Tu sei qui

gbopera

Abbonamento a feed gbopera gbopera
Aggiornato: 15 min 48 sec fa

Roma, Museo di Roma in Trastevere: “Testimoni di una guerra. Memoria grafica della Rivoluzione Messicana”

Mar, 05/11/2024 - 19:00

Roma, Museo di Roma in Trastevere
TESTIMONI DI UNA GUERRA
Memoria grafica della Rivoluzione Messicana
Roma, 05 Novembre 2024
Il Museo di Roma in Trastevere, nel cuore pulsante di uno dei quartieri più caratteristici della capitale, ospita una mostra che celebra i 150 anni delle relazioni diplomatiche tra Messico e Italia.
In collaborazione con l’Ambasciata del Messico in Italia, la mostra offre al pubblico un viaggio fotografico unico, attraverso l’obiettivo di Agustín Víctor Casasola e Miguel Casasola, pionieri del reportage in America Latina. L’evento mette in scena 40 fotografie provenienti dall’Archivio Casasola, un patrimonio inestimabile per comprendere una delle più importanti rivoluzioni sociali del XX secolo: la Rivoluzione Messicana, che ebbe luogo tra il 1910 e il 1920. La selezione di scatti, in rigoroso bianco e nero, fa immergere lo spettatore nelle atmosfere ribollenti di un decennio in cui il popolo messicano lottò per giustizia sociale e cambiamento politico, dando vita a figure eroiche come Francisco I. Madero, Emiliano Zapata, Pancho Villa e Venustiano Carranza. Questi nomi riecheggiano ancora oggi come simboli di una lotta che ha risuonato ben oltre i confini del Messico. Le fotografie non sono solo immagini fisse di un passato remoto, ma veri e propri documenti storici che raccontano l’evoluzione di un’intera società, unendo la narrazione dei leader della rivoluzione al vissuto quotidiano delle masse. La prospettiva dei Casasola si distingue per la capacità di cogliere la tensione sociale, la dignità dei campesinos, la determinazione delle donne messicane, e le celebrazioni nelle piazze improvvisate che diventavano scenario di resistenza. Le immagini mostrano le trincee improvvisate, i volti segnati dalla fatica e dalla speranza, e le espressioni dei leader politici, rendendo la Rivoluzione Messicana non solo un evento storico, ma un racconto epico di vite trasformate dal desiderio di giustizia. Agustín Víctor Casasola, insieme a suo fratello Miguel, ha dato vita a uno dei più vasti archivi fotografici mai realizzati in America Latina. Il Governo del Messico, conscio dell’importanza di tale eredità storica, acquisì l’intero archivio nel 1976, garantendone la conservazione presso l’Instituto Nacional de Antropología e Historia (INAH). Attualmente, l’Archivio è custodito presso l’ex Convento di San Francisco, a Pachuca, e conta un totale di 484.004 immagini. Queste fotografie, che documentano un’ampia gamma di aspetti della società messicana di inizio XX secolo, rappresentano una testimonianza viva delle aspirazioni e delle lotte del popolo messicano. La mostra al Museo di Roma in Trastevere è anche un’occasione per riflettere sul ruolo della fotografia come strumento di memoria e denuncia sociale. L’Archivio Casasola è un esempio straordinario di come l’immagine fotografica possa diventare veicolo di verità storica, uno sguardo onesto su una realtà spesso distorta dalla propaganda ufficiale. Attraverso le lenti dei fotografi Casasola, il visitatore viene accompagnato a comprendere i lati umani della rivoluzione: la povertà, la speranza, la violenza, ma anche il coraggio e la determinazione di chi credeva in un futuro migliore. Il contesto del Museo di Roma in Trastevere, con il suo fascino senza tempo e le sue sale suggestive, fa da perfetto scenario per queste fotografie. Trastevere, con il suo carattere popolare e la sua storia di resilienza, sembra rispecchiare l’anima stessa della Rivoluzione Messicana, fatta di gente comune che si ribella ai potenti per rivendicare la propria dignità. Visitare questa mostra significa non solo esplorare un capitolo di storia messicana, ma anche riflettere sulle lotte per la giustizia che, sebbene cambino epoca e contesto, rimangono universali. Le immagini sono esposte nelle sale del museo in modo tale da valorizzare al massimo il loro impatto visivo ed emotivo. L’allestimento è stato curato con grande attenzione, con l’obiettivo di creare un percorso narrativo che accompagni il visitatore attraverso le diverse fasi della Rivoluzione Messicana. Ogni sala è stata progettata per trasmettere un senso di immersione, utilizzando un’illuminazione sapientemente dosata che evidenzia i dettagli delle fotografie, esaltando i contrasti tra luci e ombre. Le luci, soffuse ma mirate, giocano un ruolo fondamentale nel creare un’atmosfera intima e riflessiva, che invita il pubblico a fermarsi davanti alle immagini, a coglierne ogni sfumatura e a riflettere sulle storie che raccontano. L’uso delle luci è stato studiato per evocare la drammaticità e la forza del momento storico immortalato dagli scatti dei Casasola. Le fotografie, spesso caratterizzate da un forte contrasto tra chiari e scuri, sono illuminate in modo tale da far emergere la profondità delle emozioni sui volti dei protagonisti. Le ombre create dall’illuminazione contribuiscono a dare un senso di tridimensionalità alle immagini, come se i personaggi potessero quasi uscire dalla carta per raccontare la propria storia. L’effetto complessivo è quello di una mostra che non si limita a esporre delle immagini, ma che riesce a creare un dialogo tra passato e presente, tra il visitatore e i protagonisti della storia. Le immagini esposte parlano di una rivoluzione che è stata, in primo luogo, un fenomeno popolare. La Rivoluzione Messicana non è stata guidata da ideologie astratte, ma è nata dall’esigenza concreta di migliorare la vita del popolo. Francisco I. Madero, con il suo appello alla democrazia, e figure come Emiliano Zapata, che lottò per la riforma agraria, rappresentano lo spirito di una nazione che rivendicava il diritto di essere padrona del proprio destino. La narrazione visiva dei Casasola riesce a catturare proprio questo: l’essenza del cambiamento che parte dalle persone comuni. Un altro aspetto significativo della mostra è l’attenzione dedicata alle donne della Rivoluzione Messicana. Le “Adelitas”, come venivano chiamate, hanno avuto un ruolo fondamentale nelle battaglie e nella logistica rivoluzionaria, e alcune delle fotografie in mostra restituiscono un ritratto intenso di queste combattenti, madri, sorelle e compagne che non si sono tirate indietro di fronte al conflitto. In un’epoca in cui la donna era spesso relegata ai margini della società, la Rivoluzione Messicana vide emergere figure femminili di straordinaria forza e determinazione, e l’obiettivo dei Casasola non mancò di onorarle. Grazie alla collaborazione con l’Ambasciata del Messico, il pubblico italiano può ora immergersi in questa narrazione potente, in cui ogni fotografia è una finestra su un passato che continua a parlare al nostro presente.

 

Categorie: Musica corale

Bologna, Comunale Nouveau. “Carmina Burana”

Mar, 05/11/2024 - 08:05

Bologna, Teatro Comunale Nouveau, Stagione Opera 2024
Orchestra, Coro, Coro di Voci Bianche del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Marco Angius
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Voci Bianche preparate da Alhambra Superchi
Soprano Maria Eleonora Caminada
Tenore Marco Ciaponi
Baritono Tamon Inque
Video Innovio Arts
Carl Orff: “Carmina Burana” , Cantata scenica basata su 24 dei poemi trovati nei testi poetici medievali che portano il medesimo nome
Bologna, 3 novembre 2024
L’autunno del Nouveau riprende con questi Carmina Burana: “cantata scenica”, recita la didascalia, ma qui, benché inseriti nella stagione Opera, eseguiti in forma di concerto. A dispetto dell’accompagnamento video curato da Innovio Arts: il problema della reinvenzione delle radici germaniche è ben posto, ma nonostante la perizia grafica e l’opportuna pertinenza dei riferimenti (oltre le ovvie miniature, il cinema di Lang, Wegener e Pabst), l’animazione di immagini dalle tinte pop-fluo fa molto screensaver, e risulta serenamente rinunciabile per l’ascolto. Ascolto ch’è di altissima qualità. La direzione di Marco Angius nulla ha di teatrale, anzi è analitica fino alla spietatezza. Senza indulgere mai all’effettaccio, tentazione in cui, con un siffatto organico fra le mani, è facile (s)cadere. Del resto già il titolo, per la sua popolarità (tutta concentrata in pochi minuti), mette in sospetto il conoscitore, che può tollerarne l’ascolto soltanto in esecuzioni tecnicamente irreprensibili. L’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna ha assecondato magnificamente la lettura asciutta e severa di Angius, restituendo alla partitura il suo impressionante rigore ritmico, le sue taglienti sonorità, il suo incedere inquieto e intimamente novecentesco, senza il benché minimo compiacimento. Per fare un solo esempio: quella della Tanz che introduce la seconda parte Uf dem anger è un’esecuzione veramente mirabile. E il Nouveau, dal canto suo, non sarà suggestivo quanto ad architettura, ma garantisce senz’altro una buona acustica. Il Coro di Gea Garatti Ansini si conferma ottimo, ma a brillare qui sono specialmente le voci maschili che trovano nel celebre In taberna quando sumus il luogo ideale per esibire il loro virtuosismo. Sempre del Teatro Comunale è il Coro di Voci Bianche, diretto da Alhambra Superchi che ne ricava un bel suono compatto, pieno, disciplinato. Va ora introdotto un breve inciso sulla dizione. L’ascoltatore italiano non può trovare completa soddisfazione nell’ascolto delle grandi, mitiche incisioni dei Carmina che, com’è naturale, sono di area tedesca, per via della pronuncia latina che gli suona innaturale. Cominciando dall’inizio, già è arduo il “semper crescis aut decrescis”, ma poi la cosa diventa lampante sul “stillantibus ocellis“, che i cori di lingua tedesca scandiscono normalmente “ozellis”. Il che può mandare in crisi il liceale italiano che, se pure sa orientarsi fra pronuncia ecclesiastica e restituta, non può che restare interdetto dinnanzi a questa variante romagnola. Ma probabilmente è più corretto, trattandosi di un testo che poco oltre sconfina nell’alto tedesco, che la pronuncia sia quella germanofona. In ogni caso, conviene trovare un accordo: qui invece l’unico ad adottare una dizione tedescheggiante è il cigno arrostito di Marco Ciaponi, che pronuncia “iazio” il iaceo di “Nunc in scutella iaceo”. Per il resto, canta assai bene quel suo breve e scomodo intervento con squillo e bella omogeneità di timbro; e l’effetto, qui sì, teatrale, insito nella scrittura, funziona. Meno a suo agio Maria Eleonora Caminada, che dispone di timbro gradevole e corposo, ma difetta di sicurezza nell’impervio “Dulcissime! Ah! Totam tibi subdo me!”. Il più impegnato dei solisti è Tamon Inoue, baritono luminosissimo e snello, dal volume non immenso ma dalla dizione ben limpida, che se la cava discretamente anche con quella sorta di falsettone necessario in Dies, nox et omnia, brano che getta nel ridicolo anche i nomi più illustri. Ancora oggi il MedioEvo, nel nostro immaginario, è quello lì, così codificato da Orff, Wagner e Walt Disney. Peccato però che gli altri due pannelli del Trittico I Trionfi (Catulli Carmina e Trionfo di Afrodite) non vengano illuminati, neanche di luce riflessa, da questi famosi Carmina Burana.

Categorie: Musica corale

“Tosca” al Teatro Comunale di Sassari

Lun, 04/11/2024 - 18:43

Sassari, Teatro Comunale – Stagione Lirica 2024
TOSCA”
Opera in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica dal dramma “La Tosca” di Victorien Sardou.
Musica di Giacomo Puccini
Floria Tosca MARTA MARI
Mario Cavaradossi OTAR JORJIKIA
Il barone Scarpia MARCO CARIA
Cesare Angelotti TIZIANO ROSATI
Il Sagrestano ANDREA PORTA
Spoletta NICOLAS RESINELLI
Sciarrone- Un Carceriere MICHAEL ZENI
Un pastorello VIOLA NURCHIS, LAURA CHILI, AURORA CADDEO
orchestra e Coro e voci bianche dell’ Ente Marialisa de Carolis
Direttore Gianluca Martinenghi
Maestro del coro Francesca Tosi
Voci bianche preparate da  Salvatore Rizzu
Regia Renato Bonajuto
Scene Danilo Coppola, Giovanni Gasparro
Costumi Artemio Cabassi
Disegno luci Tony Grandi
Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Coccia Novara
Sassari, 1 novembre 2024
Buon successo al Teatro Comunale per la ripresa autunnale della stagione lirica di Sassari, organizzata dall’Ente de Carolis, dopo le produzioni estive. La riproposizione di Tosca dopo soli sette anni dall’ultima ripresa appare giustificata dall’anniversario pucciniano (anche se Puccini ha scritto altre belle opere oltre Tosca e Bohème) ma soprattutto dal favore del pubblico, sempre affezionato alla truce storia di ambientazione papalina. Tosca può essere letta così oppure, in maniera più approfondita, come un grande capolavoro di teatro musicale in cui la tensione drammaturgica è insita nella partitura, più che nel plot narrativo, con una raffinatezza nella costruzione chiaramente influenzata dai leitmotiv wagneriani e dal loro sviluppo (Puccini, anche negli ultimi giorni di vita mentre scriveva Turandot, fu sempre ossessionato dal Tristan und Isolde) e che ha il suo culmine nello straordinario secondo atto. La recente esecuzione di Tosca in forma di concerto diretta da Daniel Harding, in apertura della stagione sinfonica dell’Accademia di Santa Cecilia, è stata efficacissima non a caso proprio nel mettere in luce la densità della scrittura musicale e la sua capacità evocativa, pur senza il supporto visivo della messa in scena. L’allestimento sassarese invece è sembrato interessarsi soprattutto all’aspetto didascalico della vicenda, illustrando ma senza andare al di là di una lettura puramente convenzionale dell’opera. Gianluca Martinenghi dirige con mestiere e dimostra un’interessante sensibilità timbrica tirando fuori un suono levigato e amalgamato dalla buona orchestra del de Carolis, ma si sono notate varie incomprensioni col palcoscenico, sia dal punto di vista ritmico, che dell’insieme dinamico e dell’espressione. Soprattutto è mancato l’approfondimento di cui sopra che avrebbe inserito in maniera più organica le voci “dentro” la partitura e alle sue tensioni con una maggiore cura nella concertazione. L’interprete che ha compreso meglio la necessità di questa esigenza è stato sicuramente Marco Caria, uno Scarpia raffinato, senza certe gigionerie veristiche, più portato dalle sue caratteristiche vocali a costruire un personaggio insinuante, ricco di sfumature, gelidamente calcolatore, lontano dal rozzo poliziotto vociante di certe interpretazioni. Non a caso più della protervia della sua entrata, è stato veramente ammirevole un secondo atto perfettamente addentro nei meccanismi musicali e drammaturgici, costruito con vocalità sicura, omogenea e varietà di accenti espressivi. Varietà non così evidenti nella protagonista: Marta Mari ha una vocalità scura e importante, ricca di armonici, canta molto bene e dimostra una buona presenza scenica, ma è apparsa meno interessante nella differenziazione dei piani dinamici. Veramente bella comunque l’esecuzione di Vissi d’arte proprio per le scelte di colore e di pronuncia espressiva che non sempre ha utilizzato in tutto il ruolo. Su un piano inferiore il Cavaradossi di Otar Jorjikia che, pur dotato di un bel timbro e di discreti mezzi vocali, mostra spesso un’emissione influenzata da un’eccessiva copertura dei suoni che opacizza l’emissione e lo fa apparire in difficoltà nel registro acuto: alcuni incidenti (uno proprio al culmine di E lucevan le stelle) e imperfezioni nell’intonazione hanno mostrato dei problemi tecnici che, visto il materiale, val la pena risolvere. Ben inseriti nella parte tutti gli altri interpreti, con una segnalazione per il bel timbro di Tiziano Rosati, la vivacità di Andrea Porta e la suggestiva realizzazione fuori scena, a più voci, della parte del Pastorello. Buona la prestazione dei cori del de Carolis, ben preparati da Francesca Tosi e Salvatore Rizzu e dell’orchestra, a suo agio anche nei passi più delicati, come il quartetto dei violoncelli nel terzo atto. La regia di Renato Bonajuto è coerente con l’impostazione della direzione e si limita al corretto racconto della vicenda senza intuizioni o approfondimenti psicologici particolari; non appare neanche ben sfruttata la vera novità della scenografia, altrimenti molto tradizionale, di Danilo Coppola, ripresa da un allestimento del Teatro Coccia di Novara, con l’utilizzo della particolare arte “neocaravaggesca” di Giovanni Gasparro e della sua abilità tecnica nel ricostruire le cupe ma sensuali atmosfere controriformiste: non è infatti sufficientemente efficace, a distanza, l’apporto visivo delle immagini utilizzate che avrebbero avuto, con le luci di Tony Grandi, una presenza ben maggiore in un’impostazione nelle proporzioni più visionaria e meno realistica. Applausi alla fine per tutti. Foto Elisa Casula

Categorie: Musica corale

München, Bayerische Staatsoper: “Das Rheingold”

Dom, 03/11/2024 - 23:15
München, Bayerische Staatsoper, Stagione 2024/25
“DAS RHEINGOLD” Vigilia in quattro scene. Prologo alla Tetralogia Der Ring des Nibelungen Libretto e musica di Richard Wagner Wotan NICHOLAS BROWNLEE Donner MILAN SILJANOV Froh IAN KOZIARA Loge SEAN PANIKKAR Fricka EKATERINA GUBANOVA Freia MIRJAM MESAK Erda WIEBKE LEHMKUHL Alberich MARKUS BRÜCK Mime MATTHIAS KLINK Fasolt MATTHEW ROSE Fafner TIMO RIIHONEN Woglinde SARAH BRADY Wellgunde VERITY WINGATE Flosshilde YAJIE ZHANG München, Bayerische Staatsoper Direttore Vladimir Jurowski Regia Tobias Kratzer Scene e Costumi Rainer Sellmaier Drammaturgia Bettina Bartz, Olaf Roth
Luci Michael Bauer Video Manuel Braun, Jonas Dahl, Janic Bebi München, 31 ottobre 2024. La Bayerische Staatsoper ha dato inizio al progetto del nuovo Ring, affidato a Tobias Kratzer, il regista che dopo il fulminante successo del suo allestimento del Tannhäuser a Bayreuth è considerato come un nuovo modello per le messinscene delle opere di Wagner. Con la nuova produzione di Das Rheingold, il prologo della Tetralogia, il futuro intendente della Hamburgische Staatsoper ha presentato in maniera abbastanza chiara le linee generali del suo Konzept: la rinuncia alla lettura del testo come parabola del sistema capitalistico per concentrarsi sulla trama vista come avvento di una nuova religione. Il sombolo di tutto questo è visualizzato dalla scena della residenza degli Dei raffigurata come una chiesa rinascimentale in restauro, sul cui polittico dell’ altare essi prendono posto alla conclusione. Come sempre Kratzer impiega immagini forti, per esempio quella di Alberich nudo e torturato durante la scena del furto dell’ anello. La messinscena lascia intravedere solo a sprazzi quelli che potrebbero essere gli sviluppi nelle prossime giornate del ciclo wagneriano, ma è già percebibile lo stile di un regista che riesce a evidenziare tutti gli aspetti nascosti della drammaturgia nei titoli che affronta. Per conoscere il Konzept generale del progetto bisognerà aspettare sino al 2026, quando verrà allestita la nuova produzione di Die Walküre. Lo spettacolo era complessivamente all’ altezza di quello che ci si può aspettare da un teatro come la Bayerische Staatsoper, ma non pienamente soddisfacente è apparsa la parte musicale della rappresentazione, soprattutto per quanto riguarda l’ aspetto interpretativo d’ insieme. La direzione orchestrale di Vladimir Jurowski non mi è sembrata assolutamente memorabile. La sua lettura mancava di grandiosità, si smarriva spesso alla ricerca di improbabili finezze cameristiche e l’ interpretazione appariva abbastanza priva di personalità e di una linea coerente. La buona resa esecutiva del Vorspiel orchestrale, con le splendide sonorità della Bayerische Staatsorchester che nella musica di Wagner ha confermato di avere pochi eguali al mondo, è stata probabilmente l’ unico momento degno di essere ricordato in un’ esecuzione in complesso piuttosto pallida e a tratti anche abbastanza monotona. Soprattutto la scena finale ha risentito della mancanza di atmosfera grandiosa, che era una delle lacune principali in questa piuttosto deludente esecuzione orchestrale presentata dal Generalmusikdirektor del teatro bavarese. Per quanto riguarda il cast vocale, la migliore prova è stata senz’ altro quella del basso-baritono americano Nicholas Brownlee, che ha raffigurato un Wotan giovanile, ambizioso e affermativo, vocalmente impeccabile. Ottimo è apparso anche il Mime di Matthias Klink, incisivo e ficcante nel fraseggio. Meno convincenti erano il Froh di Ian Koziara e soprattutto il Loge di Sean Panikkar (vestito da esistenzialista con pullover dolcevita e calzoni neri), decisamente carente di personalità. Anche il Donner del baritono svizzero Milan Siljanov appariva mancante di peso vocale e autorità. Di buon spessore erano le voci dei bassi Matthew Rose e Timo Riihonen, interpreti di Fasolt e Fafner. Tra le voci femminili, eccellente era la Erda impersonata dal quarantunenne mezzosoprano Wiebke Lehmkuhl, originaria di Oldenburg, dalla voce davvero notevole per qualità timbrica e risonanza oltre che fraseggiatrice convincente nel suo tono solenne e ammonitore. Adeguata era anche Ekaterina Gubanova come Fricke, meno convincente è apparsa la Freia di Mirjam Mesak, suffcienti nel complesso le tre Figlie del Reno, interpretate da Sarah Brady, Verity Wingate e Yajie Zhang. Lunghi applausi per tutti, in un teatro completamente gremito da un pubblico che ha davvero Wagner nel DNA. Foto: Wilfried Hösl
Categorie: Musica corale

Torino, Teatro Regio: la “Manon Lescaut” di Auber (cast alternativo)

Dom, 03/11/2024 - 08:46

Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera 2024-2025 ‒ Manon Manon Manon
“MANON LESCAUT”
Opéra comique in tre atti su libretto di Eugène Scribe
Musica di Daniel François Esprit Auber
Manon Lescaut MARIE-EVE MUNGER
Il marchese d’Hérigny EDWARD NELSON
Lescaut FRANCESCO SALVADORI
Des Grieux MARCO CIAPONI
Madame Bancelin MANUELA CUSTER
Renaud GUILLAUME ANDRIEUX
Marguerite LAMIA BEUQUE
Gervais ANICIO ZORZI GIUSTINIANI
Monsieur Durozeau PAOLO BATTAGLIA
Un sergente TYLER ZIMMERMAN
Un borghese JUAN JOSÉ MEDINA
Zaby ALBINA TOKHIKH
Orchestra e coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Guillaume Tourniaire
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Regia Arnaud Bernard
Scene Alessandro Camera
Costumi Carla Ricotti
Luci Fiammetta Baldiserri
Video Marcello Alonghi
Torino,  27 ottobre 2024
Manon, la donna, il cinema. La triade ideale che sorregge la serie di spettacoli firmata da Arnaud Bernard ritorna anche in questo allestimento della “Manon Lescaut” di Auber, la più remota delle trasposizioni operistiche dell’eroina di Prevost andata in scena la prima volta nel 1856.
Questa precocità del titolo ispira il regista che ci riporta all’alba stessa della settima arte. La scena riproduce i primi teatri di posa costruiti da Méliès a Montreuil. Quello cui assistiamo è il retroscena del cinema, in pesa diretta vediamo girare – in piena belle époque – un film su Manon Lescaut. Se gli estratti cinematografici proiettati sono più tardi – tratti da “When a man loves” del 1927 con John Barrymore e Dolores Costello – il mondo che si vuole trasmettere è quello delle prime sperimentazioni cinematografiche quando grazie a Méliès il cinema supera la dimensione prettamente documentaria dei Lumière per farsi forma d’arte e strumento narrativo.
La scena è a doppio livello: il grande teatro di posa in ferro-cemento e al suo interno i fondali in cui viene girata la vicenda di Manon. Anche i costumi giocano sui due piani mischiando un Settecento di cartapesta ad abiti – spesso eleganti – di fine Ottocento. Uno spettacolo che pur attraverso un’ottica francese ha una sua evidente cifra di torinesità. Capace di ricordare quando le rive del Po si coprivano di teatri di posa e grazie a Pastrone e altri la città subalpina era una delle capitali mondiali del nuovo mondo dei sogni in celluloide. Curatissimi tutti i dettagli e strepitoso il gioco attoriale – possibile grazie alle ottime doti di tutti: solisti, coro e figuranti – anch’esso sfalsato si due piani tra la naturalezza del mondo moderno fuori scena e l’imitazione di quella recitazione enfatica e caricata tipica dell’epoca sulla scena.
Guillaume Tourniaire dirige con proprietà e senso stilistico la diseguale partitura. Esprime tutta la brillantezza delle pagine più ispirate e riesce a mantenere il giusto controllo nei momenti più stanchi – che non mancano – evitando il più possibile che una certa noia cominci ad aleggiare. Purtroppo una drammaturgia fin troppo imborghesita e l’assenza di autentici contrasti tendono a essere il punto più debole di un lavoro che invece sprizza freschezza e vivacità dalle arie più leggere e dai pezzi d’assieme, mirabilmente concepiti. Molto buona la prova dell’orchestra e superlativa quella dell’impegnatissimo coro, fondamentale anche per la riuscita scenica dello spettacolo.
Marie Eve-Munger (Manon) ha il gusto e il senso dello stile perfetti per questo repertorio. Vocalmente è brillante, facile nei passaggi di coloratura anche se qualche durezza si nota sugli estremi acuti. La voce non è piccola e risuona bene in sala e nei momenti più patetici dimostra un’emissione elegante e ben controllata. Scenicamente forse non ha il fascino di Manon ma è simpatica e comunicativa.
Marco Ciaponi è un Des Grieux che prende corpo con il prosieguo della recita. Inizialmente quando la scrittura è più brillante e svagata sembra fin troppo prudente mentre nel terzo atto quando il dramma fa capolino e il canto si fa più sincero e intenso esce con convinzione mostrando una sincera partecipazione al dramma del personaggio. La voce è fresca e squillante, leggera ma non esangue. La tessitura e retta con sicurezza e gli acuti non mancano di bello squillo.
Edward Nelson affronta il marchese d’Hérigny con voce forse un po’ piccola ma ottima musicalità e accento nobile ed elegante. La parte del “rivale” e qui più lunga e più sfumata del solido, facendo emergere un personaggio in fondo sincero e di anima nobile che il canto di Nelson riesce a cogliere con eleganza.
Veramente ottime tutte le parti di fianco. Francesco Salvadori è un Lescaut di solidissima voce e ben centrato sul piano dello spettacolo. Nel ruolo – assente in Prevost – di Marguerite, amica di Manon e incarnazione del buon senso di cui latita la protagonista, si fa apprezzare per radiosa vocalità e sincerità d’accento Lamia Beuque. Il suo fidanzato Gervais ha la voce lirica e morbida di Anicio Zorzi Giustiniani che riesce a trasmettere anche il carattere idealista di questo civilizzatore delle Americhe. Manuela Custer con la sua personalità riesce a dare rilievo al ruolo di per se anonimo di Madame Bancelin. Guillaume Andrieux ha la giusta irruenza per lo schiavista Renaud mentre Paolo Battaglia è un po’ anonimo nei panni del commissario di quartiere Monsieur Durozeau.Sala non gremita ma buona presenza di pubblico – buon segno per un titolo così desueto – e caloroso successo per tutti gli interpreti. Foto Daniele Ratti

 

Categorie: Musica corale

Le Cantate di Johann Sebastian Bach: ventitreesima domenica dopo la Trinità

Dom, 03/11/2024 - 00:45

La seconda, in ordine cronologico, delle tre Cantate bachiane previste per questo giorno festivo è Wohl dem, der sich auf seinen Gott BWV 139 eseguita la prima volta a Lipsia il 12 novembre 1724 per essere poi ripresa, sempre a Lipsia,  nel 1735 e nel 1747, L’opera utilizza un Inno di recente creazione (1714) di Johann Cristian Rube (1645-1746) predisposto per la Cantata da un ignoto versificatore che ha utilizzato le strofe da 2 a 4 del Corale, che conta complessivamente di 5 strofe nei numeri 1,2, 4 e 5, mentre il nr.3 è di libera invenzione e si riallaccia al tema evangelico del tributo a Cesare. Il Coro iniziale (Nr.1) costituisce un altro di quei formidabili esempi  di ideazione strutturale preordinata che sono frequentissimi nella produzione bachiana. Un’altra pagina geniale che colpisce immediatamente all’ascolto. Il resto della cantata segue il consueto alternarsi di recitativo, aria, recitativo, aria, recitativo e corale finale. La prima aria (nr.2), cantata dal tenore, ha un bell’accompagnamento di violino concertante e  scorre via piacevolmente. La seconda aria (Nr.4), questa volta per il basso solista, è forse la più interessante. Una forma di “rondò” che presenta diverse sezioni e stati d’animo contrastanti, resi dalle mutazioni di tempo. In entrambe le arie è stata necessaria una certa ricostruzione della parte strumentale poiché la cantata è giunta a noi solo come un insieme di parti apparentemente incomplete. La cantata si conclude con un semplice corale.
Nr. 1- Coro
Beato chi si affida al suo Dio
come un bambino!
Anche se il peccato, il mondo, la morte
e tutti i demoni lo odiassero,
egli si accontenterebbe
di aver conquistato l’amicizia di Dio.
Nr.2 – Aria (Tenore)
Dio è mio amico: cosa può la rabbia che
un nemico solleva contro di me?
Io sono sicuro anche in mezzo a odio ed invidia.
Sì, anche se raramente dite la verità,
se siete sempre falsi, che m’importa?
Voi dileggiatori non siete una minaccia per me.
Nr.3 – Recitativo (Contralto)
Il Signora manda i suoi
proprio in mezzo ai lupi furiosi.1
Tutt’intorno l’empia moltitudine
si è riunita con astuzia
per recare offesa e scherno;
ma se la sua bocca pronuncia parole di saggezza,
egli mi protegge persino dal mondo.
Nr.4 – Aria (Basso)
Da ogni lato la sventura
avvolge intorno a me pesanti catene.
Ma subito mi soccorre la sua mano.
Da lontano la luce del conforto brilla su di me;
allora imparo che Dio solo
è il miglior amico dell’uomo.
Nr.5 – Recitativo (Soprano)
Anche se porto il mio peggior nemico in me,
il pesante fardello dei miei peccati,
il mio Salvatore mi permetterà di trovare pace.
Rendo a Dio ciò che è di Dio,2
la parte più intima della mia anima,
se Lui ora la sceglie, la colpa del peccato
svanisce, l’inganno di Satana è vinto.
Nr.6 – Corale
Perciò sfido le legioni infernali!
Sfido persino le fauci della morte!
Sfido il mondo intero! I suoi colpi
non possono più turbarmi!
Dio è mia protezione, mio aiuto, mio consiglio;
beato chi ha Dio come amico!
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Wohl dem, der sich auf seinen Gott” BWV 139

 

Categorie: Musica corale

Torino, Teatro Regio: “Manon Lescaut” di Auber

Sab, 02/11/2024 - 23:59

Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera 2024-2025 ‒ Manon Manon Manon
“MANON LESCAUT”
Opéra-comique in tre atti su libretto di Eugène Scribe, dal romanzo Histoire du chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut di Antoine-François Prévost
Musica di Daniel Auber
Manon Lescaut ROCÍO PÉREZ
Il marchese d’Hérigny ARMANDO NOGUERA
Des Grieux SÉBASTIEN GUÈZE
Lescaut FRANCESCO SALVADORI
Madame Bancelin MANUELA CUSTER
Renaud GUILLAUME ANDRIEUX
Marguerite LAMIA BEUQUE
Gervais ANICIO ZORZI GIUSTINIANI
Monsieur Durozeau PAOLO BATTAGLIA
Un sergente TYLER ZIMMERMANN
Un borghese JUAN JOSÉ-MEDINA
Zaby ALBINA TONKIKH
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Guillaume Tourniaire
Maestro del Coro Ulisse Trabacchin
Regia Arnaud Bernard 
Scene Alessandro Camera
Costumi Carla Ricotti
Luci Fiammetta Baldiserri
Nuovo allestimento Teatro Regio Torino
Torino, 24 ottobre 2024
Manon Lescaut di Daniel Auber è sicuramente la meno eseguita e conosciuta tra le tre versioni operistiche delle vicende narrate dall’abbé Prévost, che in ottobre il Teatro Regio ha presentato sul proprio palcoscenico per il progetto “Manon Manon Manon”. E la conseguenza è che ‒ nonostante la presenza dei partecipanti al congresso di Opera Europa, e dei melomani accorsi a Torino per la possibilità di seguire i tre titoli in giorni consecutivi ‒ la sala di piazza Castello era tutt’altro che gremita. Ogni commento sulla pigrizia mentale dei torinesi sarebbe ridondante. Il progetto registico di Arnaud Bernard ‒ che ha scelto di far dialogare le tre opere con il cinema, leggendo ciascuna con gli occhi di un’epoca della cinematografia storica del Novecento francese ‒ ha forse avuto nel titolo di Auber la sua manifestazione più nitida e intelligibile. In questo caso è infatti chiaro che in scena viene portato il set cinematografico di un film muto (il riferimento cronologico per Auber è infatti l’epoca del cinema muto, e il titolo messo direttamente in dialogo con l’opera è When a man loves di Alan Crosland), e che i solisti incarnano gli attori impegnati nelle riprese. Dato che When a man loves è un film in costume settecentesco tratto dal romanzo di Prévost, gli stessi principali protagonisti dell’opera recitano in costume, cosicché le contaminazioni di epoche e di media convivono con un aspetto visivo da allestimento tradizionale, e alcuni spezzoni del film, proiettati durante ouverture, entr’acte e interludi, integrano la drammaturgia di Auber con episodi del romanzo esclusi dalla trasposizione operistica. Il dialogo con il cinema viene quindi ad essere funzionale alla comprensione dell’opera, e aggiunge qualche stimolo di riflessione che non guasta, come quello sul rapporto tra personaggio e interprete (come nei couplets di Manon del I atto, dove la protagonista canta la prima strofa in veste di attrice, ed entra nel personaggio prima di intonare la seconda strofa) e sull’eternità dei drammi interiori dell’essere umano. La direzione di Guillaume Tourniaire ha assicurato alla partitura di Auber un’esecuzione abbastanza completa, sia pure non integrale, e ha permesso al pubblico di coglierne la peculiare natura di opéra-comique di epoca relativamente tarda (1856), quando il genere, senza rinnegare i propri riferimenti rossiniano-donizettiani (evidenti nell’ouverture), era ormai pronto ad evolversi verso, da un lato, la nascente operetta, e, dall’altro, l’opéra-lyrique: se all’operetta guardano i primi due atti di Auber, all’opéra-lyrique volge lo sguardo il terzo. Con il direttore, e con l’Orchestra e il Coro del Teatro Regio, si è resa protagonista di questa lettura il soprano Rocío Pérez, dalla voce di dimensione contenuta, ma precisa e svettante, che nei primi atti dà vita, con una bella brillantezza e un fraseggio molto curato, al carattere spontaneamente frivolo di Manon, e nel terzo non manca di portare sulla scena una figura estenuata dalla sofferenza e che pur tuttavia non perde delicatezza e grazia. Nella versione di Auber, il ruolo maschile più impegnativo dal punto di vista vocale è quello del Marchese d’Hérigny; e il baritono Armando Noguera, dopo una partenza lievemente sfocata, dà il meglio di sé nel II atto, che inizia con due sue arie in forma di couplets, separate da un duetto con Manon in cui lui fa la parte del leone: i colori, il fraseggio, l’uso della mezzavoce, tutto concorre a tratteggiare con espressività il carattere dell’uomo lascivo e sarcastico ma sempre contegnoso. La figura di Des Grieux emerge davvero solo nel finale II e nell’ultimo atto, in particolare nel lungo duetto conclusivo, dove il tenore Sébastien Guèze tratteggia con proprietà di linguaggio una disperazione non priva di dignità. Auber non conferisce particolare rilievo al personaggio di Lescaut, professionalmente impersonato dal basso Francesco Salvadori. Si distinguono maggiormente altre figure di contorno, come Marguerite (il soprano Lamia Beuque), protagonista di un duetto con Manon nel quale si è stagliata la contrapposizione di carattere tra la frivola rôle-titre e la brava ragazza tutta virtù domestiche. O come il suo fidanzato Gervais, cui il tenore Anicio Zorzi Giustiniani presta una delicata voce di grazia con qualche inflessione un po’ nasale. O, ancora, come il rude Renaud (il baritono Guillaume Andrieux), guardiano delle prigioni in Louisiana. Se era di lusso la presenza del mezzosoprano Manuela Custer quale Madame Bancelin, è giusto ricordare anche gli interpreti delle altre seconde parti: il basso Paolo Battaglia (Monsieur Durozeau), il basso Tyler Zimmermann (Un sergente), il tenore Juan José-Medina (Un borghese) e il soprano Albina Tonkikh (Zaby, privata della sua ballata). Tutti hanno contribuito al buon successo di questo spettacolo, che corona uno dei progetti artistici più interessanti proposti in anni recenti dai teatri d’opera italiani. Foto Daniele Ratti

Categorie: Musica corale

Roma, Teatro Vascello: “La Vegetariana”

Ven, 01/11/2024 - 23:59

Roma, Teatro Vascello
LA VEGETARIANA
scene dal romanzo di Han Kang Premio Nobel per la letteratura 2024
co-creazione Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese
regia Daria Deflorian
scene Daniele Spanò
luci Giulia Pastore
suono Emanuele Pontecorvo
costumi Metella Raboni
Roma, 01 Novembre 2024
«Ho fatto un sogno» dice Yeong-hye, e da quel sogno di sangue e di boschi scuri nasce il suo rifiuto radicale di mangiare, cucinare e servire carne, che la famiglia accoglie dapprima con costernazione e poi con fastidio e rabbia crescenti. È il primo stadio di un distacco in tre atti, un percorso di trascendenza distruttiva che infetta anche coloro che sono vicini alla protagonista, e dalle convenzioni si allarga al desiderio, per abbracciare infine l’ideale di un’estatica dissoluzione nell’indifferenza vegetale. La scrittura cristallina di Han Kang esplora la conturbante bellezza delle forme di rinuncia più estreme, accompagnando il lettore fra i crepacci che si aprono nell’ordinario quando si inceppa il principio di realtà – proprio come avviene nei sogni più pericolosi. La regia di Daria Deflorian è essenziale e tagliente, un esercizio di disciplina che si riflette nella scelta di uno spazio scenico volutamente spoglio, quasi ascetico. La scenografia, curata da Daniele Spanò, diventa una cassa di risonanza per l’alienazione della protagonista: un ambiente neutro, con pochi elementi, che suggerisce l’idea di uno svuotamento progressivo, di una realtà che si fa sempre più rarefatta man mano che Yeong-hye si allontana dalla società e dalle sue regole. La luce, disegnata da Giulia Pastore, è utilizzata come strumento narrativo: tagli netti e spazi ombrosi accompagnano il percorso della protagonista, sottolineando i momenti di crisi, il suo senso di perdita e, al tempo stesso, la sua ricerca di una nuova dimensione. L’atmosfera sonora, curata da Emanuele Pontecorvo, è una presenza costante, quasi ossessiva, che scandisce il tempo del dramma. Suoni ripetitivi, a tratti disturbanti, contribuiscono a creare un ambiente sospeso tra sogno e realtà, in cui lo spettatore si trova immerso nelle stesse inquietudini della protagonista. È un’esperienza sensoriale totalizzante, in cui la dimensione sonora diventa parte integrante della narrazione, amplificando l’effetto straniante della messa in scena. Gli attori non sono solo interpreti dei loro personaggi, ma diventano veicolo di simboli. La loro presenza è misurata, calibrata nei movimenti e nelle espressioni, come a voler sottolineare l’inevitabilità degli eventi. La ribellione di Yeong-hye è un atto che non può essere compreso da chi le sta attorno, ma che ha il potere di scuotere le fondamenta della loro esistenza. Le reazioni degli altri personaggi sono variegate: incredulità, desiderio, dolore. In ogni reazione, tuttavia, vi è l’incapacità di accettare l’altro nella sua unicità, di riconoscere la scelta di Yeong-hye come legittima e necessaria. La regia riesce a rendere palpabile questo conflitto interiore e collettivo, creando una tensione che cresce progressivamente, fino a esplodere nella scena finale. Le piantine deposte sul proscenio dai personaggi non sono solo simboli di crescita e rinnovamento, ma rappresentano anche il fallimento di una società che non riesce a comprendere la scelta di chi decide di non conformarsi. Sono un atto di resa, ma al tempo stesso un segno di speranza, un tentativo di ristabilire un contatto con quella natura da cui Yeong-hye cerca di trarre nuova linfa vitale. Il percorso di Yeong-hye è una discesa verso una forma di libertà assoluta, una libertà che passa attraverso la negazione di tutto ciò che è umano, di tutto ciò che la lega al mondo. Il rifiuto della carne, il rifiuto del corpo come veicolo di piacere e di sofferenza, sono passi verso una condizione di purezza che ha il sapore dell’annullamento. È una ricerca di pace, ma è anche una fuga dalla realtà, un tentativo di sottrarsi alle regole e alle imposizioni di una società che non lascia spazio alla differenza. Il simbolismo della rinuncia attraversa l’intera messa in scena: la carne gettata via, la nudità esposta senza pudore, il corpo che si fa sempre più leggero, quasi evanescente. Yeong-hye diventa il simbolo di una ribellione che non si accontenta di sfidare le convenzioni, ma che vuole distruggerle, andare oltre, raggiungere un punto di non ritorno. E in questo processo di autodistruzione c’è una bellezza conturbante, una forza che spaventa e affascina al tempo stesso. La scelta di Yeong-hye non coinvolge solo se stessa, ma investe anche tutti coloro che le stanno attorno. La famiglia, incapace di comprendere il suo rifiuto, reagisce con rabbia, con violenza, con un desiderio crescente di riportarla all’ordine. Il marito, la sorella, il cognato: ognuno di loro vede nella scelta di Yeong-hye una minaccia alla propria stabilità, un attacco al proprio mondo. E così, il rifiuto di mangiare carne diventa il punto di partenza per un conflitto che non riguarda solo il cibo, ma tocca le corde più intime dell’esistenza, mettendo in discussione l’identità, il desiderio, il bisogno di appartenenza. La relazione con il cognato, che vede in Yeong-hye un corpo da usare per la propria arte, è forse l’esempio più evidente di come la scelta della protagonista venga fraintesa e strumentalizzata. Il corpo di Yeong-hye, che lei cerca di liberare da ogni vincolo, diventa per gli altri un oggetto, uno strumento di controllo, un mezzo per soddisfare i propri desideri. La scena in cui il cognato dipinge il corpo di Yeong-hye, trasformandola in un’opera d’arte vivente, è una rappresentazione potente di questo conflitto: da un lato, il desiderio di Yeong-hye di essere libera, di non appartenere a nessuno; dall’altro, il tentativo del cognato di possederla, di renderla parte del proprio mondo. ‘La Vegetariana’ è uno spettacolo che colpisce per la sua intensità emotiva, per la capacità di portare sulla scena un conflitto che non riguarda solo la protagonista, ma che investe ogni spettatore, chiamandolo a riflettere sul significato della libertà, sul prezzo da pagare per essere veramente se stessi. Yeong-hye, con il suo rifiuto radicale, con la sua scelta estrema, ci mostra la bellezza e il terrore di una libertà totale, di una vita vissuta senza compromessi, senza paura. Una vita che, forse, non è fatta per essere vissuta, ma solo per essere sognata.

Categorie: Musica corale

Camille Saint-Saëns (1835 – 1921): “Dejanire” (1911)

Ven, 01/11/2024 - 10:29

Tragédie lyrique in quattro atti su libretto di Camille Saint-Saëns. Kate Aldrich (Déjanire), Julien Dran ( Hercule), Anaïs Constans (Iole), Jérôme Boutillier (Philoctète), Anna Dowsley (Phénice). Choeur de l’Opéra de Monte-Carlo, Stefano Visconti (maestro del coro), Orchestre Philharmonique de Monte-Carlo, Kazuki Yamada (direttore). Registrazione: Auditorium Rainier III, Montecarlo 12-16 ottobre 2022. 2 CD Fondazione Palazzetto Bru Zane Opéra français n. 39.
La riscoperta del catalogo di Saint-Saëns da parte della fondazione Palazzetto Bru Zane prosegue con l’ultimo lavoro del compositore: “Dejanire” originariamente pensata per les Arénes di Béziers nel 1898 e rivista nelle sue forme definitive per Montecarlo nel 1911. L’opera voleva rappresentare un tentativo di dramma musicale ancorato alla tradizione classica – la tragedia di Gallet che fornisce spunto all’opera è di fatto un rifacimento di Sofocle – in funzione anti-wagneriana. Le scelte musicale rientrato in un recupero erudito della tradizione francese. La prevalenza per un declamato aulico che affonda le sue radici in Berlioz e Spontini fino a risalire alla tragedia musicale sei e settecentesca, l’ampio uso di cori e ballabili, un continuo travasare delle forme sono tutti figli di una precisa volontà stilista. Grande impegno non sempre però retto da un’ispirazione all’altezza così che il lavoro risulta alquanto discontinuo tra momenti decisamente riusciti – soprattutto nei frangenti più lirici – in cui già si anticipano i futuri sviluppi dell’opera francese, il monologo di Iole del II atto sembra già aprire la strada a Mélisande – è brani in cui il compositore si salva con mestiere più che con ispirazione, come tanti brani d’atmosfera dal sapore decisamente pompier. Anche la tensione drammaturgica appare spesso ineguale anche in conseguenza di un libretto che al riguardo lascia non poco a desiderare, si veda solo con quale fretta viene di fatto bruciata tutta la forza espressiva della follia di Ercole, della sua morte e della sua ascesa all’Olimpo, risolte in pochi minuti privi di ogni autentica ispirazione.
Sul piano musicale l’esecuzione è decisamente valida e riserva alcune interessanti sorprese. Kazuki Yamada guida per l’occasione i complessi dell’Opéra di Montecarlo quasi a volersi ricollegare anche fisicamente al luogo dove l’opera vide la luce. Il maestro giapponese opta per una lettura molto rigorosa e per una grande chiarezza espressiva che punta a valorizzare le caratteristiche della scrittura riuscendo a cogliere il luminoso lirismo quasi massenetiano dei momenti più ispirati e cercando di dare una coerenza formale anche alle parti più generiche. La coerenza della lettura di Yamada è sicuramente l’elemento centrale per la riuscita della registrazione anche grazie alle ottime prestazioni dei complessi monegaschi che si mostrano in perfetta sintonia con quest’universo musicale. Una particolare menzione al coro che trova accenti di aulica grandezza come nell’intenso “Comme la Ménade en délire” che annuncia l’entrata della protagonista.
Quest’ultima è Kate Aldrich, mezzosoprano statunitense che ha trovato in Francia il proprio contesto ideale. La Aldrich è una solida professionista è un’interprete appassionata che compensa con l’autorevolezza dell’accento e l’impeto drammatico una voce che non è mai stata classicamente bella e che nel corso degli anni si è ulteriormente inaridita. Sul piano tecnico gli si può impuntare un uso fin eccessivo del vibrato ma fortunatamente il personaggio, sempre estremo nei suoi atteggiamenti, gli risulta interpretativamente assai congeniale.
Una prosodia francese non sempre perfetta non sorprende nell’Aldrich, lascia invece alquanto sgomenti la dizione veramente pessima di Anaïs Constans che è provenzale di Montauban – luogo di reminiscenze operistiche – e da cui si aspetterebbe miglior dizione. Per fortuna la voce è molto bella e il ruolo di Iole con il suo luminoso lirismo esalta le qualità della cantante. Iole ha forse i momenti più ispirati dell’opera come l’aria “Ce n’est pas comme vous” del secondo atto e l’intensa preghiera ad Atena “Pallas, vierge prudente et sage” e la Costans li canta con grazia invantevole.
Una cattiva dizione sembra una costante per le cantanti di questa è accomuna anche l’australiana Anna Dowsley che si fa comunque apprezzare per piacevolezza timbrica e musicalità nel breve ruolo di Phénice.
Dizione che invece risulta elemento di forza per la componente maschile del cast. Praticamente sconosciuto in Italia Julien Dran è la vera rivelazione di questa registrazione. Tenore eroico dalla voce solida e squillante, autorevole nella declamazione e di forte comunicativa è un Hercule veramente apprezzabile al netto di qualche piccola forzatura in acuto. Musicalmente la parte non è tra le più entusiasmanti, anzi è forse la più banale dell’opera nel suo taglio retorico e declamatorio – quanto i duetti con Dejanire sono qualitativamente lontani da quelli da quelli del “Samson et Dalila”– ma nonostante questo riesce a emergere con sicurezza.
La parte dell’amico e poi rivale Philoctète è più interessante nel suo delicato lirismo. Jérôme Boutillier incarna alla perfezione quel tipo di baritono dal timbro chiaro e dal canto nobile così tipico del repertorio francese. La coppia Hercule – Philoctète è un altro interessante esempio nel suo plasmarsi idealmente – nonostante le maggiori tensioni – su quella  Licinio – Cinna della “Vestale” di Spontini che a suo volta guardava a Gluck – della precisa volontà di recupero arcaistico portata avanti da Saint-Saëns in quest’opera.
Terminato l’ascolto non si grida al miracolo però si è ascoltato un lavoro interessante e non inutile da conoscere oltre alla scoperta d’interessanti interpreti della senza assai vivace scena lirica francese.

Categorie: Musica corale

RAI 5. Novembre 2024

Gio, 31/10/2024 - 19:42

Venerdì 1 novembre
Ore 10.00

“MOISE ET PHARAON”
Musica Gioachino Rossini
Direttore Riccardo Muti
Regia Luca Ronconi
Interpreti:Ildar Abdrazakov, Erwin Schrott, Giuseppe Filianoti, Sonia Ganassi, Barbara Frittoli…
Sabato 2 novembre
Ore 10.03
“CECCHINA, OSSIA LA BUONA FIGLIOLA”
Musica Niccolò Piccinni
Direttore Franco Caracciolo
Regia Virginio Puecher
Interpreti: Mirella Freni, Sesto Bruscantini, Werner Hollweg, Rita Talarico, Valeria Mariconda, Gloria Trillo, Bianca Maria Casoni.
Domenica 3 novembre / Sabato 9 novembre
Ore 10.00 /10.10

“L’ELISIR D’AMORE”
Musica Gaetano Donizetti
Direttore Mario Rossi
Regia Alessandro Bissoni
Interpreti: Mirella Freni, Renzo Casellato, Sesto Bruscantini, Mario Basiola, Elena Zilio.
RAI, 1968
Ore 11.57
Recital del tenore Renzo Casellato con la partecipazione del soprano Edda Vincenzi. Pagine da Mozart, Donizetti, Bizet e Massenet. Direttore Gennaro D’Angelo
Lunedì 4 novembre
Ore 10.00
“DAS RHEINGOLD”
Musica Richard Wagner.
Direttore Daniel Berenboim.
Regia Guy Cassiers
Interpreti: René Pape, Jan Buchwald…
Martedì 5 novembre
Ore 10.00
“DER FLIEGENDE HOLLANDER”
Musica Richard Wagner
Direttore Christian Badea
Regia Franz Marijnen.
Interpreti: Wolfgang Lenz, Dieter Brencke, Magdalena Cononovici, Robert Schunk, Silvana Mazzieri, Francesco Memeo…
Mercoledì 6 novembre
“SIEGFRIED”
Musica Richard Wagner
Direttore Daniel Barenboim
Regia Guy Cassiers
Interpreti: Lance Ryan, Peter Bronder,  Terje Stensvold, Johannes Martin Kränzle, Alexander Tsymbalyuk, Anna Larsson. Nina Stemme, Rinnat Moriah, Viviana Guadalupi…
Giovedì 7 novembre
Ore 10.00
“L’ITALIANA IN ALGERI”

Musica Gioachino Rossini
Direttore Bruno Campanella
Regia Joan Font
Interpreti: Marianna Pizzolato, Pietro Spagnoli, Marko Mimica, Boyd Owen, Omar Montanari, Sergio Vitale..
Venerdì 8 novembre
Ore 10.00
“LA FILLE DU REGIMENT”
Musica Gaetano Donizetti
Direttore Riccardo Frizza
Regia Emilio Sagi
Interpreti: Patrizia Ciofi, Juan Diego Florez, Francesca Franci, Nicola Ulivieri
Genova, 2005
Ore 21.15 – Domenica 10 novembre
Ore 17.55
“L’HISTOIRE DE MANON”
Musica Jules Massenet
Coreografia Kenneth McMillan
Direttore Paul Connelly
Interpreti: Nicoletta Manni, Reece Clarke, Nicola Del Freo, Gabriele Corrado, Martina Arduino, Francesca Podini, Gioacchino Starace
Domenica 10 novembre
Ore 10.00
“L’ITALIANA IN ALGERI”

Musica Gioachino Rossini
Direttore Jean-Christophe Spinosi
Regia Moshe Leiser, Patrice Caurier
Interpreti: Cecilia Bartoli, Ildar Abdrazakov, Edgardo Rocha, Alessandro Corbelli, Rebeca Olvera, José Coca Loza,, Rosa Bove
Lunedì 11 novembre
Ore 10.00
“PETER GRIMES”
Musica Benjamin Britten
Direttore Robin Ticciati
Regia Richard Jones
Interpreti:John Graham-Hall, Susan Gritton, Felicity Palmer,Ida Falk Winland, Simona Mihai, George Von Bergen…
Milano, 2012
Martedì 12 novembre
Ore 10.00

“DER ROSENKAVALIER”
Musica Richard Strauss
Direttore Richard Hickox
Regia Keith Warner
Interpreti: Anne Bolstad, Kurt Link, Palema Helen Stephen, Laura Claycomb, Jonathan Green, Adria Firestone…
Spoleto, 2000
Mercoledì 13 novembre
Ore 10.00
“L’ORFEO”
Musica Claudio Monteverdi
Direttore Rinaldo Alessandrini
Regia Bob Wilson
Interpreti: Georg Nigl, Sara Mingardo, Roberta Invernizzi, Giovanni Battista Parodi, Luigi De Donato…
Milano, 2009

Categorie: Musica corale

Verona, Teatro Filarmonico: la prima volta di “Stiffelio”

Gio, 31/10/2024 - 14:23

Verona, Teatro Filarmonico, Stagione Lirica 2024                                                    “STIFFELIO”
Dramma lirico in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Stiffelio STEFANO SECCO
Lina DANIELA SCHILLACI
Stankar VLADIMIR STOYANOV
Raffaele CARLO RAFFAELLI
Jorg GABRIELE SAGONA
Federico FRANCESCO PITTARI
Dorotea SARA ROSSINI
Orchestra e Coro della Fondazione Arena di Verona
Direttore Leonardo Sini
Maestro del CoroRoberto Gabbiani
Regia e Luci Guy Montavon
Scene e Costumi Francesco Calcagnini
Allestimento del Teatro Regio di Parma in coproduzione con Opéra de Monte-Carlo
Prima rappresentazione a Verona
Verona, 29 ottobre 2024
In linea con le scelte degli ultimi anni la Fondazione Arena presenta al Filarmonico alcune prime interessanti: dopo Il segreto di Susanna e Il campiello di Wolf Ferrari e Amleto di Faccio, ecco approdare a Verona l’inedito Stiffelio di Verdi in un allestimento del Regio di Parma del 2012 e di seguito ripreso all’Opéra di Montecarlo. Il soggetto di Stiffelio è un apologo morale, chiaro e semplice ma soprattutto realistico e contemporaneo per l’epoca (siamo nel 1850): allo stesso tempo, tuttavia, presenta dei limiti poiché manca il classico intreccio amoroso, non abbiamo quella varietà emotiva dei singoli personaggi tanto cara al comporre verdiano, il celebre fraseggio latita e il finale è debole perché lo stesso facile perdono non è nelle corde drammaturgiche di Verdi. Persino l’omicidio, l’unico episodio violento di tutta la vicenda, avviene fuori scena. A bilanciare le sorti dell’opera vi è però la musica interessante dove alcuni numeri, abbandonando i canoni belcantistici, anticipano già la maturità della Trilogia popolare che prenderà forma di lì a poco. La stessa scrittura orchestrale, inoltre, non si limita ad un mero accompagnamento delle voci ma racconta l’azione e vive direttamente il dramma in scena. Sta di fatto, purtroppo, che a detta dello stesso Verdi, pur accolto abbastanza bene alla prima triestina, Stiffelio non poté comunque camminare con le proprie gambe, né gli giovò il rimaneggiamento in Aroldo dato a Rimini nel 1857. Lo spettacolo di Guy Montavon si mantiene prudente ed essenziale, sostanzialmente rispettoso della tradizione, coadiuvato dalle scene e i costumi di Francesco Calcagnini impostati sulla ieraticità del colore grigio, un richiamo all’ambiente austero assasveriano. Unico elemento di contrasto, il costume di Raffaele, dai colori caldi, quasi a sottolineare la sua estraneità alla sfera religiosa e morale della vicenda, oltre alla macchia dell’adulterio, e quello bianco di Lina che aspira al perdono finale che avrà da Stiffelio in quanto pastore, ma forse non dal marito. L’impianto scenico è teso ad immagini didascaliche, un lungo tavolo con crocifisso nel primo atto, un grande cancello per il secondo, una grande Bibbia nel finale catartico della pericope dell’adultera, episodio sottolineato dalle pietre sospese sulle teste dei peccatori; il lato negativo, tuttavia, è la profondità dello spazio scenico che tende a fagocitare le voci dei solisti e del coro. Di ottima fattura il disegno luci, firmato dallo stesso Montavon. Interprete del ruolo eponimo era Stefano Secco il quale, pur non godendo di pagine mirabili o delle sfumature psicologiche di cui è ricco il teatro verdiano, riesce a giocare sul contrasto tra la protervia dell’autorità religiosa e l’intima sofferenza della sua condizione di uomo tradito. La voce è più da lirico, adatta più al primo Verdi che a quello dei ruoli posteriori e talune forzature ne hanno talvolta compromessa l’intonazione ma la sua prova è stata comunque all’altezza della situazione. Daniela Schillaci, pur non brillando particolarmente, ha offerto una Lina sospesa tra il rimorso del tradimento e il desiderio di ricongiungersi allo sposo, con buona vocalità, anch’essa però privata di pagine che ne sottolineino la lotta interiore emotiva. Il migliore della compagnia di canto è stato Vladimir Stoyanov, in grande forma vocale, efficace nell’aria del terzo atto, che ha reso il ruolo di Stankar ossessionato dall’onta e il disonore accentuandone benissimo la durezza inflessibile. Nei ruoli minori, puntuali e ben disegnati l’altero (ma non di grande spessore drammatico) Raffaele di Carlo Raffaelli, lo Jorg nobile e solenne di Gabriele Sagona, Federico e Dorotea interpretati rispettivamente da Francesco Pittari e Sara Rossini. Dal podio il giovane Leonardo Sini gioca sui contrasti dinamici del tessuto orchestrale, (l’elemento più evidente della partitura) con direzione energica e calibrata, tesa ad esaltare la cantabilità, assecondato dall’Orchestra della Fondazione Arena in forma smagliante (eccellente la prima tromba nella sinfonia). Ottimo come sempre l’apporto del coro della Fondazione preparato da Roberto Gabbiani, purtroppo ancora una volta acusticamente penalizzato dalla profondità siderale del palcoscenico. Pubblico non numeroso, ma si trattava pur sempre di una recita infrasettimanale, comunque unanime nel manifestare il proprio consenso. In conclusione, uno Stiffelio ottimale, opera minore di Verdi quantunque di straordinaria modernità per l’epoca in cui fu scritta: vi si tratta il tema del divorzio, per di più chiesto da un pastore protestante. Repliche il 31 ottobre e il 3 novembre. Foto Ennevi per Fondazione Arena.

Categorie: Musica corale

Le Cantate di Johann Sebastian Bach: Festa della Riforma

Gio, 31/10/2024 - 00:06

Gott der Herr ist Sonn und Schild BWV 79 è, in ordine cronologico, la prima nuova partitura per questa festa. La Cantata BWV80 (Ein feste burg) era stata riadattata per la Festa della Riforma, ma era originariamente nata per la “Dominica Oculi”. La BWV 79 è invece la prima partitura espressivamente scritta per questa importante celebrazione luterana eseguita la prima volta a Lipsia il 31 ottobre 1725 e successivamente ripresa sempre a Lipsia tra il 1728 e il 1731 con la modifica di alcuni strumenti nell’organico strumentale. Da notare inoltre che i nr.1, 2 e 5 hanno fornito a Bach il materiale musicale per due delle Messe luterane, la BWV 234 e la 236. La partitura si apre con una citazione dal Salmo 84, versetto 12: “Il Signore Dio è sole e scudo; il Signore concede grazia e gloria, non rifiuta il bene a chi cammina con rettitudine”, un Coro (Nr.1)supportato da un ricco apparato strumentale, cui emergono le scintillanti sonorità di una coppia di corni, sulla cadenzata percussione dei timpani in funzione “concertante” con gli oboi e gli archi. Su questo gioco di alterni spessori sonori cui corrisponde  anche una diversa situazione tematica (in particolare quello espresso dalla tromba), si innesta il movimento fugato delle parti corali a struttura tripartita con un’ultima sezione la prima sezione corale e la parte iniziale e finale dell’introduzione strumentale. Una porzione del materiale di quest’ultima, quella affidata ai corni e ai timpani ritorna nei 2 Corale Nr.3 e 6. La Cantata è completata da un’aria per contralto con oboe concertante (Nr.2), un recitativo  del basso (Nr.4) e un’aria-duetto per soprano e basso (Nr.5) caratterizzato da una forte carica ritmica.
Nr.1 – Coro
Il Signore Dio è sole e scudo;
il Signore concede grazia e gloria,
non rifiuta il bene a chi cammina con rettitudine
Nr.2 – Aria (Contralto)
Dio è nostro sole e scudo!
Perciò il nostro cuore riconoscente
lo loda per la bontà
con cui protegge il suo piccolo gregge.
E infatti continuerà a proteggerci,
anche se i nemici affilano le loro frecce
e il cane dell’empietà sempre abbaia.
Nr.3 – Corale
Rendete grazie a Dio
con il cuore, la bocca e le mani,
Egli fa grandi cose
per noi e in tutti i modi,
per noi sino dal seno materno
e dalla nostra infanzia
ha compiuto innumerevoli cose buone
e tante continua a farne.
Nr.4 – Recitativo (Basso)
Dio sia lodato, noi conosciamo
il giusto cammino verso la felicità;
poiché tu, Gesù, ce lo hai rivelato con la tua Parola,
e dunque il tuo nome sia sempre lodato.
Eppure visto che tanti
in questo tempo
un giogo ingannatore
per cecità devono portare,
ah!, abbi pietà
anche di loro nella tua grazia,
affinché possano riconoscere il giusto cammino
e chiamarti loro mediatore.
Nr.5 –  Aria/Duetto (Soprano, Basso)
Dio, o Dio, non abbandonare i tuoi
mai più!
Fai splendere su di noi la tua Parola;
per quanto furiosamente
i nostri nemici si scaglino contro di noi,
la nostra bocca proclami la tua lode.
Nr.6 – Corale
Conservaci nella verità,
donaci la libertà eterna,
perché il tuo nome sia glorificato
per Gesù Cristo. Amen.
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S. Bach: Cantata “Gott der Herr ist Sonn und Schild” BWV 79
Categorie: Musica corale

Roma, Museo di Roma: “Roma Pittrice. Artiste al lavoro tra XVI e XIX secolo”

Mer, 30/10/2024 - 23:08

Roma, Museo di Roma, Palazzo Braschi
ROMA PITTRICE. ARTISTE AL LAVORO TRA XVI E XIX SECOLO
A cura di Ilaria Miarelli Mariani (direttrice della Direzione Musei Civici Sovrintendenza capitolina) e Raffaella Morselli (Sapienza, Università di Roma)
Con la collaborazione di Ilaria Arcangeli (Ph.D Università di Chieti Gabriele D’Annunzio).
Organizzazione Zètema Progetto Cultura
Roma, 30 Ottobre 2024
“L’arte non può essere moderna. L’arte è eterna.” – Marina Abramović
Il progetto espositivo “Roma Pittrice” presso il Museo di Roma celebra il talento artistico femminile che, dal XVI al XIX secolo, ha contribuito a tessere il ricco arazzo dell’arte occidentale, spesso celato tra le pieghe di una storiografia omissiva e androcentrica. La mostra, aperta dal 25 ottobre 2024 al 23 marzo 2025, si configura come un viaggio nella Roma delle artiste: una città-laboratorio che ha visto il fiorire di talenti femminili spesso ignorati o attribuiti erroneamente a maestri maschi. Attraverso circa 130 opere di cinquantasei artiste, “Roma Pittrice” è un omaggio tardivo ma necessario al lavoro delle donne che hanno sfidato i confini del contesto sociale e culturale del loro tempo, partecipando alla costruzione della fisionomia estetica della Roma moderna. La visione curatoriale della mostra si ispira alla storiografia sei-settecentesca, evocando il titolo della “Felsina Pittrice” di Carlo Cesare Malvasia, in cui le scuole pittoriche italiane cercavano di definire la propria autonomia rispetto all’egemonia fiorentina. “Roma Pittrice” si propone di restituire voce alle artiste, rivendicando il loro ruolo nella Roma Capitale delle Arti, non più come comprimarie, ma come protagoniste capaci di esprimere una specificità creativa irriducibile. Il viaggio inizia con Lavinia Fontana, figura centrale del tardo Cinquecento, bolognese di origine, che a Roma trovò terreno fertile per la sua produzione artistica. Il suo autoritratto su rame, mai esposto prima, è il simbolo della consapevolezza di sé come artista e donna. Questa coscienza individuale si manifesta poi nelle opere di Artemisia Gentileschi, che incarnò il tormento e l’emancipazione della condizione femminile. Le sue tele esposte – Cleopatra, L’Aurora e Giuditta – segnano il percorso esistenziale e artistico della pittrice, in una tensione tra drammaticità e sensualità che eleva il corpo femminile a strumento di potere e riscatto. Un altro tassello del mosaico è rappresentato dalle nature morte, genere che trovò un terreno di espressione inaspettato per molte artiste, quali Laura Bernasconi e Anna Stanchi. La loro capacità di rappresentare oggetti quotidiani con precisione scientifica si colloca tra arte e botanica, in un gioco di contrasti tra il microcosmo naturale e il macrocosmo umano, richiamando il connubio tra arte e scienza tipico dell’epoca barocca. Particolarmente significativo è il prestito dall’Accademia di San Luca: un album di miniature di Giovanna Garzoni, dove il dettaglio diviene strumento di affermazione artistica e di appropriazione del sapere naturalistico. Nel corso del Seicento, Roma si conferma luogo di apprendistato e mercato per le artiste, nonché spazio di consolidamento della loro presenza in accademie e istituzioni come l’Accademia di San Luca e quella dei Virtuosi al Pantheon. La mostra documenta il lento ma inesorabile ingresso delle donne nelle istituzioni tradizionalmente riservate agli uomini, come testimonia la presenza delle opere di Plautilla Bricci, figura singolare, architettrice e pittrice, il cui progetto per la Villa del Vascello – rappresentato da prospetti ottocenteschi – è il segno tangibile di una volontà creativa che non conosce limiti di genere. Nell’esposizione emerge anche la figura di Angelika Kauffmann, artista di origine svizzera che a Roma trovò un ambiente propizio per la sua affermazione. La sua casa-atelier divenne punto d’incontro per intellettuali e artisti, e le sue opere, intrise di classicismo e sensibilità preromantica, segnano un momento di transizione fondamentale verso il gusto neoclassico. La sua carriera internazionale è simbolo del riconoscimento di Roma come crocevia di culture e luogo di elezione per l’arte femminile. Il percorso della mostra si estende anche al XIX secolo, quando la situazione delle artiste inizia a mutare sensibilmente, non solo per un crescente riconoscimento pubblico ma anche per la possibilità di accedere a una formazione più strutturata. Louise Seidler ed Emma Gaggiotti rappresentano questa evoluzione. Di Gaggiotti sono esposti per la prima volta il Ritratto di famiglia e due opere provenienti dai depositi degli Uffizi e dei Vaticani, finalmente riportate alla luce grazie a un accurato restauro. Queste opere, insieme all’Autoritratto degli Uffizi, testimoniano la crescita di un nuovo protagonismo femminile nella scena artistica internazionale, in cui l’autoritratto diviene strumento di affermazione identitaria. La mostra si conclude con una riflessione sul rapporto tra le artiste e la città di Roma: un legame che non è solo geografico, ma profondamente esistenziale. La capitale, con i suoi monumenti, i suoi salotti e le sue accademie, si fa non solo sfondo, ma vera e propria “personificazione” del genio femminile, che in essa trova ispirazione e riconoscimento. Roma diventa, in un certo senso, pittrice essa stessa, non più solo luogo fisico ma entità vivente che accoglie e restituisce il riflesso delle vite e delle opere di coloro che l’hanno abitata e amata. Il valore simbolico della mostra è ulteriormente rafforzato dalla presenza di opere che ci restituiscono l’immagine delle artiste, non più solo come produttrici di arte, ma anche come soggetti ritratti, spesso in contesti di vita quotidiana o in pose che evocano una nuova consapevolezza del loro ruolo nella società. I ritratti di cantanti, attrici e salonnière rappresentano il volto moderno della donna-artista, capace di attraversare i confini tra le diverse forme di espressione culturale, contribuendo a ridefinire il ruolo stesso dell’arte nella società del XIX secolo. “Roma Pittrice” non si limita a raccontare un passato glorioso e spesso dimenticato, ma invita il visitatore a proseguire idealmente il percorso tra le vie della città. Una mappa delle opere di artiste esposte nei luoghi pubblici di Roma, disponibile in formato sia espositivo che cartaceo, consente di estendere l’esperienza della visita, facendo della città stessa un museo diffuso. La mostra rende omaggio al ruolo delle donne nella storia dell’arte, proponendo una fruizione che supera la mera osservazione per creare un dialogo tra passato e presente. È un viaggio storiografico che riscopre opere dimenticate e figure marginalizzate, affermando Roma come centro culturale che valorizza il contributo femminile.

 

Categorie: Musica corale

Roma, Scuderie del Quirinale: La grande mostra “Guercino. L’era Ludovisi a Roma”

Mer, 30/10/2024 - 17:52

Roma, Scuderie del Quirinale
GUERCINO. L’ERA LUDOVISI A ROMA
Giovanni Francesco Barbieri, detto Guercino (Cento 1591 – Bologna 1666), è stato uno dei più grandi esponenti della pittura barocca italiana.
La sua arte si distingue per l’uso magistrale della luce e del colore, capace di creare una narrazione intensa e vibrante, pur evitando il realismo crudo di Caravaggio. Guercino fu influenzato da Ludovico Carracci, che gli insegnò l’uso del chiaroscuro e una tecnica pittorica fluida e dinamica. Cresciuto nel contesto della tradizione padana, l’artista arricchì il suo linguaggio con elementi della pittura veneziana del Cinquecento e con l’influenza ferrarese di Dosso Dossi e Scarsellino, sviluppando così uno stile unico che univa esuberanza cromatica e ricerca luministica. La chiamata a Roma da parte del cardinale Alessandro Ludovisi, che divenne papa Gregorio XV nel 1621, segnò un punto di svolta per Guercino. Roma era allora il centro di un vivace fermento artistico, dove tradizione e innovazione si incontravano. Guercino, anziché seguire i modelli di Guido Reni o Annibale Carracci, sviluppò uno stile personale che combinava classicismo e una sensibilità moderna. Le pitture ad olio del Casino Ludovisi, in particolare l’Aurora, sono un esempio di questo approccio innovativo: le figure sono animate da una vitalità espressiva che contrasta con la compostezza formale del Reni, mentre la sua tavolozza esplosiva dissolve i contorni, donando alle opere un’immediatezza unica. La luce nelle opere di Guercino è un elemento narrativo, simbolico e poetico. Negli affreschi del Casino Ludovisi, l’Aurora diventa allegoria della rinascita, resa attraverso una luce che crea un’atmosfera di speranza e meraviglia. Questo uso evocativo della luce è uno degli elementi distintivi del suo linguaggio pittorico. Durante il suo soggiorno romano, Guercino realizzò anche il grande dipinto “Sepoltura e Assunzione di Santa Petronilla” per la Basilica di San Pietro, oggi conservato nella Pinacoteca Capitolina ed in copia in questo allestimento. In quest’opera, l’artista riuscì a combinare la grandiosità della scena sacra con un toccante realismo popolare. Le figure nella parte inferiore richiamano il naturalismo di Caravaggio, ma con un tono più lirico e meno drammatico. Guercino cercava sempre un equilibrio tra il divino e l’umano, rendendo le scene sacre accessibili e profonde. La mostra “Guercino. L’era Ludovisi a Roma”, alle Scuderie del Quirinale dal 31 ottobre 2024 al 26 gennaio 2025, celebra questo periodo cruciale della carriera dell’artista. Curata da Raffaella Morselli e Caterina Volpi, la mostra è il frutto di un lungo lavoro di preparazione e di una visione straordinaria. Con oltre 120 opere provenienti da importanti musei italiani, europei e americani, l’esposizione ricostruisce il contesto culturale della Roma degli anni Venti del Seicento, mettendo Guercino a confronto con maestri come Guido Reni, Domenichino, Albani, Lanfranco, Van Dyck, Bernini, Pietro da Cortona e Poussin. La mostra si articola in diverse sezioni che esplorano i vari aspetti della produzione artistica del Guercino a Roma, dalle opere realizzate per papa Gregorio XV agli affreschi del Casino Ludovisi. L’esposizione mette in luce come Guercino sia riuscito a reinterpretare le influenze dei grandi maestri dell’epoca, fondendo queste ispirazioni in uno stile personale e innovativo. Le opere in mostra permettono di seguire da vicino l’evoluzione artistica del maestro, mostrando come egli abbia saputo coniugare una forte narrazione con una profonda sensibilità atmosferica. Un tema centrale della mostra è il dialogo tra Guercino e gli altri artisti del suo tempo. Questo confronto è reso possibile dall’accostamento delle sue opere con quelle di Annibale e Ludovico Carracci, Guido Reni, Domenichino, Bernini e Van Dyck. Il visitatore è immerso in un’esperienza visiva straordinaria, arricchita dalla presenza di capolavori cinquecenteschi appartenenti alla collezione Ludovisi, che influenzarono la nascita di una corrente neo-veneta nella pittura romana del Seicento. Inoltre, l’esposizione è accompagnata da un apparato critico che analizza nel dettaglio la tecnica pittorica di Guercino, il suo uso del colore e della luce, e la sua capacità di trasmettere emozioni profonde. Durante il suo periodo romano, Guercino affrontò le sfide di una committenza ambiziosa e sofisticata, sperimentando audaci soluzioni spaziali e cromatiche che superavano i limiti del classicismo tradizionale e integrando la tradizione decorativa romana con elementi innovativi della scuola veneziana. La mostra “Guercino. L’era Ludovisi a Roma” offre non solo l’opportunità di ammirare le opere del maestro, ma anche di comprendere il contesto storico e culturale che ha plasmato il suo stile. L’arte di Guercino riflette un periodo di grande trasformazione per Roma, un momento in cui l’eredità del Rinascimento veniva reinterpretata alla luce delle nuove sensibilità barocche. Il pontificato di Gregorio XV e il ruolo del cardinale Ludovisi furono determinanti nel promuovere un’arte capace di emozionare e coinvolgere il pubblico, rendendola uno strumento al servizio della Chiesa. La committenza Ludovisi rappresentò per Guercino una straordinaria opportunità di crescita, permettendogli di affermarsi in un ambiente in cui l’arte era uno strumento di potere e di persuasione. La presenza in mostra di opere di Bernini, Pietro da Cortona e Van Dyck, accanto a quelle di Guercino, permette di ricostruire un quadro completo della scena artistica romana degli anni Venti del Seicento. In quel periodo, gli artisti partecipavano a una competizione serrata per ottenere le commissioni più prestigiose, contribuendo a plasmare l’estetica del Barocco. Un altro aspetto di grande interesse è il ruolo del mecenatismo Ludovisi. La famiglia Ludovisi, con la sua passione per l’arte e l’antichità, creò un ambiente stimolante per artisti come Guercino, offrendo loro l’opportunità di lavorare a stretto contatto con capolavori del passato. Il collezionismo Ludovisi, con la sua attenzione per le opere di artisti veneziani e ferraresi, favorì il dialogo tra passato e presente, influenzando profondamente lo sviluppo dell’arte barocca. Questo elemento è ben rappresentato nella mostra, che include opere di Dosso Dossi, Paris Bordon e Jacopo Bassano, evidenziando come la tradizione cinquecentesca sia stata una fonte di ispirazione per Guercino e i suoi contemporanei. L’esposizione “Guercino. L’era Ludovisi a Roma” rappresenta quindi un’occasione unica per esplorare la complessità e la ricchezza di un periodo straordinario, in cui l’arte divenne uno strumento di espressione politica, religiosa e culturale.

Categorie: Musica corale

Giovanni Solinas interpreta musiche di Frescobaldi, Pachelbel, Bruhns…

Mer, 30/10/2024 - 16:54

Girolamo Frescobaldi (1583-1643) : Toccata prima, dal 2° libro; Johann Pachelbel (1653-1706): Ciaccona in Fa minore; Nicolaus Bruhns (1665-1697): Preludio in Mi minore; Georg Böhm (1661-1733): Vater unser im Himmelreich; Johann Sebastian Bach (1685-1750): Toccata e fuga in Re minore BWV 565; Guy Bovet (1942): Salamanca; Felix Mendelssohn (1809-1847): Sonata V op. 65; Leon Boellmann (1862-1897): Suite Gothique op.25; Franz Liszt (1811-1886): Preludio e Fuga su B-A-C-H. Giovanni Solinas (organo). Registrazione: dal 4 al 23 febbraio 2024 all’organo Stockmann della Chiesa di St Cornelius Dülken. Durata: 88’16’’. 2 Cd Motette Psallite CD MOT 15095
Pur in epoca di progetti discografici coerenti, è assolutamente benvenuta questa bella registrazione che nella sua eterogeneità (ma nella quale non mancano evidenti rimandi) ha la sua ragione unificante prima di tutto nell’accurato restauro dell’organo Stockmann nella Chiesa di St Cornelius a Viersen-Dülken, in Renania, costruito nei primi anni 60 del secolo scorso e che, dopo vari aggiornamenti, ha conosciuto ora un radicale rinnovo. Si tratta quindi di un repertorio scelto, nella sua varietà stilistica e cronologica, per mettere in evidenza le qualità timbriche e dinamiche di un bellissimo strumento, testimone di una grande civiltà musicale passata ma per fortuna ancora presente; il restauro è stato infatti finanziato dal Consiglio Parrocchiale col contributo della Diocesi di Aquisgrana. Ogni commento è superfluo: stiamo parlando di una cittadina di ventimila abitanti ma con un Kantor e organista titolare vincitore di concorso. Proprio l’organista titolare è ovviamente l’altro elemento unificante in questa registrazione: Giovanni Solinas, allievo di Adriano Falcioni ed emigrato da tempo in Germania, unisce le sue doti di naturale cantabilità italiana, tipicamente vocale, a un rigore tecnico che non cade mai nella rigidità agogica o nel virtuosismo fine a se stesso. Questo è un aspetto particolarmente importante perché un evidente filo conduttore tra tutti i brani, rappresentativi dell’arte organistica praticamente dall’origine fino ai nostri giorni, è la derivazione estemporaneo-improvvisativa, non certo rara nel repertorio organistico ma qui presente anche nelle forme di tradizione più strutturata, come la Sonata V di Mendelssohn (di cui Solinas da una bella ed espressiva lettura, soprattutto nell’andante centrale) o la celeberrima Toccata e Fuga in Re minore, da Bach già utilizzata come brano-test nella sua attività di collaudatore di organi, che ben testimonia la sua origine nell’alternanza di formule consuete e di contrasti espressivi e dinamici.
Il test è passato dallo strumento a pieni voti: magnifici soprattutto i ripieni e l’equilibrio nelle mutazioni, con una menzione riservata alla perfetta intonazione, persino in tutte le ance. Si tratta insomma, pur col filtro dell’incisione, di uno strumento erede di una grande tradizione organaria, dalla registrazione completa e ben progettata, di cui non si avvertono difetti tranne il fisiologico lieve ritardo nei registri più gravi dei pedali. Chiaramente, per quanto versatile, non è un organo fatto per eseguire Frescobaldi, ma la condotta espressiva dell’esecutore nelle parti e il collegamento “vocale” degli episodi nella Toccata danno un’esecuzione assolutamente convincente pur se non strettamente filologica. Bella e ben condotta anche la Ciaccona di Pachelbel, apprezzabile nella varietà della registrazione, fondamentale in brani simili, e nell’evidenza delle poderose ance della pedaliera. Da segnalare inoltre, nella parte antica, la precisa esecuzione del Preludio di Bruhns, specialmente nell’ampio fugato cromatico, e l’interessante esposizione di Vater unser im Himmelreich di Böhm, classico corale con canto fiorito al soprano su un’evidente talea ritmica. È comunque soprattutto nella parte romantico-moderna, nel secondo CD, che lo strumento dà il meglio di se: dagli umoristici effetti di Salamanca di Bovet alla bella proposta integrale dell’arcaizzante Suite Gotica di Boellmann, fino al grandioso monumento bachiano eretto da Liszt, Solinas sfrutta abilmente le risorse a disposizione, con una convincente tavolozza timbrica e dinamica dove l’alternanza di passi virtuosistici ed espressivi sono sempre funzionali al disegno globale e inseriti in maniera equilibrata nell’architettura strutturale dei brani. Da segnalare infine la curata veste grafica e il booklet completo e interessante.

Categorie: Musica corale

Vicenza, Teatro Olimpico: “Ariadne auf Naxos”

Mer, 30/10/2024 - 10:46

Vicenza, Teatro Olimpico, Vicenza Opera Festival 2024
“LE BURGEOIS GENTILHOMME SUITE”
ARIADNE AUF NAXOS”
Opera in un atto su libretto di Hugo von Hofmannsthal
Musica di Richard Strauss
Bacchus ANDREW STAPLES
Zerbinetta ANNA-LENA ELBERT
Ariadne EMILY MAGEE
Harlekin GURGEN BAVEYAN
Scaramuccio STUART PATTERSON
Truffaldino DANIEL NOYOLA
Brighella JUAN DE DIOS MATEOS
Najade SAMANTHA GAUL
Dryade OLIVIA VERMEULEN
Echo MIRELLA HAGEN
Attori UTKA GAVUZZO, CAMILO DAOUK
Budapest Festival Orchestra
Direttore Iván Fischer
Regia Iván Fischer e Chiara D’Anna
Scene Andrea Tocchio
Costumi Anna Biagiotti
Luci Tamás Bányai
Produzione della Iván Fischer Opera Company, Müpa Budapest, Vicenza Opera Festival e Festival dei Due Mondi di Spoleto
Vicenza, 27 ottobre 2024
Anche quest’anno il Vicenza Opera Festival diretto da Iván Fischer propone un titolo ambizioso, quell’“Ariadne auf Naxos” che rappresenta senza dubbio uno dei picchi (se non il picco) di originalità e genialità di Richard Strauss: la sua genesi e la sua natura composita ne fanno sia un’opera decisamente novecentesca, sia un omaggio accurato e sentito al secolo che l’ha preceduta, in particolar modo a quelle correnti che per Strauss sono state le più importanti – il belcanto italiano e il wagnerismo. Si diceva della genesi, poiché quest’opera inizialmente si inseriva fra le musiche di scena di una fastosa riscrittura hofmannsthaliana de “Il borghese gentiluomo“ di Molière, che vide la luce per la prima volta a Stoccarda nel 1912, rivelandosi un clamoroso fiasco, troppo lunga e troppo musicale per essere una commedia di prosa. Strauss chiese allora a Hofmannsthal di scrivere un apposito prologo, simile per intenti al “Borghese gentiluomo”, ma più agile, da porsi in musica. Ne nacque la versione dell’“Ariadne” che comunemente portiamo in scena, ma non quella scelta da Fischer per Vicenza: lungi da riprovare l’esperimento di Stoccarda, Fischer sceglie però di non portare in scena il prologo, e sostituirlo con la suite orchestrale che lo stesso Strauss (anni dopo il debutto dell’opera) fece del materiale musicale di scena di quella commedia; ecco allora che i primi trentasette minuti di questa recita sono occupati dalla suite delle musiche di scena di “Le bourgeois gentilhomme”, brioso e sorprendente pezzo sinfonico durante il quale i personaggi della Commedia dell’Arte, coadiuvati da due mimi strepitosi (Utka Gavuzzo e Camilo Daouk), giocano e scherzano con l’orchestra, ne spogliano e rivestono i musicisti, ma si divertono anche tra di loro. La scelta è coraggiosa e senza dubbio legittima, giacché si pone come obiettivo di ricostruire quei ponti tra le melodie della suite e quelle dell’“Ariadne”, che nacquero sorelle. Quando poi arriviamo, finalmente, all’opera vera e propria, ci accorgiamo che quelli che credevamo unicamente mimi e attori nella suite orchestrale, si rivelano essere gli interpreti stessi del dramma, veri attori cantanti e viceversa: il baritono Gurgen Baveyan è un Arlecchino rocambolesco ma anche accorato nei suoi spasimi d’amore per Zerbinetta – vocalmente presenta colore ambrato, linea di canto morbida, notevole estensione; Stuart Patterson è uno Scaramouche tutto compito, ma che sfoggia piacevoli colori di tenore buffo nei suoni ben proiettati e puliti; il Brighella di Juan de Dios Mateos è tra quelli che si spendono di più scenicamente, già dalla suite iniziale; pure la prova canora si rivela tuttavia ben superata, grazie a una bel fraseggio efficace; infine il Truffaldino di Daniel Noyola, si distingue non per volumi azzardati o virtuosismi, ma, al contrario, per la capacità di armonizzarli al meglio con le voci degli altri tre con cui passa la maggior parte del tempo. Tuttavia è la Zerbinetta di Anna-Lena Elbert l’étoile della serata: il giovane soprano tedesco sembra nato per il ruolo, sia per l’attitudine coquette che adotta in scena, senza tema di apparire anche in vesti succinte e di lanciarsi in momenti quasi di danza, sia per il registro lirico leggero dalla linea di canto fluente, dai sovracuti e picchiettati disinvolti, il colore argentino, la sapida accuratezza nel fraseggio. Le fa da ideale contraltare l’Ariadne di Emily Magee, ma purtroppo anche sul piano della resa. La voce appare stanca, con i centri opachi e un registro acuto non sempre controllato. Si apprezza ancora il bel colore vocale, ma non basta a salvarne la performance – che pure sul piano del fraseggio e quello scenico è un po’ ridotta ai minimi termini. Le tre ninfe, invece, sorprendono sia per la piena coesione delle linee di canto, ma soprattutto per le qualità vocali indiscutibili: la mezzo Olivia Vermeulen (la Driade) pone le fondamenta della frase con i suoi suoni avvolgenti e caldi, il soprano Samantha Gaul (la Naiade) costruisce le melodie con la sua vocalità tersa e asciutta mentre Mirella Hagen (Eco) la riprende a canone impreziosendola. Un trio che aiuta l’ascoltatore anche a tessere collegamenti con le ninfe del Reno del “Rheingold”, che Strauss voleva chiaramente richiamare. Infine, ma solo in ordine di apparizione, il Bacco di Andrew Staples ammalia già prima di comparire in scena, grazie a una vocalità di autentico tenore drammatico – “wagneriano” verrebbe giustamente da dire, visto l’eroismo madido di sentimento con cui Strauss reinterpreta il Dio dell’ebbrezza; la sua tecnica è granitica, il suono infonde sfumature metalliche a un porgere scolpito e veramente nobile, con una specifica attenzione al fraseggio. Grazie a lui il duetto finale (l’omaggio del compositore a “Tristan und Isolde”) sa veramente portarci dall’isola di Nasso alle vette del Valhalla; peccato per una certa immobilità scenica, dovuta, crediamo, a una scelta di regia non particolarmente felice. Questa, infatti, curata dallo stesso onnipresente Fischer, insieme all’italiana Chiara D’Anna, funziona a meraviglia nelle scene di gruppo e specificamente con i personaggi all’italiana, mentre in quelli “alla tedesca”, si arena in una serie di pose che sviluppano poco gli spunti della partitura. Tuttavia le scene di carta ispirate a Chagall di Andrea Tocchio, i bellissimi costumi di Anna Biagiotti e soprattutto le magnifiche e suggestive luci di Tamás Bányai, riescono sempre a dare movimento alle linee sceniche, senza consentire mai all’occhio rapito dello spettatore di distrarsi. Infatti, alla fine, ovazioni meritate per tutti sugellano anche questo Festival. Foto Vicenza Colorfoto – Francesco Dalla Pozza

Categorie: Musica corale

Roma, Sala Umberto: “Romeo e Giulietta. L’amore è saltimbanco.”

Mer, 30/10/2024 - 00:10

Roma, Sala Umberto
ROMEO E GIULIETTA
L’amore è saltimbanco
con Anna De Franceschi, Michele Mori, Marco Zoppello
scenografia Alberto Nonnato
costumi Antonia Munaretti
produzione Stivalaccio Teatro
soggetto originale e regia Marco Zoppello
Roma, 29 ottobre 2024
“All the world’s a stage, and all the men and women merely players; they have their exits and their entrances.” – William Shakespeare
Lo spettacolo “Giulietta e Romeo” di Stivalaccio Teatro irrompe sulla scena con una potenza travolgente, trasformando ogni momento in un vortice di gesti, dialetti, parodie e improvvisazioni che immergono lo spettatore in una dimensione sospesa, fuori dal tempo ordinario. La rappresentazione della tragicità shakespeariana viene scomposta e ricostruita attraverso il filtro dell’ironia, passando per la voce irriverente di Giulio Pasquati e Girolamo Salimbeni, maschere viventi di un teatro popolare che sfida e gioca con i limiti stessi della rappresentazione teatrale. La trama non è solo narrata, ma agita, declinata con una sensibilità metateatrale che mette in discussione la separazione tra finzione e realtà, tra spettacolo e vita. Il testo shakespeariano, uno dei capisaldi della letteratura occidentale, viene qui reinterpretato con leggerezza e inventiva, senza tradire la sua profondità ma valorizzandola sotto una luce diversa. “Giulietta e Romeo” è infatti attraversato da uno spirito dissacrante che non manca di rispetto all’opera originale, ma ne rinnova il senso, lo attualizza e lo porta a dialogare con un pubblico contemporaneo. Gli attori non si limitano a interpretare i personaggi classici, ma oscillano tra diversi ruoli, tra il serio e il faceto, creando un flusso continuo che coinvolge il pubblico fino a renderlo parte integrante dello spettacolo. Questa interazione, tanto straordinaria quanto disarmante, rende ogni reazione del pubblico un momento di partecipazione autentica. La presenza scenica è sostenuta da un ritmo serrato e un’energia vibrante, elementi che definiscono l’essenza di questo allestimento. La scenografia di Alberto Nonnato, essenziale e mobile, si adatta fluidamente a ogni cambiamento di tono, trasformandosi con naturalezza da cornice poetica a spazio comico. Il disegno luci modula lo spazio e accentua con delicatezza i passaggi tra il comico e il poetico, diventando una componente espressiva che si insinua tra le parole e le azioni, creando chiaroscuri che esaltano le espressioni e i movimenti degli attori, amplificando la tensione emotiva e rendendo ogni cambio d’atmosfera ancora più pregnante. La tragedia di Giulietta e Romeo diventa veicolo di una vitalità incontenibile, una forza teatrale potente e difficile da contenere, incredibilmente viva. Il pubblico è coinvolto non solo come spettatore, ma come co-creatore di questo rito collettivo, un momento in cui il teatro torna a essere una festa, un’esperienza che trascende il semplice atto di guardare per diventare partecipazione, immersione e trasformazione. A dare vita a questa straordinaria alchimia teatrale sono Marco Zoppello, Michele Mori e Anna De Franceschi, funamboli della scena, capaci di muoversi con disinvoltura tra precisione e spontaneità. Ogni battuta è accompagnata da una fisicità esuberante che riempie l’intero spazio scenico, trascinando gli spettatori tra il mondo della commedia e quello della tragedia. Gli attori recitano con tutto il corpo: i gesti, le espressioni del volto, le pause, tutto diventa linguaggio, un racconto che si dipana davanti agli occhi del pubblico, catturando e affascinando. I costumi di Antonia Munaretti, sobri ma curati nel dettaglio, evocano una dimensione popolare e artigianale, in linea con lo spirito della commedia dell’arte, in cui tradizione e innovazione si fondono senza perdere autenticità. Le maschere, tipiche del teatro popolare, simboleggiano una tradizione che si rinnova, un linguaggio che non conosce barriere temporali o culturali. Ogni elemento scenico è carico di significato, ma allo stesso tempo leggero, agile, pronto a trasformarsi e reinventarsi, in un gioco teatrale al contempo serio e ironico. Il vero fulcro dello spettacolo è l’interazione con il pubblico. In questo spettacolo, la quarta parete viene infranta fin dai primi momenti, e il pubblico è chiamato a partecipare attivamente, a entrare nel gioco teatrale. Gli attori si rivolgono direttamente agli spettatori, coinvolgendoli con domande, battute, sguardi che rompono la distanza tra palcoscenico e platea. Questo dialogo continuo, questa apertura verso l’altro, rende lo spettacolo un’esperienza viva e unica, diversa ogni sera, modellata sulle reazioni di chi è presente in sala. L’energia in sala è talmente alta e vibrante da generare effetti contrastanti nel pubblico: c’è chi partecipa con entusiasmo, chi si lascia trascinare dall’esuberanza degli attori, e chi invece, più timidamente, si sente sopraffatto da tale vitalità. Non manca chi, fingendo disinteresse o annoiato, dissente su ogni azione sregolata sul palco e sul coinvolgimento attivo del pubblico. Questa molteplicità di reazioni rende ancora più affascinante l’atmosfera, contribuendo alla creazione di un microcosmo teatrale in cui ogni spettatore diventa protagonista. Il gioco delle parti, la consapevolezza della finzione, l’alternanza tra il ruolo dell’attore e quello del personaggio attraversano tutto lo spettacolo, conferendogli una profondità che va oltre la semplice comicità. Gli attori si muovono su un filo sottile, un equilibrio tra la necessità di far ridere e il desiderio di raccontare una storia tragica. Questo equilibrio è mantenuto con maestria, senza mai cadere nell’eccesso, preservando l’essenza del teatro come luogo di incontro, riflessione e condivisione. Al termine della rappresentazione, gli applausi del pubblico risuonano come un’onda che si infrange sul palcoscenico, una manifestazione di gratitudine e entusiasmo che travolge gli attori e li avvolge in un abbraccio ideale. Questo tripudio finale non è solo una formalità, ma il culmine di un’energia condivisa, di una comunione di intenti e emozioni che trova la sua espressione in quel fragore di mani, in quel coro di voci che rende omaggio non solo alla bravura degli interpreti, ma al teatro stesso come atto di creazione e partecipazione. “Giulietta e Romeo” non è semplicemente uno spettacolo, ma diventa un’esperienza, un rito collettivo, un momento di assoluta magia scenica.

Categorie: Musica corale

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: “Madama Butterfly”

Mar, 29/10/2024 - 23:23

Firenze, Teatro del Maggio Musicale FiorentinoStagione lirica “Autunno 2024”
MADAMA BUTTERFLY
Tragedia giapponese in tre atti su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, da “Madam Butterfly” di John L. Long e “Madame Butterfly” di David Belasco.
Musica di Giacomo Puccini
Cio-Cio-San CAROLINA LÓPEZ MORENO
Suzuki MARVIC MONREAL
Kate Pinkerton ELIZAVETA SHUVALOVA
F. B. Pinkerton PIERO PRETTI
Sharpless NICOLA ALAIMO
Goro ORONZO D’URSO
Il principe Yamadori MIN KIM
Lo zio Bonzo BOZHIDAR BOZHKILOV
Yakusidé GIOVANNI MAZZEI
Il commissario imperiale DAVIDE SODINI
L’ufficiale del registro EGIDIO MASSIMO NACCARATO
La madre NADIA PIRAZZINI
La zia THALIDA MARINA FOGASARI
La cugina PAOLA LEGGERI
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Lorenzo Mariani
Scene Alessandro Camera
Costumi Silvia Aymonino
Luci Marco Filibeck
Nuovo allestimento del Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, 27 ottobre 2024
Il ciclo di opere autunnali prosegue con “Madama Butterfly” di Puccini, ultimo impegno ufficiale del maestro Daniele Gatti come direttore principale del Maggio. La regia di Lorenzo Mariani e le scene di Alessandro Camera evocano un Oriente sospeso, circoscritto da leggiadri veli ricadenti che plasmano il nido d’amore dei protagonisti, in una vicenda dove l’immedesimazione è garantita dagli attuali costumi di Silvia Aymonino. L’intera produzione sembra esaltare l’immacolata purezza di Cio-Cio-San e il suo contrasto con le consuete dinamiche di ciò che oggi definiremmo “turismo sessuale”, come testimonia il suo isolamento dal resto della famiglia e l’ingresso in scena mediante un’apposita pedana discendente. In particolare, l’impianto registico trova appiglio nelle parole di Pinkerton “che di rincorrerla furor m’assale, se pure infrangerne dovessi l’ale”, a sottolineare l’ineluttabilità della catastrofe e quella fragilità lacerata che tanto strugge in questo dramma. Così, i veli del letto nuziale iniziano a strapparsi nel secondo atto e, grazie a un ingegnoso effetto di luci di Marco Filibeck, si tingono di rosso non appena si paventerà la possibilità del suicidio. Di pari passo, il pavimento della “casa a soffietto” s’inclina progressivamente come fosse il ponte di una nave, fino a squarciarsi in due nell’atto finale. Pochi tratti, dunque, ma significativi, a riprova di come sia possibile godere di riletture in chiave moderna con economia di risorse. Nel corso della rappresentazione non sono mancati momenti più stereotipati, di esasperata passione o d’ironico sarcasmo, e un’ultima sorpresa era riservata al finale, quando le “due” mogli si fronteggiano con abiti gemelli, in un pericoloso gioco di riflessi. Dalla buca dell’orchestra, la direzione evidenzia l’instabilità dell’apparente equilibrio d’amore del primo atto con un’agogica molto varia, a tratti decisamente scorrevole, ma non priva di momenti di grande indugio, volti a saggiare le scale difettive e gli effetti cromatici dell’esotismo d’Oriente. A Daniele Gatti non sfugge la caratterizzazione musicale di uno sviluppo di tipo leitmotivico, con particolare sensibilità sulle poche note del tema identificativo del soprano, che contrastano con le invasive sonorità dell’inno americano (ai tempi inno della marina), sottolineando la morsa del tempo che passa e l’angoscia dell’attesa con moduli cromatici ricorrenti. Di grande intimismo (forse anche troppo) la delicata grana orchestrale che accompagna la celebra aria di Butterfly, ancor più velata sul “coro a bocca chiusa” di Lorenzo Fratini, mentre per gli effetti più vibranti si dovrà attendere l’intermezzo musicale introduttivo al terzo atto e la folgorante restituzione dell’emblematico accordo sospensivo della chiusa. Di buon livello anche il cast vocale, capeggiato dall’interessante prova di Carolina López Moreno. Il giovane soprano si presenta in scena con un timbro diamantino, tanto suadente quanto soffice nell’emissione, inserito in un fraseggio scelto e coadiuvato da spiccate doti attoriali. A fronte di uno strumento vocale non corposissimo, il soprano si concentra sulla caratterizzazione della delicata linea di canto di Cio-Cio-San, modulandola con filati in piano di singolare finezza, in cui non mancano diminuendi ad hoc, tesi a figurare le aspettative e le paure del personaggio. La cantante ben si districa col derisorio atteggiamento verso Yamadori e tratteggia con credibilità la progressiva corsa verso l’autodistruzione, che culminerà nella pregnante interpretazione del finale. Una performance degna di nota, che lascia qualche punto interrogativo su alcuni affondi sui gravi e sugli sbalzi sopra il rigo, in cui il soprano sembra essere meno a suo agio. Le faceva da spalla l’accorata Marvic Monreal, per estensione e timbro piuttosto adatta alla tormentata parte di Suzuki, forse non sempre iper penetrante, ma in grado di bilanciare qualche punto dall’emissione più ingolata con un notevole impegno interpretativo. Piero Pretti torna al Maggio nel superficiale ruolo di F. B. Pinkerton, confermando l’usuale squillo di una voce che soffre la mancanza di una tessitura più acuta, ma che comunque riesce a trovare un equilibrio in mezzo forte nelle insistenti frasi di centro, su cui l’inventiva diminuisce rispetto ai moti di rimorso o d’amore. Un ritorno anche per Nicola Alaimo, baritono dalla grande esperienza nell’opera buffa, che garantisce grande disinvoltura nella scena della lettura della lettera, dove la messa a punto del fraseggio, dell’emissione e delle soluzioni dinamiche traspira tutta la complessità di uno Sharpless di sentita umanità e lontano dall’emissione leggermente più fumosa della sortita. Intorno alla cerchia dei protagonisti si segnala l’efficace apporto del Goro di Oronzo D’Urso, tenore leggero pronto a fraseggiare con gusto e determinazione, mentre non proprio tonante è stata l’irruzione dello zio Bonzo di Bozhidar Bozhkilov, così come l’emissione di Davide Sodini (commissario imperiale) è risultata un po’ impastata nel dare lettura dell’atto di matrimonio. Completavano il quadro i convincenti e partecipativi interventi di Min Kim (contrito Yamadori) e Elizaveta Shuvalova (rattristata Kate Pinkerton), di Egidio Massimo Naccarato (ufficiale del registro), Giovanni Mazzei (Yakusidé) e gli schietti giudizi di Nadia Pirazzini, Thalida Marina Fogasari e Paola Leggeri, rispettivamente come madre, zia e cugina di Cio-Cio-San. Deciso il consenso di pubblico al termine della rappresentazione, in cui non è mancata una timida ovazione per la protagonista. Foto Michele Monasta

Categorie: Musica corale

Roma, Palazzo delle Esposizioni: “L’ultimo meraviglioso minuto” di Pietro Ruffo

Mar, 29/10/2024 - 19:28

Roma, Palazzo delle Esposizioni
PIETRO RUFFO:L’ULTIMO MERAVIGLIOSO MINUTO
Roma, 28 Ottobre 2024
Dal 29 ottobre 2024 al 16 febbraio 2025, il Palazzo delle Esposizioni di Roma si trasforma in un monumento dedicato all’arte contemporanea con la mostra personale di Pietro Ruffo, intitolata “L’ultimo meraviglioso minuto”. Curata da Sébastien Delot, direttore della collezione del Museo Nazionale Picasso di Parigi, l’esposizione è promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e dall’Azienda Speciale Palaexpo, che ne è anche produttrice e organizzatrice. Questa mostra rappresenta il culmine delle realizzazioni artistiche di Ruffo, la più grande esposizione personale che un’istituzione pubblica abbia mai dedicato al suo lavoro. Un’occasione straordinaria per immergersi in un viaggio attraverso le trame del tempo e dello spazio, culminante in un omaggio appassionato alla città eterna. Con oltre cinquanta opere realizzate specificamente per quattro delle sale del piano nobile del Palazzo delle Esposizioni, Pietro Ruffo affronta uno dei temi più urgenti e complessi della nostra epoca: il rapporto tra l’essere umano e il pianeta. Con un approccio visionario e audace, l’artista invita i visitatori a esplorare il potenziale “meraviglioso” della nostra presenza sulla Terra, interrogandosi sulla potenza e la fragilità dell’interazione umana con l’ambiente naturale. Riconosciuto a livello internazionale, Ruffo è stato protagonista alla Biennale di Venezia del 2024 con una monumentale installazione dal titolo “L’immagine del mondo”, e alcune delle sue opere fanno parte di collezioni prestigiose come quelle dei Musei Vaticani, del MAXXI e della Deutsche Bank Foundation. La mostra al Palazzo delle Esposizioni segna un momento cruciale nella carriera dell’artista, evidenziando il dinamismo e la vitalità della sua ricerca espressiva. “L’ultimo meraviglioso minuto” si articola come un dialogo complesso tra passato, presente e futuro, giocando sulla dilatazione e contrazione del tempo e dello spazio. L’obiettivo è quello di condurre i visitatori attraverso ere che si estendono ben oltre la memoria collettiva: dalla storia del pianeta alla storia della nostra specie, in un’unica esperienza visiva che si sviluppa attraverso diverse sale espositive. L’avventura creativa ha origine durante la residenza di Ruffo presso la Nirox Foundation in Sudafrica, un’esperienza arricchita dall’incontro con Lee Berger, antropologo e paleontologo di fama mondiale. Questo incontro ha portato l’artista nel sito paleoantropologico noto come “La Culla dell’Umanità”, uno dei luoghi più emblematici della storia umana, situato nei pressi di Johannesburg, dove fu scoperto il primo primate della storia. Questa esperienza ha segnato profondamente l’opera di Ruffo, fornendo il contesto per un racconto che idealmente inizia 55 milioni di anni fa. La prima sala della mostra, intitolata “Le monde avant la création de l’homme”, trae ispirazione dal libro di Camille Flammarion del 1886, “Origines de la terre, origines de la vie, origines de l’humanité”. Ruffo esplora gli elementi caratteristici del pianeta pre-umano attraverso disegni realizzati con penna Bic, creando una foresta primordiale che avvolge l’intero spazio espositivo su una superficie di 700 metri quadrati. Questa imponente installazione circonda i visitatori con immagini di piante e minerali, evocando un’era in cui la giungla tropicale ricopriva gran parte delle terre emerse. Tuttavia, per quanto l’allestimento sia tecnicamente curato, la sua grandiosità sembra talvolta mancare di una vera coerenza emotiva, come se il rigore espositivo non riuscisse pienamente a trasmettere l’intensità primordiale che vuole evocare. Attraversata questa foresta, il pubblico si trova immerso tra le tracce di una vita antica. Ventuno opere circolari dal titolo “De Hortus” galleggiano come ninfee su un pavimento bianco, creando un’atmosfera visiva di forte impatto cromatico e simbolico, un richiamo alla vita vegetale che precedette e accompagnò i primi passi dell’evoluzione animale. Anche qui, nonostante l’evidente ricerca estetica, alcune scelte sembrano non sposarsi del tutto con l’intenzione dichiarata di evocare la bellezza primigenia del mondo naturale, risultando a tratti eccessivamente compiaciute e distanti dal tema. Il percorso della mostra si sviluppa poi nell’Antropocene, l’epoca geologica segnata dall’impatto dell’attività umana. La paleontoclimatologa Rebecca Wragg Sykes, riprendendo il “calendario cosmico” di Carl Sagan, ha descritto questa fase come una manciata di minuti nell’intero anno della storia dell’Universo. Ed è proprio a questi ultimi minuti, alla nostra era, che sono dedicate le tre sale successive. Nella seconda sala, opere su carta intelata con intagli e inchiostro di china ripercorrono l’evoluzione umana, dai Neanderthal di Saccopastore fino alle prime statuette votive, simbolo del pensiero astratto e delle prime società organizzate. La terza sala offre un radicale cambio di scenario con una video installazione intitolata “The Planetary Garden”, ispirata all’omonimo testo del filosofo francese Gilles Clément, che esplora la dinamicità e il cambiamento del paesaggio naturale. Nonostante la qualità tecnica delle opere e l’efficacia della video installazione, alcune delle scelte estetiche risultano discutibili, con una rappresentazione visiva che talvolta sembra non essere all’altezza della profondità dei concetti filosofici espressi, generando un senso di distanza tra forma e contenuto. L’ultima sala, “Antropocene attraverso le stratificazioni di Roma”, rappresenta un omaggio alla città eterna. Partendo dalle celebri mappe di Giovanni Battista Nolli e Luigi Canina, Ruffo reinterpreta la città fondendo squarci di paesaggi naturali inattesi, dal mare primordiale alla giungla tropicale, fino al contesto urbano attuale. Le opere esposte compongono un mosaico di momenti storici e futuri ipotetici, proponendo una riflessione sulle trasformazioni del paesaggio urbano e naturale. Anche in questo caso, nonostante l’abilità tecnica e l’erudizione che permea il lavoro, alcune delle scelte compositive appaiono poco in sintonia con la monumentalità del tema, come se il peso simbolico della storia di Roma non trovasse pieno riscontro nell’allestimento visivo proposto. Con il suo linguaggio visivo, Pietro Ruffo riesce comunque a far riscoprire l’infanzia del nostro pianeta, mettendo in luce la vitalità della Terra e la complessità delle sue trasformazioni. L’esposizione invita a una riflessione profonda e poetica sul significato della nostra presenza nel mondo, sottolineando l’importanza della meraviglia come strumento di comprensione e azione. Tuttavia, alcune delle scelte estetiche e allestitive sembrano ridurre l’impatto emotivo complessivo, lasciando talvolta un senso di incompletezza rispetto all’ambiziosa narrazione proposta. La mostra sarà accompagnata da un catalogo curato da Sébastien Delot, con contributi di Guido Rebecchini, Rebecca Wragg Sykes e Sofia Di Gravio, pubblicato da Drago.

 

Categorie: Musica corale

Roma, RomaEuropa Festival 2024: “Notte Morricone” di Marcos Morau

Mar, 29/10/2024 - 11:55

Roma, EuropaFestival 2024
“NOTTE MORRICONE”
di Marcos Morau
Ennio Morricone, Marcos Morau, Centro Coreografico Nazionale/ Aterballetto
Regia e coreografia Marcos Morau
Musica Ennio Morricone
Direzione e adattamento musicale Maurizio Billi
Sound Design Alex Röser Vatiché, Ben Meerwein
Testi Carmina S. Belda
Set e luci Marc Salicrù
Costumi Silvia Delagneau
Danzatori Ana Patricia Alves Tavares, Elias Boersma, Estelle Bovay, Emiliana Campo, Albert Carol Perdiguer, Sara De Greef, Leonardo Farina, Matteo Fiorani, Matteo Fogli, Arianna Ganassi, Clément Haenen, Arianna Kob, Federica Lamonaca, Giovanni Leone, Ivana Mastroviti, Nolan Millioud
Direttore Gigi Cristoforetti
Direttrice di compagnia Sveva Berti
Produzione Fondazione Nazionale della Danza/ Aterballetto
Prima rappresentazione outdoor 1 agosto 2024
Commissione Macerata Opera Festival
Coproduzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Prima rappresentazione indoor
Roma, Teatro Argentina, 24 ottobre 2024
Una nuova vita e una diversa poesia è donata alle immagini musicali presenti nei capolavori del compositore Ennio Morricone nello spettacolo di Marcos Morau dal titolo Notte Morricone, presentato in prima nazionale indoor al Teatro Argentina il 24 ottobre 2024. Il buio della notte, una costruzione grigia con scritte dipinte su di essa, delle luci tremolanti che coinvolgono anche la sala, una ragazza che gira attorno al palcoscenico spinta su una sedia mentre indossa delle cuffie, lo straniamento derivato dal contrasto tra un operatore di scena e un uomo che osserva il movimento di un metronomo, tutto ciò fornisce l’ambientazione scenica che coinvolge lo spettatore in un clima quasi surreale. Diviene quasi un sollievo riconoscere una consolle musicale con due protagonisti maschili che vi si sfidano al di sopra, metafore dei contrasti interiori tra le diverse anime del nostro Morricone. E piano piano si costruisce lo spettacolo inglobando al suo interno i movimenti del corpo di ballo e soprattutto vivificandosi grazie alla musica del Grande Maestro. Le sue melodie tratte da capolavori come Nuovo Cinema Paradiso sono arrangiate da Maurizio Billi e registrate con l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, e qui sono rivelate nella loro estrema potenza suggestiva. Durante una conversazione con lo stesso Billi, il Maestro Morricone aveva affermato con sicurezza: «la mia musica non ha bisogno di stampelle…». E sicuramente lo sapevamo anche tutti noi, stimatori del grande compositore profondamente dedito alla cinematografia. Il vantaggio qui non è solo però di poterle ascoltare in una intelligente redazione musicale, ma anche di vederne il contenuto immaginifico incarnato nella coreografia di un visionario come Marcos Morau. Nell’atmosfera notturna, i suoni sprigionano la loro massimale potenza luminosa e si intensificano grazie all’intricato groviglio di movimenti del corpo di ballo, che nelle loro flessioni e involuzioni esprimono un dialogo interiore incessante, mai assopito, anche se associato ad un’anima sensibile. A rivelare quest’anima interviene dunque un emblematico pupazzo, caratteristico della figuratività teatrale di Morau, e qui volto a manifestare i sogni del bambino Morricone, che sperava di farsi strada e di creare qualcosa di grande anche per onorare l’amore dei genitori. Una profonda sensibilità che però necessita di sporcarsi le mani con il lavoro, di materializzarsi in un dinamismo costruttivo palesato dall’uso delle tute. Eppur non basta ancora, ecco aprirsi allora i pannelli mobili e comparire un pianoforte. Solo abbandonandosi allo slancio lirico si può arrivare ai vertici, solo in questo momento la coreografia può spingersi verso languide pose. Morau però procede per discordanze. Il lirismo si accompagna a frastuoni elettronici, la creazione coreografica si accosta al risuonare delle registrazioni della voce di Morricone. Ci confrontiamo a tratti con l’interiorità del Maestro, e in altri momenti con il mondo onirico inframezzato nelle sue composizioni. Non manca il riferimento ai film di Sergio Leone, agli spaghetti-western e all’assolo di tromba. Questo richiamo a una più diretta narratività guida Morau verso la riproduzione su uno schermo di scene tratte dai film. Prevale però il riferimento a Morricone uomo, alla sua carriera, ai premi Oscar, ed infine alla sua scomparsa che grazie all’eternarsi della musica non è del tutto assoluta. Il compositore prima della sua dipartita aveva scritto: «Io, Ennio Morricone, sono morto». Il coreografo di origine spagnola, recentemente nominato Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere dal Ministero della Cultura francese e selezionato come miglior coreografo dell’anno scorso dalla rivista tedesca TANZ, ci dimostra che tale affermazione non è affatto vera. Ai suoi occhi, «i creatori e gli artisti sempre ci lasciano senza lasciarci», e per questo lo spettacolo Notte Morricone rappresenta un regalo al Maestro, «un devoto tributo alla bellezza che ha donato al mondo». Spiega il coreografo: «Ennio Morricone potrebbe essere mio padre, o mio nonno, io sono un erede diretto della sua eredità, dei film che gli devono un debito incommensurabile (siano essi capolavori, buoni, mediocri o brutti). Fischiettare le sue melodie era già, prima di immergermi nella sua musica, un suono ricorrente nella mia vita… Ennio mise la sua creatività, la sua ispirazione, la sua eterodossia al servizio della ‘fabbrica dei sogni’, incorporando quei suoni nella nostra memoria, diventando un classico, incarnazione del compositore intellettuale, del musicista popolare e quasi di una rock star». Forse è il voler rendere l’idea di questa fabbrica a concretizzarsi in una certa artificiosa ingegnosità nel variegato costruirsi dello spettacolo, spettacolo che al di là di tutto è decisamente impattante, malioso e persino commovente. Merito anche della collaborazione con l’Aterballetto, divenuto Centro Coreografico Nazionale, e improntato alla centralità della musica nello spettacolo. Dopo il successo quest’estate al Macerata Opera Festival, lo spettacolo ha conquistato il pubblico del Romaeuropa Festival e sarà in scena al Teatro Argentina fino al 10 novembre nell’ambito della stagione del Teatro di Roma. Assolutamente da non perdere. Foto Christophe Bernard

Categorie: Musica corale

Pagine