzo di Herman Melville
con Elio De Capitani
e Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa, Mario Arcari
traduzione Cristina Viti
uno spettacolo di Elio De Capitani
costumi Ferdinando Bruni
musiche dal vivo Mario Arcari
direzione del coro Francesca Breschi
maschere Marco Bonadei
luci Michele Ceglia
suono Gianfranco Turco
coproduzione Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Roma, 13 marzo 2025
C’è qualcosa di ipnotico, di ineluttabile, in “Moby Dick alla prova” di Elio De Capitani. Uno spettacolo che si insinua nella mente e nella carne, proprio come la disperata caccia alla balena bianca che da più di un secolo e mezzo continua a tormentarci. Andare a teatro e lasciarsi travolgere da quest’opera è un’esperienza che oscilla tra il naufragio e l’estasi. Debuttato all’Elfo Puccini di Milano, il lavoro di De Capitani prende le mosse dall’adattamento scritto nel 1955 da Orson Welles. Un testo inedito in Italia, che si fa materia viva nelle mani del regista e attore, restituendo tutta la grandezza della tragedia di Achab con una sintesi folgorante del capolavoro di Melville. Ora in scena al Teatro Vascello di Roma, lo spettacolo si riempie di tensione fin dalle prime battute: non ci sono mare aperto, navi o balene in carne ed ossa, ma solo attori che, con la forza della parola e del gesto, costruiscono un universo teatrale che ingloba il pubblico. Il cuore dello spettacolo è proprio Achab, interpretato da un magistrale Elio De Capitani, che ne fa un monolite d’ossessione e ferocia. La sua voce si impasta con l’aria, scandendo parole che risuonano come condanne. Il parallelismo con il “Re Lear” è esplicito: Achab, come il vecchio re shakespeariano, è divorato dalla sua stessa furia, ma se Lear trova una redenzione finale, il capitano del Pequod si inabissa nel suo delirio di onnipotenza. Il suo Achab non è un semplice capitano ossessionato dalla vendetta: è la personificazione di un potere che divora tutto ciò che lo circonda, perfino se stesso. La messa in scena è essenziale, eppure potentissima. Il fondale è una superficie cangiante, quasi impalpabile, che suggerisce l’immensità dell’oceano e il respiro della bestia. Ma la vera meraviglia è la balena stessa: un’apparizione evocata con un semplice trucco teatrale che, nel momento clou dello spettacolo, si materializza in una visione che gela il sangue. Non servono effetti speciali per rendere Moby Dick una presenza reale: basta il teatro, nella sua forma più pura e magica. Il cast è straordinario, capace di tenere il ritmo di un’opera che gioca su diversi livelli di narrazione e simbolismo. Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana e Vincenzo Zampa creano un intreccio sonoro e fisico che amplifica il senso di viaggio e di abisso. La musica dal vivo di Mario Arcari e i canti curati da Francesca Breschi – rielaborazioni dei tradizionali sea shanties – aggiungono una dimensione quasi rituale, rendendo il Pequod una nave che solca le acque del tempo e della memoria. Welles, con il suo testo, aveva già gettato un ponte tra Melville e Shakespeare, ma De Capitani spinge ancora oltre, facendo vibrare le parole di una modernità inquietante. Perché Achab non è solo il capitano di un veliero ottocentesco: è l’incarnazione di un vitalismo distruttivo, di quella parte dell’umanità che corre a capofitto verso il disastro, incurante delle conseguenze. La Pequod si inabissa, la sesta estinzione di massa avanza, il riscaldamento globale incombe. E noi? Siamo forse gli uomini dell’equipaggio, sottomessi alla volontà del comandante, incapaci di opporci a una rotta che sappiamo già essere mortale? “Moby Dick alla prova” non è solo teatro. È una ferita aperta, un monito, un’esperienza che non si dimentica. De Capitani e il Teatro Vascello consegnano al pubblico un’opera che scuote e fa tremare, in cui la parola si fa tempesta e la scena diventa oceano. Uno spettacolo totale, che dimostra – ancora una volta – come il teatro sia il luogo dove l’invisibile prende forma, e la bellezza può ancora lasciarci senza fiato. Photocredit Marcella Foccardi

 

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Roma, Accademia Italiana: Intervista a Gemma Gulisano

Gio, 13/03/2025 - 12:40

Roma, Accademia Italiana
“Look at me, I am the sun!”
a cura di Gemma Gulisano
Dal 14 marzo all’11 aprile 2025
Abbiamo intervistato la curatrice, Gemma Gulisano, per scoprire di più sulla mostra romana all’Accademia Italiana, dedicata all’artista pesarese Armadilly – al secolo Camilla Cesarini – dal titolo “Look at me, I am the sun”, che esplora l’identità digitale, la visibilità sui social e la cultura della performance visiva.
Come nasce l’idea di questa mostra?
Collaboro con Armadilly da quattro anni e il nostro rapporto, professionale e personale, è cresciuto in sintonia. Questa mostra segna un momento di maturità per entrambe: da un lato, la consapevolezza e l’evoluzione della sua ricerca artistica, dall’altro la mia crescita come curatrice. Il progetto nasce da un percorso condiviso, che consideriamo parte di un’evoluzione continua.
Perché avete deciso di dare questo titolo: “Look at me, I am the sun!”?
Il titolo “Look at me, I am the sun!”, scelto da Armadilly, prende spunto da una lettura dei tarocchi in cui le fu detto: “Tu sei il sole per lui”. Un episodio personale che riflette il desiderio universale di visibilità e approvazione, ma anche l’ironia che caratterizza il linguaggio dell’artista. Il titolo incarna il conflitto tra ciò che siamo e ciò che aspiriamo a essere, tema centrale nelle sue opere.
Il sole. Che significato ha per te?
Il sole è un elemento indispensabile nella mia visione esistenziale. Le giornate di sole, come immagino per la maggior parte degli individui, mi regalano un’energia speciale, una carica diversa. Il sole restituisce l’immagine  della persona solare che cerco di essere, nel tentativo di vivere la giornata sempre al meglio, con la massima carica positiva, anche quando i problemi non mancano mai. La consapevolezza di quanto sia preziosa la nostra esistenza, mi spinge a considerare ogni giornata come fosse l’unica che mi sia concessa di vivere, trasformandola in un’opera d’arte.
Come curatrice di questa mostra, come hai concepito il progetto espositivo?
Il progetto espositivo è stato concepito con grande sinergia tra me e Armadilly. Abbiamo sviluppato insieme un allestimento che fosse più dinamico e meno formale rispetto a quelli presentati in precedenza, in modo da rispecchiare l’evoluzione del nostro rapporto e dei nostri rispettivi lavori. L’allestimento è stato concepito per restituire un senso di fluidità, proprio come le relazioni sentimentali nella contemporaneità. La mostra affronta la natura sempre più effimera nell’era digitale, dove le dating app e le interazioni virtuali influiscono profondamente sul nostro modo di vivere i sentimenti e le connessioni. Le relazioni sentimentali viziate dall’artificio social e compromesse dall’individualismo che sfocia nella disgregazione sociale in atto, riflettono la condizione del “sempre più finti e sempre più soli”.
Qual è l’opera in mostra che meglio rappresenta il conflitto tra realtà e finzione nell’era della visibilità online?
My Room è un’installazione che ricostruisce in modo minuzioso la cameretta dell’adolescenza di Armadilly, alias Camilla Cesarini. Ogni dettaglio – dal PC con il tasto rotto agli adesivi, dai poster agli oggetti personali – racconta frammenti di un passato che oscilla tra fedeltà e reinvenzione. Alcuni elementi sono riprodotti con precisione, altri sono filtrati da una visione idealizzata. L’opera mette in scena il conflitto tra realtà e finzione, tema ricorrente nella ricerca dell’artista. My Room diventa così il simbolo di una crescita personale: la Camilla adolescente cede il passo ad Armadilly, che rilegge il proprio vissuto alla luce del desiderio di essere “all’altezza”, inseguendo modelli e aspettative imposte dalla società. Il confine tra autenticità e costruzione si fa sottile, rivelando una riflessione più ampia sull’immagine che proiettiamo di noi stessi, soprattutto nell’universo digitale.
In che modo l’arte di Armadilly affronta il tema delle relazioni sentimentali nell’era digitale?
La mostra indaga l’impatto del digitale sulle relazioni sentimentali, evidenziando come l’uso di app di incontri e social media finisca per alterare la percezione di sé e degli altri. L’artista racconta di rappresentare spesso adolescenti annoiate che si espongono sui social, ma anche sé stessa, il proprio corpo e lo sguardo che vorrebbe ricevere dagli altri. Al centro c’è la tensione tra realtà e apparenza: i rapporti umani si fanno fragili, condizionati dall’individualismo e dall’ossessione per l’immagine, fino a sfociare in un senso di solitudine diffusa. I profili social diventano vetrine di versioni idealizzate, maschere che nascondono la verità, riflettendosi inevitabilmente sulle dinamiche affettive, dominate dal bisogno di approvazione.
Qual è il lavoro più pop di Armadilly?
Probabilmente il lavoro più pop di Armadilly è proprio quello che manifesta il legame tra l’artista e il mondo della moda. Si tratta dell’opera “Depressed but well dressed”(2021), l’arazzo mostra un’adolescente ben vestita che ignora il fatto che sia depressa, che importa? L’importante è avere un outfit cool. Questo lavoro è nato all’inizio della nostra collaborazione, circa quattro anni fa, ed è stato uno dei primi arazzi che Armadilly ha realizzato. Il soggetto dell’opera è ispirato agli “stickers” che l’artista disseminava in giro. In questa creazione, l’adolescente è vestita con un outfit bellissimo, tratto dai suoi studi su capi e collezioni Gucci degli anni ’60-’70.
Cosa sperate che il pubblico porti con sé dopo aver visitato la mostra?
Non vogliamo lanciare messaggi, specie univoci. Sono convinta che l’arte non debba imporre risposte definitive, ma debba stimolare nuovi spunti di riflessione, generare nuovi interrogativi. Una singola opera, tanto quanto un più esteso progetto espositivo,  non mira a fornire soluzioni, ma acquisisce senso quando è capace di toccare tematiche attuali, diffuse, condivise scatenando le riflessioni del pubblico che partecipa all’esperienza espositiva.
Se “Look at me, I am the sun!” fosse una canzone, quale sarebbe?
“Ti voglio” di Ornella Vanoni, suggerirebbe l’artista.
Identità, social media e autostima: ieri e oggi…
Oggi più che mai, identità e autostima sono messe alla prova dai social media, che amplificano il divario tra ciò che siamo e l’immagine che vogliamo mostrare, alimentando il bisogno di approvazione, soprattutto tra i giovani.
Se dovessi descrivere l’arte di Armadilly con un aggettivo, quale sarebbe?
Se dovessi descrivere l’arte di Armadilly con una parola, sarebbe Pink: un colore che riflette perfettamente la sua poetica e la sua personalità.

 

Categorie: Musica corale

Genova, Teatro Carlo Felice: “Falstaff”

Mer, 12/03/2025 - 16:37

Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione 2024-2025
“FALSTAFF
Commedia lirica in tre atti su libretto di Arrigo Boito da Shakespeare
Musica di Giuseppe Verdi
Sir John Falstaff AMBROGIO MAESTRI
Ford ERNESTO PETTI
Fenton GALEANO SALAS
Dott. Cajus BLAGOJ NACOSKI
Bardolfo ORONZO D’URSO
Pistola LUCIANO LEONI
Mrs Alice Ford ERIKA GRIMALDI
Nannetta CATERINA SALA
Mrs Quickly SARA MINGARDO
Mrs Meg Page PAOLA GARDINA
Orchestra, Coro e Tecnici dell’Opera Carlo Felice di Genova Balletto Fondazione Formazione Danza e Spettacolo “For Dance”ETS
Maestro concertatore e direttore Jordi Bernàcer
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Regia Damiano Michieletto ripresa da Andrea Bernard
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Video Rocafilm Filmproduktion
Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova.
Genova, 9 marzo 2025.
Ancor prima che si alzi il sipario domina, sullo schermo che chiude il palcoscenico, un live della grande e nota facciata della Casa di Riposo che Verdi ha voluto donare ai musicisti e alla città di Milano. L’immagine sfuma poi sull’ampio soggiorno della casa in cui il notissimo ritratto del Maestro occhieggia sia il divano damascato, ricovero del sonnacchiante Falstaff, che i tavolini da gioco degli altri ospiti e l’andirivieni di carrelli vivande e OSS indaffarati. Dallo sfondo si diffonde il suono di un pianoforte solitario che accenna le più note hits verdiane. L’ambiente, assai mesto e rattristante per un pubblico non più giovane, viene sconvolto di netto dai frastornanti accordi iniziali dell’orchestra, uniti alla contemporanea arrembante irruzione, attraverso le alte finestre, di tutti i personaggi dell’opera. Il clima di sonno-veglia, sogno-realtà, che è la cifra dominante dell’intero spettacolo, viene così perentoriamente imposto dalla geniale regia di Damiano Michieletto, qui fedelmente ripresa da Andrea Bernard. Frutto di pura visione poetica è poi la scena di Paolo Fantin che le luci di Alessandro Carletti tinge di fantastico, mentre i costumi contrastanti di Carla Teti costringono a una prosaica quotidianità. Lo spettacolo, nato a Salisburgo (2013) e poi ripreso a Milano, ha tuttora mantenuto la dirompente carica innovativa delle sue origini. La sfumatura prevalentemente malinconica e l’incertezza dei confini del sogno sono le tinte che permeano la recita. Su tutti gli attori, che in complesso recitano magnificamente, emerge l’inossidabile eccellenza di Ambrogio Maestri, ancora ineguagliabile protagonista. I fiati non son più quelli e le frasi, a tratti, soffrono di qualche esitazione ma l’indignazione dell’Onore, da rinfacciare alla plebaglia, continua a squillare prepotente. Ormai reticente ai trasporti d’amore, li tiene inudibili in sott’ordine, efficacemente bisbigliati. Il Quand’ero paggio lo dà, senza rimpianti, come una turbativa nei ricordi, ormai cassata definitivamente sia dal possibile che dal probabile. Falstaff, che sonnecchia in continuo, pare assediato da incubi e delusioni che lo rendono eroe solitario, senza interlocutori. Tutti gli altri si agitano ma rimangono comparse di un sonno turbato. Ford, grezzo omuncolo di poco spessore, così lo considera anche la moglie, viene magistralmente impersonato da un giovanile e fresco Ernesto Petti, che peraltro, un po’ troppo volentieri, si allinea alle vocianti e troppo sonore sfuriate di Sir John e dei Bardolfo/Pistola di turno. Erika Grimaldi trova in Alice uno dei suoi personaggi d’elezione, vi esprime, senza remore, l’innato e ben coltivato lirismo asprigno, tipico della sua controllatissima vocalità. Le ben sonore e timbrate reverenze di Sara Mingardo non si faranno facilmente dimenticare come, checché ne dica il Sir, la sua arguzia ben articolata con una dizione e un fraseggio raffinatissimo e provetto, da manuale di recitazione. La Meg di Paola Gardina disbriga con perizia e classe i suoi, seppur ridotti, interventi solistici ed è efficacissima nei numerosissimi insiemi previsti da quest’opera tutta costruita con iperbolici concertati, quasi una sfida che Verdi lancia al Wagner dei Meistersinger, tanto esaltato nella Milano scapigliata del tempo. Sono certamente frutto di un’assai meticolosa preparazione attoriale, unita ad una corrispondente accuratezza musicale, le apprezzabilissime prestazioni dell’irresistibile Blagoj Nacoski, Dottor Cajus, e della coppia buffa Bardolfo e Pistola, rispettivamente Oronzo D’Urso e Luciano Leoni. Fuori dalla mischia e librati nei cieli della loro passione, frutto di un puro fantastico sogno, l’eccellente coppia Fenton-Nannetta a cui Verdi dà, eccezionalmente, solo affetto e simpatia. Belli il timbro e la grazia del porgere di Galeano Salas, giovane e promettente tenore di grazia messicano. Risolutezza e sicurezza sono sfoggiate con perentoria vocalità dall’eccellente Caterina Sala nei panni di Nannetta. Altrettanto significative le magiche filature, al limite dell’udibile, del fil d’un soffio etesio (sic!). Di lei, il palcoscenico e la platea, a termine recita, hanno festeggiato, oltre al successo personale, il concomitante compleanno. Nel breve atto finale si è pure visto agire con proprietà, nella carola delle fate, il corpo di ballo della Fondazione “For Dance” ETS e si è udito l’ottimo Coro dell’Opera Carlo Felice, guidato dal Maestro Claudio Marino Moretti. L’intrepida Orchestra del Carlo Felice era diretta dal valenciano Jordi Bernàcer che ha superato l’incertezza, insita nell’ambiguità del dilemma, sogno – realtà, adagiandosi anch’egli, come Falstaff, sul metaforico divano sicuro della buona pratica della bacchetta. Così operando si può rischiare la noia ma si evita sicuramente il disastro. Strabocchevole e, a tratti, anche entusiasta il pubblico della domenica pomeriggio. Si deve constatare che si è finalmente non solo ripresa ma pure rinforzata la tradizione che prevede, di domenica, tutta la Liguria al Carlo Felice.

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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman:” L’inferiorità mentale della donna”

Mer, 12/03/2025 - 16:24

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
L’INFERIORITA’ MENTALE DELLA DONNA
di Giovanna Gra
liberamente ispirato al trattato “L’inferiorità mentale della donna” di Paul Julius Moebius
con Veronica Pivetti ed Anselmo Luisi
colonna sonora e arrangiamenti musicaliAlessandro Nidi
costumi Nicolao Atelier Venezia
luci Eva Bruno
regia GRA&MRAMOR
Roma, 05 marzo 2025
Immagina un mondo in cui le donne sono considerate “fisiologicamente deficienti” per secoli. Com’è che ci siamo arrivate? Un’idea che fa venire voglia di ridere… e poi piangere. Questo è il cuore di L’Inferiorità Mentale della Donna, uno spettacolo che fa un tuffo nelle più assurde teorie scientifiche e filosofiche di un passato davvero poco brillante. Il tutto con un bel tocco di ironia, satira sociale e un po’ di sano cinismo. E chi meglio di Veronica Pivetti per dare vita a questa follia? Nel ruolo di una moderna Mary Shelley, è lei la guida in questo viaggio surreale, aiutata dalla musica di Alessandro Nidi. Lo spettacolo si ispira al controverso (e a tratti esilarante) libro di Paul Julius Möbius, L’Inferiorità Mentale della Donna, che, con il suo linguaggio pseudo-scientifico, ha sparso veleno misogino per decenni. Pronti per un’osservazione d’epoca? “Capelli lunghi, cervello corto.” Parola del medico tedesco. Un sorriso amaro, certo, ma ci fa davvero riflettere sulla mentalità di un tempo. Ma solo di quel tempo? E se non fosse già abbastanza, arriva Cesare Lombroso, che si lancia con dichiarazioni che sembrano uscite da un romanzo horror: le donne sarebbero “menzognere” e addirittura “omicidi”. Veronica Pivetti, in questo contesto, non si limita a recitare. La sua bravura sta nel rendere un linguaggio molto forbito coinvolgente. Con il suo talento riesce a farci ridere delle assurdità del passato, ma anche a farci riflettere. E quando, a metà spettacolo, si mette a misurare l’indice cefalico del pubblico come parodia delle tecniche scientifiche di un tempo, non possiamo fare a meno di sorridere e sentirci un po’ complici di questo gioco folle. Alessandro Nidi, con la sua musica che accompagna ogni emozione, arricchisce l’atmosfera. Non ha bisogno di dire una parola: il suo corpo, la sua batteria, i suoni che crea, sono parte integrante di una performance che non ha paura di essere un po’ surreale. Tra una risata e l’altra, Pivetti regala anche momenti di grande intensità, dove canta canzoni come Sei Bellissima di Loredana Bertè o La Vie en Rose di Édith Piaf, non solo cantando, ma interpretandole in modo che ogni parola ci colpisca come un pugno nello stomaco. La scenografia non è la protagonista, ma le luci fanno il loro lavoro, creando quell’atmosfera inquietante che ci fa sentire come se fossimo sospesi tra passato e presente. E i costumi, che mescolano il vintage con tocchi moderni, ci ricordano che, purtroppo, certe idee non sono poi così lontane. La batteria in scena? Un richiamo alla nostra realtà, a un presente in cui le vecchie teorie non sono così archiviate come pensiamo. La parte più potente dello spettacolo? Quando Veronica Pivetti srotola un lenzuolo bianco, su cui compaiono frasi come: “E’ stato assolto perché nel momento dell’omicidio lei indossava la gonna corta”. Un silenzio tombale cala sulla sala, mentre il pubblico si rende conto che queste giustificazioni, purtroppo, sono ancora vive. E poi arriva il colpo di scena finale: quando Pivetti chiude la sua valigia e la lascia al centro del palco, ci dice tutto con un semplice gesto. Basta. Lo spettacolo, tutt’altro che banale, si conclude con applausi che non sono solo di apprezzamento per l’interpretazione, ma anche di riflessione, perché ci porta a pensare su quanta strada, purtroppo, non abbiamo ancora fatto. L’uscita di Pivetti con una maglia bianca che celebra il “femminismo” è il colpo finale, che ci lascia con un messaggio chiaro e forte.

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Roma, Teatro dell’Opera: “Alcina” dal 18 al 26 marzo 2025

Mer, 12/03/2025 - 16:11

Roma, Teatro dell’Opera
ALCINA
di Georg Friedrich Händel
Il Teatro dell’Opera di Roma presenta un nuovo allestimento di Alcina, capolavoro di Georg Friedrich Händel, in scena dal 18 al 26 marzo 2025, nell’ambito della stagione d’opera e balletto. Un dramma musicale in tre atti, su libretto di autore ignoto tratto da L’isola di Alcina di Antonio Fanzaglia, già musicato da Riccardo Broschi e ispirato all’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. Sul podio Rinaldo Alessandrini, specialista indiscusso del repertorio barocco, dirige l’Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, con il Maestro del Coro Ciro Visco. La regia è firmata da Pierre Audi, noto per le sue letture visionarie e raffinate. Le scene e i costumi sono curati da Patrick Kinmonth, mentre il disegno luci è affidato a Matthew Richardson. Nel ruolo della protagonista Alcina debutta Mariangela Sicilia, soprano di grande eleganza e forza espressiva. Accanto a lei, Carlo Vistoli interpreterà Ruggiero nelle recite del 18, 23 e 25 marzo, mentre Tamar Ugrekhelidze vestirà i panni dello stesso personaggio il 21 e 26 marzo. Completano il cast Caterina Piva (Bradamante), Anthony Gregory (Oronte), Mary Bevan (Morgana), Silvia Frigato (Oberto) e Francesco Salvadori (Melisso). Una coproduzione d’eccellenza con la De Nationale Opera di Amsterdam, che propone una visione contemporanea del magico mondo incantato di Alcina, dove l’amore e l’illusione si intrecciano in un gioco di seduzione e inganni. Qui per tutte le informazioni.

 

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Napoli, Teatro di San Carlo: “Salome” dal 20 al 29 marzo 2025

Mer, 12/03/2025 - 16:03

Napoli, Teatro di San Carlo
SALOME

di Richard Strauss
Al Teatro di San Carlo, va in scena Salome di Richard Strauss: dramma in un atto, tratto dall’omonimo poema di Oscar Wilde nella traduzione in tedesco di Hedwig Lachmann. La Prima, di questo quarto appuntamento operistico napoletano, è il 20 marzo 2025. Le date delle repliche, invece, sono le seguenti: 23 marzo, 26 marzo, 29 marzo 2025. Sul podio, alla testa dell’Orchestra del Teatro di San Carlo, Dan Ettinger; nella Stagione d’opera e danza 2024/25 del San Carlo, Ettinger, direttore musicale del Massimo napoletano, è al suo secondo impegno operistico, dopo Rusalka in apertura di Stagione. La regia di Salome è a firma di Manfred Schweigkofler, con scene di Nicola Rubertelli e luci di Claudio Schmid. La coreografia è curata da Valentina Versino; i costumi, invece, sono ideati da Daniela Ciancio. A interpretare Salome è Ricarda Merbeth. Nel ruolo di Herodes/Erode, Charles Workman. Lioba Braun interpreta Herodias/Erodiade e Jochanaan è, invece, impersonato da Brian Mulligan. Completano il cast: John Findon (Narraboth); Štěpánka Pučálková (Ein Page der Herodias/Un paggio di Erodiade); Gregory Bonfatti (Erster Jude/Primo Giudeo); Kristofer Lundin (Zweiter Jude/Secondo Giudeo); Sun Tianxuefei (Dritter Jude/Terzo Giudeo); Dan Karlström (Vierter Jude/Quarto Giudeo); Stanislav Vorobyov (Fünfter Jude/Quinto Giudeo); Liam James Karai (Erster Nazarener/Primo Nazareno); Žilvinas Miškinis (Zweiter Nazarener/Secondo Nazareno); Alessandro Abis (Erster Soldat/Primo soldato); Artur Janda (Zweiter Soldat/Secondo soldato); Giacomo Mercaldo (Ein Kappadozier/Un uomo della Cappadocia); Vasco Maria Vagnoli (Ein Sklave/Uno schiavo). Una produzione del Teatro di San Carlo. Qui per informazioni ulteriori. Foto © Francesco Squeglia Qui per tutte le informazioni.

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Parma, Teatro Regio: “Il barbiere di Siviglia”

Mer, 12/03/2025 - 10:30

Parma, Teatro Regio, Stagione Lirica 2025
IL BARBIERE DI SIVIGLIA
Dramma comico in due atti  su libretto di Cesare Sterbini dalla commedia “Le barbier de Séville” di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais
Musica di Gioachino Rossini
Il Conte d’Almaviva RUZIL GATIN
Don Bartolo CARLO LEPORE
Rosina MARIA KATAEVA
Figaro MATTEO MANCINI
Don Basilio GRIGORY SHKARUPA
Berta LICIA PIERMATTEO*
Fiorello/Un Ufficiale GIANLUCA FAILLA
Ambrogio ARMANDO DE CECCON
*Già allieva dell’Accademia Verdiana
Orchestra Senzaspine
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore George Petrou
Maestro del Coro Martino Faggiani
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Luci Andrea Borelli da un’idea di Massimo Gasparon
Allestimento Rossini Opera Festival, Teatro Regio di Parma
Parma, 9 marzo 2025
È bello vedere uno spettacolo riuscito: ma ancor più bello è vederlo vivere di vita propria. Ironia della sorte: Pier Luigi Pizzi, fra i padri nobili della cosiddetta Rossini Renaissance, arriva al Barbiere solo nel 2018, sulla soglia quasi dei novant’anni. Ma lo scruta con l’occhio analitico del regista di prosa, e lo lucida con un rigore novecentesco ch’è parente strettissimo del razionalismo settecentesco. Scrostandolo quindi di tutto un repertorio di gags, trovate e trovatine impastate di gigionismo (Gigione è il cantante vanaglorioso nella caricatura del mitico Ferravilla) che in gergo si chiamano “caccole”. Il suo Barbiere brilla allora di una luce nuova: è agile nella sua integralità, guizzante, elastico, energico. E soffuso di uno humor dotto, finissimo e pungente, intelligente eppure (sembra un paradosso) perfettamente contemporaneo. È uno spettacolo di quelli che fanno epoca, che formano generazioni di cantanti: e così è destino che di sera in sera alcune cose cambino. Ma l’impianto registico ha in sé una tale versatilità, che pur nelle inevitabili modifiche, necessarie per adattarsi ai diversi interpreti (pizziana la definizione di “teatro sartoriale”), resta intatto e ben riconoscibile. In questa seconda ripresa parmense la differenza la più vistosa è nel finale, cui manca la grande scena di Almaviva, interpretato da Ruzil Gatin. Timbro asciuttissimo e non particolarmente grato, ha però dalla sua un’ottima proiezione del suono, ch’è limpido, squillante, saettante, benché poco corposo. Matteo Mancini è un Figaro giovane e giovanile, dal timbro morbido e luminoso, piuttosto chiaro e facile all’acuto. Grigory Shkarupa ha buona voce, seppur con qualche asperità: quel che si potrebbe desiderare in più da un Basilio è una presenza scenica soggiogante, una verve sottile di cui non pare naturalmente, istintivamente provvisto. Né l’aiuta granché l’appena accennata balbuzie già di Pertusi a Pesaro e di Tagliavini a Parma: e di cui pare ricordarsi soltanto a tratti. E che fa il paio con la “r” moscia di Bartolo: geniale invenzione di Pietro Spagnoli per far il verso a Pizzi durante le prove, che poi lo punì mantenendola in spettacolo. Come già fatto da Marco Filippo Romano qui a Parma lo scorso anno, Carlo Lepore raccoglie magistralmente il testimone, e inserisce il suo Bartolo, vocalmente sontuoso, nella logica di questa regia (già nella ripresa pesarese della scorsa estate) con una tale disinvoltura scenica da renderlo irresistibile. Anche quando non canti: mentre osserva terrorizzato Basilio prendersela con la fetta di salame, mentre ondeggia assonnato durante la lezione di musica di Don Alonso. Dall’anno scorso ritroviamo, in testa, Maria Kataeva, grintosa e frizzante Rosina: dal registro grave timbratissimo, morbido, rotondo, alle sciolte agilità, allo charme scenico. Poi la Berta squillante e luminosa di Licia Piermatteo, che trova il suo Ambrogio in Armando De Ceccon. Nei ruoli di Fiorello prima, Ufficiale poi e infine violoncellista accanto al secondo travestimento di Almaviva, c’è sempre il solido e sonoro Gianluca Failla, che li eredita da William Corrò. Il Coro è quello del Teatro Regio di Parma diretto da Martino Faggiani, mentre l’Orchestra è la Senzaspine: che dà una buona prova sotto la direzione eccentrica di George Petru, appassionatissima e genericamente eccitata, che si sforza lodevolmente di mettere in luce dettagli dell’orchestrazione rossiniana spesso smussati da uno stile esecutivo più romantico. Insomma il Barbiere “pizzesco” colpisce ancora, e c’è da augurarsi che continui ad esser ripreso fino a diventare un riferimento come lo è stato (e lo è?), quello di Ponnelle.

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Robin Tritschler & Malcolm Martineau: “Song for Peter Pears”

Mer, 12/03/2025 - 09:37

Lennox Berkeley: “The half-moon westers low”, “The street sounds to the soldiers’ tread”, “He would not stay for me”, “Look not in my eyes”, “Because I liked you better” (“Five Housman Songs Op 14, part 3”); “Rachel”; “Full Moon”, “All that’s past”, “The Moth”, “The Fleeting” (“Songs of the Half-Light Op 65”); Benjamin Britten: “Sonet XVI”, “Sonet XXXI”, “Sonet XXX”, “Sonet LV”, “Sonet XXXVIII”, “Sonet XXXII”, “Sonet XXIV” (“Seven Sonnets of Michelangelo Op 22”); Arthur Oldham: “Under the Pondweed”, “The Herd Boy’s Song”, “Fishing”, “The Pedlar of Spells”, “A Gentle Wind” (“Five Chinese Lyrics”); Richard Rodney Bennett: “Tom O’Bedlam’s Song”; Geoffrey Bush: “Aries: the Ram”, “Gemini: the Twins”, “Taurus: the Bull”, “Cancer: the Crab”, “Leo: the Lio”, “Virgo: the Virgin”, “Libra: the Scales”, “Scorpio: the Scorpion”, “Sagittarius: the Archer”, “Capricorn: the Goat”, “Aquarius: the Water-carrier”, “Pisces: the Fish” (“Songs of the Zodiac”). Robin Tritschler (tenore), Malcolm Martineau (pianoforte), Philip Higham (violoncello), Sean Shibe (chitarra). Registrazioni: 24-26 settembre 2021, Wyastone Estate, Wyastone Leys, Monmouth e 31 ottobre 2021, St Augustine’s Church, Kilburn Park Road, London. 1 CD SIGNUM CLASSICS SIGCD774
Peter Pears è uno di simboli della rinascita musicale britannica del Novecento. Il suo sodalizio – umano e artistico – con Benjamin Britten ha avuto un ruolo centrale nel riportare l’Inghilterra al centro della vita musicale europea dopo oltre un secolo di sostanziale irrilevanza. Non sorprendi quindi che il suo ricordo sia ancora vivo e che resti un modello per tanti giovani artisti d’oltremanica come Robin Tritschler protagonista di questa nuova registrazione Signum Classics dedicata a una raccolta di arie da camera e da concerto scritte per Peter Pears – o in suo onore – da diversi musicisti britannici. Si tratta di una sfida non trascurabile esistendo di questi brani le registrazioni originarie di Pears, spesso con l’insuperabile accompagnamento pianistico di Britten, ma da cui il giovane tenore irlandese esce con grande onore. La voce di Tritschler è più classica di quella di Pears il cui materiale vocale era alquanto particolare come timbro e colore. Qui abbiamo invece una bella voce di tenore lirico dal timbro luminoso e dal canto fresco e spontaneo ma ovviamente dove il confronto si fa impervio e sul terreno dell’accento e dell’interpretazione dove nonostante l’innegabile cura Tritschler non ha – è neppure può avere considerando la giovane età – quelle qualità interpretative in cui Pears emergeva al sommo grado.
La parte pianistica è una sfida altrettanto importante dovendosi confrontare direttamente con Britten e per affrontarla si è chiamato uno dei massimi pianisti accompagnatori dei nostri tempi Malcolm Martineau che se non può risultare vincitore al confronto con il maestro ne esce comunque con grande onore. Completano il gruppo degli esecutori strumentali Philip Higham al violoncello e Sean Shibe alla chitarra.
Il primo ciclo proposto sono i “Five Houseman Song parte 3” composti da Lennox Berkeley nel 1940. Sono la composizione più datata tra quelle proposte, precedente all’affermarsi di Britten e frutto di un momento in cui la musica inglese ancora cercava una sua via. Berkeley era di formazione francese – allievo della Boulanger e amico di Ravel – e questo compare pienamente negli accompagnamenti acquatici di gusto ancora impressionista che caratterizzano la sua scrittura pianistica mentre la linea vocale ha forse caratteri più moderni. Notiamo qui i tratti migliori dell’esecuzione di Tritschler che alla piacevolezza vocale unisce una dizione perfettamente nitida e un’impeccabile senso musicale. Sempre di Berkeley merita una nota il successivo ciclo “Songs of the Half-Light” per canto e chitarra composto per Bears e Julian Bream che si ricollega alla tradizione delle canzoni inglesi per liuto.

Unica composizione di Britten sono i “Sette sonetti di Michelangelo” cantati con impeccabile senso stilistico e giusto slancio espressivo ma un po’ carenti sul piano della pronuncia italiana su ancora il tenore dovrebbe lavorare.
Arthur Oldham ebbe un rapporto complesso con Britten passato da una stretta collaborazione – di fatto fu l’unico allievo diretto di Britten – a violenti contrasti durante le collaborazioni al Festival di Edimburgo. “Five Chinese Lyrics” composti nel 1945 risalgono al periodo della formazione e risentono molto dello stile di Britten anche se la linea è più piana e diretta. Il brano più lungo del programma è “Tom O’Bedlam’s Song” di Rodney Bennett su un’anonima ballata degli inizi del XVII secolo rimasta molto popolare in Inghilterra. Si tratta di una composizione ampia dal taglio decisamente teatrale e dalla scrittura musicale particolarmente ricca – qui è centrale la parte del violoncello eseguita splendidamente da Higham. Tritschler può qui far valere una maturità interpretativa non trascurabile che riesce a dare la giusta tinta espressiva al canto eroico e sublime di questo folle sognatore. La scrittura musicale nel suo taglio teatrale si avvicina allo stile stravinskiano della “The Rake’s progress” cui si accomuna in parte anche per la tematica.Mai eseguita da Pears ma a lui dedicata è l’ultima composizione del ciclo, i dodici “Songs of the Zodiac” composti nel 1990 da Geoffrey Bush su testi del surrealista David Gascoyne. Il ciclo dedicato alla memoria di Pears – scomparso nel 1986 – fu eseguito per la prima volta da Anthony Rolfe-Johnson. Si tratta di piccoli schizzi musicali capaci però di cogliere nella loro brevità il carattere delle figure simboliche dei segni zodiacali. Il linguaggio musicale è nel complesso tonale e testimonia la sopravvivenza in ambito britannico di un legame diretto con il pubblico che nell’Europa continentale le avanguardie avevano in gran parte reciso. Il disco è l’occasione per conoscere un repertorio forse non così vicino alla sensibilità italiana ma che merita un piccolo sforzo di avvicinamento e per conoscere un giovane tenore dotato di qualità che lasciano presagire interessanti sviluppi per il futuro.

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Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “La signora omicidi”

Mar, 11/03/2025 - 23:59

Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
LA SIGNORA OMICIDI
di William Arthur Rose
adattamento Mario Scaletta
con Giuseppe Pambieri, Paola Quattrini, Mario Scaletta, Roberto D’Alessandro, Marco Todisco
scene Fabiana Di Marco
costumi Graziella Pera
regia GUGLIELMO FERRO
cast Produzioni Teatro della Città

Roma, 11 marzo 2025
Se pensavate che le vecchiette affittacamere fossero solo dolci nonnine dedite alla maglia e alle confetture fatte in casa, ripensateci. “La Signora Omicidi”, in scena al Teatro Quirino Vittorio Gassman di Roma, smonta il cliché con una buona dose di humour britannico e un cast che si muove tra il giallo e la commedia con una leggerezza magistrale. L’adattamento teatrale firmato da Mario Scaletta prende spunto dal celebre film del 1955 di Alexander Mackendrick e dal successivo remake dei fratelli Coen del 2004, riportando in scena quella miscela irresistibile di crimine, malintesi e humor nero che ha reso immortale la storia. Sul palco, due giganti della recitazione italiana, Giuseppe Pambieri e Paola Quattrini, accompagnati da un cast d’eccezione, tengono il pubblico incollato alla poltrona tra risate e colpi di scena. La loro sintonia sul palco è palpabile, con una capacità interpretativa che arricchisce di sfumature ogni battuta e ogni scambio di sguardi. La vicenda si sviluppa nella Londra anni Cinquanta, con la svampita e arzilla Louise Wilberforce (Paola Quattrini), che accoglie nella sua casa un distinto professor Marcus (Giuseppe Pambieri), presunto musicista. Peccato che l’uomo non abbia nulla a che fare con la musica, se non con quella di sottofondo perfetta per coprire le attività criminose sue e della sua banda di maldestri malviventi. Il piano è semplice: organizzare una rapina perfetta con la vecchietta ignara di tutto. O almeno, così sembra. Perché la nostra Louise, tra un pasticcino e un sorso di tè, si rivelerà più letale di un’intera squadra di detective di Scotland Yard. Il gioco di inganni e contromosse si dipana con sapiente maestria, rendendo ogni scena imprevedibile e coinvolgente. Il ritmo dello spettacolo è impeccabile: il primo atto gioca sulle sfumature della commedia d’equivoci, sfruttando il contrasto tra l’apparente ingenuità della protagonista e l’astuzia goffa dei malviventi. Gli spettatori si trovano immersi in un’atmosfera che ricorda le migliori produzioni della commedia inglese, dove la leggerezza nasconde una costruzione narrativa meticolosa. Nel secondo atto, invece, si lascia spazio a una tensione crescente, con un finale che, tra pathos e colpi di scena, strappa applausi convinti alla platea. La regia di Guglielmo Ferro riesce a valorizzare ogni dettaglio della narrazione, bilanciando con precisione la suspense e la comicità tipica dell’umorismo britannico. Pambieri modella il suo Marcus con ironia e spietata eleganza, delineando un personaggio subdolo ma affascinante, capace di dominare la scena con un semplice sguardo. Quattrini, dal canto suo, è perfettamente a suo agio nei panni della dolce (ma non troppo) signora Wilberforce, sfoderando una gamma di espressioni e trovate comiche che la rendono irresistibile. Il resto del cast, affiatato e spassoso, amplifica il gioco di contrasti tra i personaggi, mantenendo alta la tensione e l’ilarità. Gli attori che interpretano la banda di malviventi si distinguono per la caratterizzazione brillante di ogni singolo ruolo: ciascuno di loro incarna una diversa sfumatura della goffaggine criminale, dando vita a gag irresistibili. Le scene, curate nei minimi dettagli da Fabiana Di Marco, e i costumi di Graziella Pera si inseriscono perfettamente nella narrazione senza bisogno di stravolgimenti moderni. L’impianto scenografico è tradizionale e fedele all’epoca, senza ricercare innovazioni particolari, ma dimostrando che anche il classico ha un suo senso magico. La casa della signora Wilberforce diventa il fulcro dell’azione: un salotto dall’arredamento rétro, con tonalità pastello e suppellettili d’epoca, che si trasforma progressivamente da accogliente dimora a teatro del delitto perfetto… o quasi. Sullo sfondo, la ferrovia incombe, evocata con giochi di luci e suoni che contribuiscono alla tensione narrativa. Ogni elemento scenico è studiato per arricchire il contesto senza mai appesantire lo svolgimento dell’azione. I costumi di Graziella Pera sono in perfetta linea con l’ambientazione e rafforzano l’identità dei personaggi senza bisogno di stravolgimenti moderni. Anche qui, nessuna innovazione superflua: il fascino del classico sta nella sua capacità di evocare un’epoca e un’atmosfera senza forzature. La signora Wilberforce, con i suoi abiti dall’aria antiquata e le sue acconciature impeccabili, è la quintessenza della rispettabilità britannica, mentre i malviventi indossano abiti che tradiscono il loro desiderio di mimetizzarsi senza riuscirci del tutto. L’uso delle luci contribuisce a creare momenti di grande effetto scenico: le ombre allungate sui muri, i contrasti netti tra le scene illuminate con calore domestico e quelle dominate da tinte fredde rafforzano la contrapposizione tra il mondo apparentemente sicuro della protagonista e quello oscuro dei criminali. La regia sfrutta sapientemente questi elementi per guidare lo spettatore attraverso i cambi di tono dello spettacolo, senza mai perdere il ritmo né spezzare l’illusione teatrale. Il risultato? Uno spettacolo brillante, che dimostra come il noir e la commedia, se ben dosati, possano coesistere alla perfezione, regalando al pubblico due ore di godibilissimo intrattenimento. Il pubblico ride, si sorprende e, alla fine, si alza in piedi per applaudire un cast che ha saputo far rivivere una storia senza tempo con intelligenza e freschezza. In fondo, si sa: nel teatro e nella vita, spesso sono i più insospettabili a rivelarsi i veri maestri del crimine.

 

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