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Musica corale

Città del Messico, Museo Nazionale di Antropologia: “Forme e colori dell’Italia preromana. Canosa di Puglia” dal 12 luglio al 29 settembre 2024

gbopera - Dom, 14/07/2024 - 10:51

Città del Messico, Museo Nazionale di Antropologia
FORME E COLORI DELL’ITALIA PREROMANA. CANOSA DI PUGLIA
a cura di Massimo Osanna e Luca Mercuri
12 luglio – 29 settembre 2024
E’ stata inaugurata nel Museo Nazionale di Antropologia di Città del Messico la mostra “Forme e colori dell’Italia preromana. Canosa di Puglia”, che costituisce uno dei progetti de “Il racconto della bellezza”, il programma di collaborazione tra la Direzione generale Musei del Ministero della Cultura e la Direzione generale Diplomazia pubblica e culturale del Ministero degli Affari Esteri, mirato a promuovere all’estero il patrimonio culturale italiano. Sono intervenuti Antonio Saborit, Direttore del Museo Nazionale di Antropologia, Alejandra de La Paz, in rappresentanza della Ministra della Cultura del Messico Alejandra Frausto, Alessandro Modiano, Ambasciatore d’Italia in Messico, Luca Mercuri ed Elisabetta Scungio, in rappresentanza del Direttore generale Musei MiC Massimo Osanna, e rispettivamente curatore della mostra e responsabile del progetto “Il racconto della bellezza”. La mostra, dopo essere stata ospitata negli Istituti Italiani di Cultura di Santiago del Cile, Buenos Aires e San Paolo del Brasile, giunge alla sua tappa finale a Città del Messico, dove, grazie alla collaborazione della Secretarìa de Cultura, dell’Instituto Nacional de Antropologìa e Historia e del Museo Nacional di Antropologìa, rimarrà esposta nel Salone delle Esposizioni Internazionali del Museo fino al 29 settembre. L’esposizione, che si inserisce in questa occasione nel programma di iniziative che celebrano i 150 anni delle relazioni diplomatiche tra Italia e Messico, è curata da Massimo Osanna e da Luca Mercuri e vede come partner la Direzione regionale Musei nazionali Puglia e il Museo Archeologico Nazionale di Taranto. I materiali esposti provengono dai depositi e dalle collezioni di alcuni dei principali musei della Puglia, il Museo Archeologico Nazionale di Canosa di Puglia, il Museo Archeologico Nazionale di Taranto, il Museo Archeologico di Santa Scolastica di Bari, nonché della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Barletta-Andria-Trani e Foggia e della Soprintendenza Nazionale per il patrimonio culturale subacqueo. In mostra sono presenti anche reperti recuperati durante le operazioni di contrasto al commercio clandestino di beni culturali condotte dal Comando Carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale. L’esposizione illustra un momento significativo della storia dell’Italia antica, precedente all’unificazione portata a termine da Roma, e si concentra sui Dauni, una popolazione che abitava l’area settentrionale dell’attuale Puglia e parte della Basilicata. I reperti esposti – armature, ceramiche, gioielli e ornamenti – raccontano Canosa di Puglia, uno dei centri più importanti del distretto daunio. Qui, tra il IV e il II secolo a.C., i “Principi”, personalità di spicco dell’élite locale, furono sepolti in ipogei (tombe a camera familiari, scavate nel tufo locale) con un ricco corredo funerario che esibiva lo status sociale del defunto alla comunità. Tra tutti spiccano i vasi policromi e plastici, arricchiti da figurine applicati, che rappresentano una produzione peculiare e originale delle botteghe canosine dell’epoca. Per celebrare la tappa finale della mostra, in considerazione del prestigio della sede espositiva, il percorso si è arricchito di due oggetti straordinari: un diadema in oro e pietre preziose, decorato da fiori, bacche e foglie mobili, e uno scettro in lamina aurea, custoditi nel Museo Archeologico Nazionale di Taranto, diretto da Stella Falzone. Le opere provengono da una tomba monumentale rinvenuta a Canosa e appartenente ad una famiglia aristocratica vissuta fra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C. I preziosi manufatti appartenevano ad una donna, sicuramente di rango regale, di cui possiamo forse ricostruire il nome di Opaka Sabaleida, inciso su un contenitore di argento rinvenuto nel corredo tombale. Photocredit @Mic.

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Torre del Lago, 70° Festival Pucciniano 2024: “Edgar” e “Le Willis”

gbopera - Dom, 14/07/2024 - 09:41

Torre del Lago (LU), Gran Teatro “Giacomo Puccini”, 70° Festival Pucciniano
EDGAR”
Dramma lirico in quattro atti (vers. 1889) su libretto di Ferdinando Fontana, tratto dal dramma “La coupe et les lèvres” di Alfred de Musset.
Musica di Giacomo Puccini
Edgar VASSILII SOLODKYY
Fidelia LIDIA FRIDMAN
Frank VITTORIO PRATO
Tigrana KETEVAN KEMOKLIDZE
Gualtiero LUCA DALL’AMICO
LE WILLIS”
Opera-ballo in due atti su libretto di Ferdinando Fontana
Musica di Giacomo Puccini
Roberto VINCENZO COSTANZO
Anna LIDIA FRIDMAN
Guglielmo GIUSEPPE DE LUCA
Coro Orchestra e Voci Bianche del Festival Puccini
Direttore Massimo Zanetti
Maestro del Coro Roberto Ardigò
Voci bianche dirette da Viviana Apicella
Regia, Scene, Costumi Pier Luigi Pizzi
Luci Massimo Gasparon
Video Matteo Letizi
Coerografie Gheorghe Iancu
Nuova produzione Fondazione Festival Pucciniano
Torre del Lago (LU), 12 luglio 2024
Che dire, e quanto già si è detto di questo centenario a Torre del Lago! Certamente, di questo Festival Pizziano, forse più che Pucciniano, le date più importanti rimarranno le prime, poiché legate a tre titoli che da anni mancano alla rassegna, ossia “Le villi“, “Edgar“ e “Manon Lescaut“: la scarsa consuetudine ad essi, probabilmente, ci consentirà di soffermarci meno su eventuali scivoloni dell’assetto creativo, coinvolgendoci maggiormente su quello musicale. Con le prime due opere si apre il festival, in uno strano dittico (considerate le più di due ore previste solo dall’”Edgar”) cronologicamente invertito: prima “Edgar“, versione 1889, poi l’atto unico, che viene scelto nella primissima versione, quella dal titolo germanizzante “Le Willis“, senza le romanze famose di Anna e Roberto e l’intermezzo con voce recitata, che anticipa il balletto alla morte di Anna e caratterizza il personaggio in maniera più truce e scapigliata. Soprassedendo sulle questioni filologiche, ci sembra tuttavia opportuno rimarcare la scelta poco oculata dell’accoppiamento, semplicemente perché il quarto atto di “Edgar” è lungo e tendenzialmente lento (un lungo duetto d’amore che in altre opere troviamo solitamente al primo atto, e mai in finale d’opera), e farlo seguire da un altro atto fa sì che il pubblico si addormenti su questo e/o fugga prima delle “Willis“ – cose puntualmente avvenute entrambe. Così agli applausi ci troviamo in pochi, stanchi, mentre gli interpreti avrebbero meritato ovazioni certo non estranee al caldo pubblico toscano. Nel settore maschile del cast spiccano le voci di Vittorio Prato – un Frank ben sostenuto e dall’accurato fraseggio, che ci innamora letteralmente nell’aria “Questo amor, vergogna mia“ –, e di Giuseppe de Luca (Guglielmo), interprete d’alta caratura, omogeno nell’emissione e dal bel colore brunito, sebbene la giovane età. Più alterni i due tenori: abile fraseggiatore dai nobili portamenti si è rivelato Vassilii Solodkyy (Edgar), dotato di un suono raccolto e al contempo luminoso; meno controllato e parzialmente in affanno c’è parso invece Vincenzo Costanzo, un Roberto marcatamente timbrato ma dai fiati un po’ arbitrari. Ketevan Kemoklidze è stata una Tigrana potente, dalla linea di canto adamantina e l’efficacissima espressività (non dimentichiamo che Tigrana è senza dubbio il ruolo pucciniano per mezzosoprano più elaborato, degno d’essere accostato per arditezza ai futuri ruoli per soprano drammatico che il maestro comporrà); non ci è parso sempre a fuoco, invece, il Gualtiero di Luca Dall’Amico, che tradisce qualche tentennamento sull’intonazione, né il Coro del Festival, guidato dal Maestro Roberto Ardigò, spesso spaesato, che fatica a rimanere coeso vocalmente. La buona conduzione dell’orchestra del Maestro Massimo Zanetti, si è però potuta poco apprezzare per dei problemi di amplificazione della stessa, che per questo suonava ovattata, come distante, togliendo grandezza alla performance e impedendoci di capire esattamente il suo apporto. L’astro che ha illuminato la serata è stato quello di Lidia Fridman, vera “Diva”, che con apparente facilità è scivolata tra Fidelia e Anna, sia imprimendo caratteri diversi ai due personaggi, sia portando alla luce le giuste connessioni che corrono tra di essi. In effetti, Anna e Fidelia sono i due personaggi femminili che si sottraggono alla tipica dualità “santa vs peccatrice” che Puccini sdoganerà grazie anche all’apporto di Giacosa sui suoi libretti; Anna e Fidelia sono più simili a Musetta, personaggi intermedi, l’una casta e pura per poi risvegliarsi cadavere vendicatore, l’altra evanescente per poi difendere virilmente la memoria del suo amato, arringando l’esercito. La Fridman è vocalmente e scenicamente consapevole di queste sfaccettature: il suo suono ricchissimo e caldo si volge in morbide mezzevoci e vellutati accenti, così come si dispiega in legati infiniti dalle volumetrie piene, lungo linee di canto funamboliche quanto omogenee. Capiamo perché il soprano sia una delle interpreti più corteggiate del momento, e non possiamo fare a meno di subirne anche la fascinazione scenica, grazie alla naturale eleganza del gesto e dell’incedere – che il coreografo Gheorghe Iancu non si è lasciato sfuggire nelle “Willis” ove la Fridman si è spesa pure come danzatrice provetta. Possiamo dire che la cantante ha conferito spesso a ciò che abbiamo visto una spinta estetica, “superando” (anche se di certo di gara non si tratta) l’altro “Divo” Pier Luigi Pizzi, che, sia detto onestamente, ha fatto un po’ il minimo indispensabile: megavideowall a tutta scena sul fondo, una pedana rotante nel mezzo e quattro tavoli e sgabelli – tutto nero. Sul video vengono proiettati ambienti sui toni del bianco e del grigio (c’est Pizzi, ça va sans dire), quando non alberi sugli stessi toni, uno che va pure – malamente – a fuoco. Apprezzabile il lavoro sugli interpreti, ma tutto è un po’ sottodimensionato per l’occasione – il centenario, sì, ma soprattutto la possibilità di mettere in scena “Edgar” (opera in effetti magnifica, ma che sospettiamo non entrerà domani nel repertorio): la scena, i costumi, le proiezioni, le luci, tutto potrebbe essere adattato a quasi qualunque altra opera (e in qualsiasi altro contesto), e se questo è un bene forse per le tasche della Fondazione, noi non possiamo né vogliamo accontentarci. Magari quando fra sei anni il centenario sarà il suo, il Maestro avrà modo di rifarsi. Foto Andrea Maionchi

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Roma, Arena Teatro Tor Bella Monaca: ” Fuori Uso” unica data 19 Luglio 2024

gbopera - Dom, 14/07/2024 - 08:00

Roma, Arena del Teatro Tor Bella Monaca
FUORI USO
di Costanza Di Quattro
con Chiara Del Francia, Alberto Melone, Elena Piacenti e Andrea Verticchio
Regia Luca Ferrini
Musiche Marcello Fiorini
Aiuto regia Denis Persichini
Alt Academy Produzioni
Lo spettacolo “Fuori Uso” si propone di intercettare i mutamenti socioculturali attuali, calando il teatro nel quotidiano e nelle tante facce del malessere della Generazione Z. Si intitola “Fuori Uso” l’opera teatrale originale di Costanza Di Quattro, portata in scena con la regia di Luca Ferrini (aiuto regìa Denis Persichini), vincitrice del programma “Per Chi Crea” ed. 2023 promosso dal Ministero della Cultura (MIC) e dalla SIAE. “Fuori Uso” racconta la storia di quattro ragazzi (interpretati da Chiara Del Francia, Elena Piacenti, Andrea Verticchio, Alberto Melone) che si ritrovano bloccati in un ascensore di un palazzo romano. Costretti a rimanere chiusi in uno spazio ristretto, i giovani iniziano a confrontarsi, svelandosi a vicenda fragilità, paure e speranze. L’ascensore diventa così una metafora della società, un luogo claustrofobico dove emergono le difficoltà di identità e di collocazione sociale vissute dalle nuove generazioni. È un progetto teatrale innovativo e coraggioso, che affronta con sensibilità e profondità tematiche urgenti per la società odierna. Attraverso la rappresentazione delle vicende dei quattro giovani, l’opera invita a una riflessione sul disagio giovanile, sull’integrazione e sulle sfide che le nuove generazioni si trovano ad affrontare. Si esplorano con delicatezza e realismo le diverse sfaccettature del disagio giovanile, tra cui: inadeguatezza, dipendenza dai social, bullismo, senso di smarrimento, ribellione, fobia sociale, comportamento oppositivo-provocatorio, disturbi d’ansia. L’opera affronta anche il tema dell’integrazione, mettendo in luce le difficoltà e le opportunità che derivano dall’incontro tra culture diverse. Il linguaggio teatrale, utilizzato in modo creativo e coinvolgente, ha il potenziale per raggiungere e sensibilizzare un vasto pubblico, soprattutto di giovani, offrendo loro spunti di riflessione e di speranza. Luca Ferrini, classe 1975, è un esperto regista (oltre che attore) con una comprovata esperienza nel teatro del ‘900 e contemporaneo; è sempre stato attento a tematiche introspettive, esistenziali, psicologiche, come quelle di Pirandello e Ionesco i cui lavori ha portato in scena con una visione originale, apprezzata dal pubblico. Il cast di “Fuori Uso” è composto da giovani attori emergenti che hanno dimostrato grande talento e sensibilità nell’interpretare i loro ruoli, riuscendo a dare vita a personaggi complessi e credibili. Ferrini, per “Fuori Uso”, ha scelto di utilizzare un unico elemento scenografico: un ascensore in mezzo al palcoscenico buio. L’ascensore rappresenta un non-luogo, dove i personaggi si trovano faccia a faccia con sé stessi e con gli altri, costretti a confrontarsi con le proprie emozioni e con le sfide del mondo contemporaneo. Le pareti dell’ascensore si dilatano e si restringono per sottolineare i momenti di tensione e di apertura emotiva dei personaggi. L’opera vuole sottolineare come questa esperienza inaspettata possa portare a una crescita personale e a una maggiore consapevolezza di sé.

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Le cantate di Johann Sebastian Bach: Settima domenica dopo la Trinità

gbopera - Dom, 14/07/2024 - 00:55

Al 23 luglio 1724 risale la seconda delle 6 Cantate bachiane composte per la settima domenica dopo la Trinità. Parliamo oggi di Was willst du dich betrüben BWV 107 che riveste un carattere particolare all’interno della seconda annata, si tratta dell’unica partitura che comporta l’elaborazione musicale completa del testo integrale dell’omonimo lied di  Johann Heermann (1585-1647). La melodia che è quella di Von Gott will ich nicht lassen fa bella mostra di se soltanto nel brano introduttivo (Nr.1), con il “cantus firmus” al canto dei soprani, raddoppiato da un corno da caccia e nel Coro finale (Nr.7), avvolto in una coltre strumentale anomala, con passaggi dai quali le voci sono escluse e seguendo una condotta ritmica atipica assimilabile a quello di una “Siciliana”. Tuttavia anche il nr.5, un’aria per soprano dal carattere di “pastorale” è improntata all’inizio e alla fine della parte vocale, alla configurazione melodica  del Corale e nella testa del tema che figura nelle altre pagine è quasi sempre presente il richiamo all’incipit melodico del Corale. La partitura presenta un unico recitativo (Nr.2), condotto per altro, in stile “arioso”, con l’accompagnamento di una coppia di oboi d’amore, di modo che non vi un reale distacco dall’ambientazione generale che immerge le altre strofe del Corale in un susseguirsi ininterrotto di 4 arie, dal nr.3 al 6. Si noterà che pagine esterne sono nel modo Maggiore, quelle interne, cioè i nr.4 e 5, nel “modo minore” e che sono escluse le forme con “da capo”. 
Nr.1 – Coro
Perché sei afflitta,
o cara anima mia?
Impegnati ad amare colui
che è chiamato Emanuele!
Credi in lui solo,
metterà tutto a posto
e si occuperà dei tuoi problemi
affinchè si risolvano felicemente!
Nr.2 – Recitativo (Coro)
Poiché Dio non abbandona nessuno
che si sia affidato a lui,
resta fedele ai suoi,
che credono fermamente in lui.
Se le cose vanno male,
non ti affliggere!
Con gioia vedrai
come Dio viene in tuo aiuto.
Nr.3 – Aria (Basso)
Con lui potrai osare
con spirito coraggioso,
con lui potrai ottenere
ciò che è buono e utile per te.
Ciò che Dio ha deciso
nessuno tra gli uomini
può impedirlo;
tutto accade secondo il suo volere.
Nr.4 – Aria (Tenore)
Anche se emergendo dall’inferno
Satana cerca
di contrapporsi a te
e di scaricarti addosso la sua rabbia,
nella derisione sarà costretto
ad abbandonare i suoi intrighi,
con i quali vuole catturarti;
poiché Dio sostiene la tua causa
Nr.5 – Aria (Soprano)
Egli sistema tutto per il tuo onore
e la tua felicità;
se ciò dev’essere, nessuno può impedirlo,
anche a costo di soffrire.
Ma ciò che Dio non vuole,
nessuno può compierlo.
Rimarrà incompiuto,
deve accadere ciò che Dio vuole.
Nr.6 – Aria (Tenore)
Voglio consacrarmi a lui,
sarà il mio sostegno;
non cercherò niente
che non sia a lui gradito.
Resto tranquillo in attesa,
la sua volontà è la migliore.
Credo con forza e fermezza
che Dio farà ciò che desidera!
Nr.7 – Coro
Signore, concedi che la tua gloria
ogni giorno della mia vita
possa crescere nel profondo del mio cuore,
lasciami lodarti e ringraziarti!
O Padre, Figlio e Spirito Santo
che per vostra grazia
avete allontanato sofferenza e dolore,
siate lodati per sempre.
Traduzione Emanuele Antonacci

www.gbopera.it · J.S.Bach: Cantata “Was willst du dich betrüben” BWV 107

 

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Roma, Accademia Nazionale di Danza: “Le Monere. Il regno della trasformazione”

gbopera - Sab, 13/07/2024 - 21:43

Roma, Accademia Nazionale di Danza
Proposta Artistica della Scuola di Danza Classica
“LE MONERE. IL REGNO DELLA TRASFORMAZIONE”
Metamorphosis
Coreografia Davide Bombana
Musica Philip Glass
Costumi Accademia Nazionale di Danza
Luci Stefano Pirandesso
Interpreti gli studenti dei Trienni Classici
Referente Accademia Nazionale di Danza Alberto Montesso
Assistenti alla coreografia Alberto Montesso, Corinna Anastasio
Stagisti/Tirocinanti per l’assistenza alla coreografia Roberta Fradusco, Giorgia Montepaone, Simona Natilla, Giada Primiano
Brani da “Yondering”
Coreografia John Neumeier
Musica Stephen C. Foster, cantata da Thomas Hampson
Coreografia riprodotta da Konstantin Tselikov
Costumi John Neumeier
Collaborazione ai costumi Lilli Cascio
Luci Stefano Pirandello con Konstantin Tselikov
Interpreti gli studenti dei Trienni Classici
Referente Accademia Nazionale di Danza Alessandra Alberti
Assistenti alla coreografia Alessandra Alberti, Alberto Montesso
Stagista/Tirocinante per l’assistenza alla coreografia Chiara Sgnaolin
CI_siAMO
Coreografia Luisa Maria Arias
Musica Ceiri Torjussen, Gustavo Santaolaya, Mathieu Lamboley, Erased Tapes e Aitor Etxebarria
Costumi Luisa Maria Arias e Accademia Nazionale di Danza
Collaborazione ai costumi Lilli Cascio
Interpreti gli studenti dei Trienni Classici
Referente Accademia Nazionale di Danza Monica Fulloni
Assistenti alla coreografia Alessandra Alberti e Paolo Arcangeli
Stagisti/Tirocinanti per l’assistenza alla coreografia Mirko Sabatini, Francesco Sgura
Roma, 06 luglio 2024
Si apre all’insegna della continuità la serata dedicata alla proposta artistica della Scuola di Danza Classica dell’Accademia Nazionale di Danza, che dal mese di novembre scorso è diretta dalla Prof.ssa Annamaria Galeotti. Gli spettacoli finali del 2024 portano a termine un progetto triennale avviato dal precedente Direttore Enrica Maria Palmieri e dedito a sviluppare nelle discipline coreutiche il concetto di vita per come preso in prestito dalle scienze naturali. L’attenzione si focalizza in particolare sull’idea della trasformazione e ben si presta pertanto al movimento corporeo che nel suo dinamismo riflette anche e soprattutto la dimensione emotiva dell’essere umano. Al fine di suggerire tale capacità artistica le coreografie sono affidate a nomi di grande prestigio e ne viene sottolineato l’impatto grazie a uno stile di presentazione molto minimalista che si affida ad un semplice messaggio di benvenuto registrato dal nuovo Direttore. La prima coreografia, Metamorphosis, è stata realizzata appositamente per i Trienni Classici dell’Accademia Nazionale di Danza da Davide Bombana, già danzatore del Teatro alla Scala, del Pennsylvania Ballet, del London Festival Ballet, oltre che coreografo del Bayerische Staatsballett, dell’Opéra di Parigi e di innumerevoli altre istituzioni. Per l’Accademia Nazionale di Danza Bombana crea una coreografia sulle punte che dal classico si apre alla contemporaneità indagando la grande agilità dei danzatori che si preparano alle future carriere artistiche. Un imponente gruppo compatto in rosso coinvolge fin da subito il pubblico con il magnetismo degli sguardi che trasfondono la loro energia nelle movenze incisive del corpo. Grandi slanci di gambe, scattanti cambiamenti di direzione, flessuosità del busto e delle spalle. Il gruppo compatto iniziale si apre in un respiro che dà spazio a diverse traiettorie e alla relazione di coppia. Nel continuo movimento la Metamorfosi del titolo dovrebbe portare ad un’evoluzione continua. Il coreografo invece vuole qui procedere all’inverso, tramite un processo che sul programma di sala definisce di “rarefazione, spogliamento ed involuzione”. È la musica di Philip Glass, del resto, a guidarlo in un percorso creativo che dalla grandiosità iniziale si indirizza verso un’idea finale di introspezione ben resa dall’interprete rimasto da solo in scena nel suo riflessivo monologo. Il secondo pezzo della serata riunisce diversi brani da Yondering, coreografia creata nel 1996 da John Neumeier come co-produzione tra la National Ballet School of Canada e la Hamburg Ballet School e destinata ad essere trasmessa unicamente alle migliori accademie di danza. Il titolo della coreografia si lega al concetto di frontiera che separa le città americane dagli sconfinati ed ignoti territori del West, e qui ben si presta a tradurre il viaggio cui si preparano gli allievi dei corsi finali. Nei loro leggeri vestiti bianchi questi ultimi ricamano i loro morbidi movimenti sull’accompagnamento del canto sognante di Thomas Hampson nei brani “Jeannie with the Light Brown Hair”, “Open Thy Lattice, Love”, “Molly! Do You Love Me”, “Beautiful Dreamer”. Alla pura esecuzione si richiede di divenire un’interpretazione evocativa e spirituale, che però non trascura anche stati d’animo diversi, quali quelli rappresentati con gradevole ironia da una coppia, le cui vicende amorose si dipanano tra vistose sberle e dolci rappacificazioni. L’ultima coreografia, dal titolo CI_siAMO, è una nuova creazione di Luisa Maria Arias, già assistente di coreografi quali Nacho Duato, Jiry Kilian, Mats Ek, William Forsythe, Ohad Naharin, Alexander Ekman. Una danzatrice-mantide in una tuta nero entra in scena con uno velo bianco da sposa in plastica. Nel contornarla il corpo di ballo dà vita ad un complesso groviglio di ondulazioni estremamente sinuose. La coreografia vuole ricordare il racconto della terra, il canto furioso del mare ed invoca a rapportarsi al pianeta con amore, come allude metaforicamente l’abbraccio finale incastrato tra le fronde del Teatro Grande dell’AND. Foto Federico Loreti

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Charles Hubert Hastings Parry (1848 – 1918): “Judith” (1888)

gbopera - Sab, 13/07/2024 - 19:31

Oratorio in due atti Charles Hubert Hastings Parry con inserimento di estratti biblici. Toby Spence (Manasseh), Kathryn Rudge (Meshullemeth), Sarah Fox (Judith), Henry Waddington (High Priest of Moloch, Messenger of Holofernes). Crouch End Festival Chorus, David Temple (maestro del coro), London Mozart Players,  William Vann (direttore). Registrazione: St. Jude-on-the-Hill, Hampstead, Royal Festival Hall, 3 aprile 2019. 2 CD Chandos CHSA5268

La storia della musica inglese sembra divisa in due blocchi contrapposti: la trionfale stagione del XVIII secolo e la ripresa sempre più significativa nel XX con in mezzo lo iato dell’intero Ottocento quando il monopolio dalla musica italiana e tedesca sembra assolutamente soverchiante. In realtà nella seconda metà del secolo cominciavano a maturare i fermenti per una rinascita della musica inglese. Il nome di Hunbert H. Parry può facilmente non dire nulla ai più ma la sua figura ha un ruolo fondamentale per comprendere il fenomeno che porterà a personaggi come Holst o Delius.
Una finestra su questo mondo musicale è ora aperta da questa nuova incisione Chandos che ci presenta in disco l’oratorio “Judith” andato in scena con trionfale successo al Birmingham Triennal Festival del 1888, un successo tanto sincero che alcuni suoi brani sono diventati parte del folklore musicale inglese, per poi scomparire definitivamente dai palcoscenici con nessuna esecuzione tra il 1951 e il 2019.
Il Birmingham Triennal Festival era un’istituzione molto radicata nella vita musicale inglese, un evento totalmente dedicato alla musica corale e oratoriale molto partecipato a tutti i livelli. Quando il festival commissionò un nuovo lavoro a Parry questo veniva dal successo dell’ode corale “Blest Pair of Sirens” (1887) che l’aveva rivelato come il più promettente talento della musica corale inglese. Quello che il festival chiedeva era un grande oratorio sul modello del “Elijah” di Mendelssohn quindi un lavoro decisamente più impegnativo. Parry ebbe non pochi dubbi al riguardo cui si univa una sostanziale insofferenza per la tradizione cristiana. Il festival rifiutò però tutti i tentativi di mediazione in direzione di un oratorio mitologico ispirato agli antichi miti germanici o ai poemi cavallereschi imponendo un soggetto biblico. Nonostante tutti i dubbi al riguardo Parry non poteva rinunciare all’occasione e alla fine la scelta cadde su un tema come la storia di Giuditta vista soprattutto attraverso gli studi comparati eseguiti all’inizio del Settecento da Humphrey Prideaux capace di unire il tema sacro richiesto al taglio eroico ricercato dal compositore. Il libretto realizzato per l’occasione inseriva numerosi estratti biblici mostrando un notevole rigore filologico.
L’ascolto rivela pregi e limiti dell’arte di Parry. Compositore di ottima formazione e di sicuro talento si mostra perfettamente a suo agio nel giocare con forme e stili diversi. L’impianto è chiaramente quello del proprio tempo con un impianto di fondo di matrice tardo-romantica ma Parry recupera e inserisce con grande sensibilità stilemi recuperati dalla tradizione dove al fianco dell’obbligatorio riferimento a Mendelssohn riconosciamo soprattutto Handel e Bach con una grande predisposizioni per fugati corali di innegabile suggestione. Un recupero di uno stile barocco – sentito come strettamente connesso alla musica sacra – si riconosce anche nel trattamento della vocalità.
Parry era un grande conoscitore del coro da cui sapeva trarre ogni sfumatura e non a caso sono proprio queste le parti più ricche d’ispirazione. Ampie architetture sonore costruite con mano sicura e in cui si mostra anche dotato di un’ammirevole capacità melodica. I suoi cori sono non solo particolarmente curati ma riesce a trarre dal canto corale un’espressività sincera e intensa. L’altra grande qualità di Parry è quella di orchestratore così che il velluto orchestrale di fondo si mostra sempre all’altezza del canto corale che sostiene. Meno ispirato ci sembra la trattazione solistica: le voci si esprimono principalmente in un declamato certo solenne ma anche espressivamente monocorde scarsamente votato ad espansioni vocali. Le stesse arie – con l’esclusione dell’intensa e nostalgica “Long since in Egypt’s plenteous land” non a caso riadattata da Stocks nel 1924 e diventata uno degli inni più amati della liturgia inglese – mancano della sincerità espressiva che ritroviamo nei brani corali.
L’esecuzione musicale è affidata a William Vann alla guida dei London Mozart Players, compagine orchestrale non particolarmente nota ma qualitativamente assai valida. Il direttore fornisce una lettura scrupolosa che ben evidenzia tanto il rigore arcaicizzante di certe strutture quanto la crudezza barbarica di certi impasti timbrici. Ha inoltre il merito di non cadere nella trappola del facile sentimentalismo verso cui spingono certi momenti mantenendo sempre una visione rigorosa della partitura. Semplicemente impeccabile la prova del Crouch End Festival Chorus guidato da David Temple capace di rendere tutta la grandiosità della scrittura corale di Parry con una nota di particolare merito per il coro delle voci bianche veramente esemplare come qualità esecutiva.
Toby Spence affronta la parte del vero protagonista – il re Manasseh cui avrebbe dovuto essere intitolato l’oratorio prima di ripiegare sul più noto Judith – con voce non particolarmente bella come timbro ma solida e robusta così da dominare una parte lunga e spesso assai scomoda come tessitura. L’interprete è convinto e partecipe e nel complesso la figura del re è assai ben costruita in tutte le sue sfaccettature. Il ruolo del titolo è in proporzione abbastanza breve. Sarah Fox lo affronta di slancio con una voce di soprano drammatico sfogata e molto solida. Il canto non è sempre pulitissimo e la linea di canto mostra più d’una durezza ma il carattere eroicamente altisonante del ruolo fa perdonare queste difficoltà. Vocalmente più pulita e musicale Kathryn Rudge che si abbondona ai lirismi nostalgici di Meshullemeth. Completa il cast Henry Waddington che con solido mestiere affronta i ruoli del Gran sacerdote di Moloch e dell’araldo di Oloferne.
La suggestiva acustica della St. Jude-on-the-Hill di Hampstead ben contribuisce alla resa complessiva della registrazione.

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Addio a Bill Viola: Il Maestro della Videoarte Ci Ha Lasciato

gbopera - Sab, 13/07/2024 - 18:47
ADDIO A BILL VIOLA
La scomparsa del più grande videoartista contemporaneo segna la fine di un’era e lascia un’eredità artistica che continuerà a ispirare generazioni future.

Un grave lutto ha colpito il mondo dell’arte e non solo. Bill Viola, considerato il più grande videoartista del nostro tempo, è venuto a mancare poche ore fa, lasciando un vuoto incolmabile nel panorama culturale internazionale. Viola, che ha dedicato oltre quattro decenni della sua vita alla videoarte, ha rivoluzionato il modo di concepire e fruire l’arte contemporanea, esplorando con profondità temi esistenziali e spirituali attraverso l’uso del mezzo video. Nato a New York nel 1951, Bill Viola ha iniziato la sua carriera artistica negli anni ’70, periodo in cui la videoarte muoveva i primi passi. Con il suo approccio innovativo e la sua visione artistica unica, Viola ha saputo trasformare il video in una forma d’arte autonoma, capace di suscitare emozioni profonde e riflessioni complesse. I suoi lavori, caratterizzati da un uso magistrale della lentezza e della simbologia, hanno esplorato temi universali come la nascita, la morte, la rinascita e la condizione umana. Le opere di Viola sono state esposte nei più prestigiosi musei del mondo, dalla Tate Modern di Londra al Museum of Modern Art di New York, passando per il Getty Center di Los Angeles. Le sue installazioni, spesso monumentali, sono riuscite a fondere in modo sublime elementi visivi, sonori e spaziali, creando esperienze immersive che hanno affascinato e commosso milioni di spettatori. Un ricordo indelebile della sua arte ci rimane in Italia, dove lo scorso febbraio Milano ha ospitato una straordinaria mostra dedicata a questo genio della videoarte. L’evento, tenutosi presso il Palazzo Reale, ha offerto al pubblico un viaggio immersivo attraverso la carriera di Viola. Curata da Valentino Catricalà e Kira Perov, collaboratrice storica e moglie dell’artista, l’esposizione ha esplorato i temi ricorrenti nella produzione di Viola, come la spiritualità, la trasformazione e la condizione umana. Un catalogo edito da Skira ha accompagnato l’evento, arricchendo ulteriormente l’esperienza dei visitatori con approfondimenti critici e immagini delle opere esposte. Tra le opere presentate, spiccavano alcune delle installazioni più iconiche di Viola, come “The Crossing” (1996), un video che rappresenta la dualità tra fuoco e acqua, simboli di distruzione e purificazione, e “Ascension” (2000), un’opera che raffigura l’ascesa di un uomo verso la luce, in un potente simbolismo di rinascita spirituale. Queste installazioni, caratterizzate da un uso magistrale del rallentamento del tempo e dell’uso del suono, hanno permesso ai visitatori di immergersi completamente nell’universo poetico e riflessivo dell’artista. La mostra ha inoltre incluso una serie di opere meno conosciute, ma altrettanto significative, come i “Water Portraits” (2013), una serie di ritratti video che esplorano il rapporto tra l’acqua e l’identità umana, e “The Sleepers” (1992), un’opera che rappresenta individui immersi in vasche d’acqua, evocando un senso di sospensione e introspezione. L’evento milanese ha sottolineato non solo l’importanza dell’opera di Bill Viola nel contesto internazionale, ma anche il profondo legame dell’artista con l’Italia. Viola ha sempre nutrito un grande amore per il nostro paese, traendo ispirazione dall’arte rinascimentale italiana e collaborando con istituzioni prestigiose come la Biennale di Venezia. La scomparsa di Bill Viola segna la fine di un’era, ma le sue opere continueranno a vivere, ispirando e emozionando generazioni future. La mostra di Milano ha offerto un’ultima, grande occasione per apprezzare la genialità di questo maestro della videoarte, il cui lascito continuerà a influenzare e arricchire il mondo dell’arte contemporanea per molti anni a venire. Alla famiglia di Bill Viola, ai suoi amici e a tutti coloro che hanno avuto il privilegio di conoscere e collaborare con lui, va il più sentito cordoglio. La comunità artistica internazionale si stringe nel dolore, consapevole di aver perso un maestro insostituibile, ma anche grata per il suo immenso contributo alla cultura e all’arte contemporanea.

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Lorin Varencove Maazel (1930 –2014): a 10 anni dalla morte

gbopera - Sab, 13/07/2024 - 14:30

Ricordiamo  oggi Lorin Maazel (Neuilly-sur-Seine, Francia 6 marzo1930 – Castleton Farm, Virginia, USA 13 luglio2014) i 10 anni dalla morte di questo grandissimo direttore, nella consapevolezza che la sua arte, non muore mai, ma continua a vivere attraverso le incisioni lasciateci delle quali proponiamo un piccolo e fulgido esempio. Non è stato, tuttavia, facile scegliere in una discografia ampia  e ricca come la sua un’incisione significativa di un capolavoro sinfonico, essendo moltissime quelle che si potrebbero citare. Si è deciso di proporre l’ascolto della Quinta sinfonia di Beethoven, facendo, così, un omaggio anche al grande compositore di Bonn nel duecentocinquantesimo anniversario della sua nascita. L’edizione in ascolto, nella quale Maazel è alla guida dell’orchestra della Bayerischen Rundfunks si segnala per la cura meticolosa del dettaglio che si traduce in una particolare attenzione alle dinamiche, sebbene il marcare il famoso tema del destino con un tempo leggermente più lento all’inizio oggi ci appaia il retaggio di una tradizione ormai passata. Nel secondo tempo appare evidente l’attenzione di Maazel al fraseggio che gli consente di ottenere un bel suono anche grazie ad un’adeguata scelta dei tempi. Nel terzo Maazel accentua bene il contrasto tra la frase iniziale dei violoncelli, il cui flusso non viene interrotto nemmeno nel poco ritenuto, realizzato senza alcuna enfasi, e l’esposizione del tema dello Scherzo da parte dei corni. Suggestivo è, infine, il crescendo di collegamento tra il terzo e il trionfale quarto movimento che sotto la sua bacchetta si trasforma in una vera e propria apoteosi. L’ascolto proposto è completato dall’ouverture La consacrazione della casa eseguita con la cura dei dettagli e del fraseggio che hanno caratterizzano la Quinta.

 

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Roma, Pantheon: “Il restauro della Madonna Odigitria”

gbopera - Sab, 13/07/2024 - 11:37

Roma, Pantheon
IL RESTAURO DELLA MADONNA ODIGITRIA
A Roma è stato presentato il restauro dell’icona conosciuta come Madonna del Pantheon, effettuato dal Ministero della Cultura tramite l’Istituto Pantheon e Castel Sant’Angelo – Direzione Musei Nazionali della città di Roma, sotto la guida di Massimo Osanna, in collaborazione con il Capitolo della Basilica di Santa Maria ad Martyres. All’evento hanno partecipato il Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, il Direttore Generale Musei, Massimo Osanna, e il Segretario del Capitolo della Basilica di Santa Maria ad Martyres, Mons. Franco Sarzi Sartori. La Direttrice del Pantheon, Gabriella Musto, ha illustrato i lavori, mentre la restauratrice Susanna Sarmati ha approfondito i dettagli dell’intervento completato. L’icona, risalente al 609 d.C., è stata restaurata per la prima volta dopo 63 anni grazie ai fondi forniti dallo sponsor Bulgari. I lavori, durati otto mesi, hanno incluso studi e ricerche, diagnosi scientifiche innovative e tecnologie all’avanguardia. Un team interdisciplinare di esperti, coordinato da Gabriella Musto e composto da Antonio Sgamellotti, Susanna Sarmati, Chiara Anselmi, Nicola Macchioni, Massimo Musacchio, Matilde Amaturo, Silvana Costa e Paolo Castellani, ha eseguito il restauro. L’icona, realizzata a tempera su legno di olmo, è legata alla consacrazione del Pantheon da parte di Papa Bonifacio IV il 13 maggio del 609 d.C., e secondo la tradizione è attribuita all’Apostolo Luca. Originariamente collocata nell’aula principale, è stata trasferita nella Cappellina d’inverno nel 1961 per motivi di conservazione. La copia realizzata da Geneviève Garnier nel 1959 rimane sopra l’altare maggiore del Pantheon. Ora, l’icona restaurata sarà riposizionata nella Cappellina d’inverno, che sarà presto accessibile al pubblico con visite guidate dopo i lavori di riqualificazione in corso. Il modo in cui la Vergine sostiene il Bambino e in particolare la posizione delle mani sono i motivi che fanno capire che l’immagine rientra nella tipologia dell’Odigitria. La mano destra della Madonna, infatti, tocca il ginocchio del bambino, indicando la via, la verità e la vita. Questo gesto sottolinea la mediazione di Maria presso Cristo. È proprio la mano che dona la salvezza. La Vergine Maria non guarda il Figlio, ma lo spettatore, che “chiama” indicandogli “il cammino”. Questa immagine era molto venerata anticamente non solo dai romani, ma anche da tutti i pellegrini che andavano a visitare la chiesa, con le sue centinaia di reliquie appartenute ai martiri dell’epoca di Diocleziano. Questa grande venerazione si può constatare per via dei vari strati di pittura sulla tavola per conservare l’immagine nel corso dei secoli. È stata ornata anche con una copertura d’argento dorato. Il Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, ha sottolineato l’importanza del restauro per la valorizzazione del Pantheon e ha evidenziato che i proventi derivanti dall’ingresso a pagamento del sito saranno utilizzati per ulteriori interventi, come la riqualificazione degli spazi retrostanti la Basilica di Nettuno. Massimo Osanna ha altresì commentato che il restauro rappresenta un’importante iniziativa di conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale, dimostrando come i musei italiani siano luoghi di studio, ricerca e collaborazione tra istituzioni pubbliche e private. Mons. Daniele Micheletti ha aggiunto che l’icona restaurata simboleggia la continuità tra la Roma pagana e cristiana, unendo secoli di storia in un luogo unico come il Pantheon. Gabriella Musto ha sottolineato che il restauro della Madonna del Pantheon è uno dei progetti di valorizzazione più significativi realizzati dall’Istituto Pantheon e Castel Sant’Angelo negli ultimi tre anni, parte di un più ampio programma di interventi che include il restauro del pavimento marmoreo policromo e dei candelabri settecenteschi. Jean-Christophe Babin, Amministratore Delegato di Bulgari, ha concluso esprimendo l’orgoglio della Maison nel contribuire alla bellezza di Roma, sottolineando il legame continuo tra Bulgari e la Città Eterna. Photocredit@Mic

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Roma: “Fringe Festival” dal 15 al 28 luglio 2024

gbopera - Sab, 13/07/2024 - 11:06

Roma, Teatro Vascello, Spazio Diamante
ROMA FRINGE FESTIVAL
Torna il ROMA FRINGE FESTIVAL dal 15 al 28 luglio 2024. Ad ospitare gli spettacoli saranno: Teatro Vascello e Spazio Diamante. La serata finale del 28 luglio invece, si terrà presso il Teatro India. Si alterneranno 21 spettacoli provenienti da tutta Italia, 21 compagnie dunque, per altrettante drammaturgie inedite e traduzioni di testi stranieri poco conosciuti dal pubblico italiano, per accendere i riflettori sul teatro indipendente. Qui per tutto il programma.

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Milano, Teatro alla Scala: “L’histoire de Manon”

gbopera - Ven, 12/07/2024 - 18:09

Milano, Teatro alla Scala, stagione d’opera e balletto 2023/24
“L’HISTOIRE DE MANON”
Balletto in tre atti basato sul romanzo Manon Lescaut dell’ Abbé Prévost.
Coreografia di Kenneth MacMillan
Musica Jules Massenet arrangiamento e orchestrazione di Martin Yates
Manon NICOLETTA MANNI
Des Grieux REECE CLARKE
Lescaut NICOLA DEL FREO
Monsieur G.M. GABRIELE CORRADO
L’amante di Lescaut MARTINA ARDUINO
Madame FRANCESCA PODINI
Il carceriere GIOACCHINO STARACE
Il capo dei mendicanti DOMENICO DI CRISTO
Solisti, Corpo di ballo e Orchestra del Teatro alla Scala di Milano
Direttore Paul Connelly
Scene e costumi Nicholas Geōrgiadīs
Milano, 10 luglio 2024
Che il coreografo Kenneth MacMillan vivesse per la scena sembra evidente, essendo morto letteralmente su di essa, o meglio nelle sue quinte: dopo alcune avvisaglie, un infarto lo stroncò durante l’ultimo atto di Mayerling. Tra le sue creazioni passate alla storia troviamo senza dubbio Romeo e Giulietta, nella coreografia “alternativa” alla prima creazione di Cranko, e L’Histoire de Manon, rappresentato in questi giorni al Teatro alla Scala. Se Arlene Croce bollò all’epoca queste coreografie, insieme anche a Onegin di Cranko (apripista di questa seconda storia del ballet d’action nel secondo Novecento), come balletti un po’ anacronistici, quelli che l’Ottocento non è riuscito a produrre, il loro successo fa cadere almeno in parte le visioni ideologiche che un critico dall’alto del suo pensiero possa avere. Per quanto riguarda L’Histoire de Manon, lo stile di MacMillan è riconoscibile, in special modo nella passionalità dei passi a due, che si traduce in continui volteggi che giocano con i fuori peso. In più, sono molte le virtù di questo balletto, in cui possono emergere le qualità non solo dei primi ballerini, ma anche dei solisti e del corpo di ballo nel suo insieme. Volendo però trovare qualche difetto, il principale sta forse nella trama, alcune volte un po’ di difficile da seguire, poiché fatta di troppo piccole sfumature. Ma il vizio sta, a nostro avviso, proprio nel soggetto stesso scelto: l’opera della Abbé Prévost è troppo sottilmente costruita su cambi repentini negli atteggiamenti dei personaggi, enormemente complessi dal punto di vista psicologico; in più, essendo strutturata come una sorta di racconto-confessione di Des Grieux, l’opera si rivela forse maggiormente come un’enorme riflessione sugli avvenimenti piuttosto che nella classica forma narrativa del dialogo e descrizione degli eventi. Tutto ciò crediamo si ripercuota nella trasposizione ballettistica, non solo e non tanto per il fatto di essere muta, ma perché costruita come una narrazione “classica”, quando invece l’opera letteraria mostra gli eventi maggiormente come un susseguirsi di sentimenti e implicazioni psicologiche. Tenevamo ad esprimere questo pensiero perché abbiamo notato alcune persone in sala avere difficoltà nel seguire la vicenda, e seppur conoscendola da una preventiva lettura del soggetto, comunque differente dall’opera letteraria, catturare poco alcuni dettagli. Tutto ciò non preclude però le grandi prove di qualità che questa coreografia mostra di avere, in special modo: il meraviglioso assolo di Des Grieux del primo atto, vera poesia corporale dedicata a Manon dopo averla conosciuta ed essersene innamorato; i passi a due, già citati; i pezzi in cui il corpo di ballo è protagonista specialmente del secondo atto; la scena iniziale del terzo atto, con la deportazione in Louisiana delle prostitute, di forte impatto emotivo, culminata nella violenza ai danni di Manon (dove viene persino simulato un atto di sesso orale). Nella serata a cui abbiamo assistito il ruolo di Manon era interpretato da Nicoletta Manni, che si dimostra sempre solidissima dal punto di vista tecnico, messa duramente alla prova dalla complessità psicologica del personaggio, a tratti quasi impossibile da restituire a pieno. Des Grieux era invece affidato a un artista ospite, Reece Clark, ventinovenne scozzese, principal al Royal Ballet. Nonostante qualche piccola imprecisione nell’assolo del primo atto (nei difficili salti en tournant in cui l’aplomb del ballerino è stato un po’ messo in crisi), il personaggio dello studente un po’ ingenuo è stato portato in scena con notevole maestria interpretativa, sfruttando ogni “momento vuoto” per uno sguardo o un’espressione; in aggiunta, l’indiscutibile presenza scenica di questo ballerino fa il resto. Nicola Del Freo, nel ruolo del ribaldo fratello di Manon, farabutto e opportunista, ha confermato la sua ormai sicurezza interpretativa in scena, oltre a una tecnica solida. Vagliare tutti gli altri protagonisti e passi sarebbe di troppo indugio, ci limitiamo a notare l’interpretazione di Gioacchino Starace nello scomodo ruolo del carceriere che compie la violenza sessuale su Manon, ruolo sostanzialmente non danzato e tanto sgradevole per il disgustoso atto perpetrato in scena. Le prossime repliche saranno il 13, 16, 17 e 18 luglio. Quelle del 13, 16 e 18 vedranno Manon interpretata dall’artista ospite Myriam Ould-Braham al fianco di Claudio Coviello nei panni di Des Grieux. Seguiremo la serata del 13 luglio per poterla vedere: seguiteci, vi terremo aggiornati! Foto Brescia & Amisano

 

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Milano, Teatro alla Scala:”Turandot”

gbopera - Ven, 12/07/2024 - 15:04

Milano, Teatro alla Scala, Stagione Lirica 2023/2024
TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni.
Musica di Giacomo Puccini
La principessa Turandot ANNA NETREBKO
L’imperatore Altoum RAUL GIMENEZ
Timur VITALIJ KOWALJOW
Il Principe Ignoto (Calaf) BRIAN JAGDE
Liù ROSA FEOLA
Ping SUNG-HWAN DAMIEN PARK
Pang CHUAN WANG
Pong JINXU XIAHOU
Un Mandarino ADRIANO GRAMIGNI
Prima ancella SILVIA SPRUZZOLA*
Seconda ancella VITTORIA VIMERCATI*
Il principe di Persia HAIYANG GUO**
*Artiste del Coro del Teatro alla Scala
**Allievo dell’Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del Teatro alla Scala
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Michele Gamba
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Maestro del Coro di Voci Bianche Marco De Gaspari
Regia Davide Livermore
Scene Eleonora Peronetti, Paolo Gea Cucco, Davide Livermore
Costumi Mariana Fracasso
Luci Antonio Castro
Video D-Wok
Nuova Produzione Teatro alla Scala
Milano, 9 luglio 2024
Una Turandot e due ricorrenze: i cent’anni dalla morte del suo Autore, quest’anno, e i cent’anni dalla sua prima esecuzione nel 2026, quando l’allestimento verrà ripreso. Il regista è Davide Livermore: l’uomo che, piaccia o no, ha dato alla Scala degli ultimi anni un indirizzo estetico preciso, quell’impronta che in altri tempi erano i direttori musicali a dare. Orizzonte iconografico pop-pulp allo scivoloso confine col kitsch-trash, zeffirelliano dispiego di mezzi spettacolari ma soprattutto spettacolosi, ricorso alla tecnologia per effetti speciali che gareggiano affannosamente con il mondo cinematografico e delle serie tv: caratteri che ritroviamo tutti anche in questo poderoso e imponente impianto scenico che Livermore firma con Eleonora Peronetti e Paolo Gep Cucco. Dove si fronteggiano, davanti all’usato ledwall, alti blocchi mobili di tetre case di Pechino (è il memorabile “Tetro alla Scala”, per fare il verso ad Arbasino che chiamava “Piccolo Tetro” quello delle buie depressioni frigerio-strehleriane). O dove, a fare da reggia, avanza dal fondo, fra una doppia fila di colonne trasparenti, un compatto carro scenico grigio con l’immancabile scalinata da rivista che serve alla Principessa per strascicarci sopra il lungo mantello, qui non dragonato ma pavonato (i costumi sono di Mariana Fracasso). Protagonista della scena è tuttavia l’enorme luna di pannelli led trasparenti, agile e inquieta, mobilissima dispensatrice di immagini. In mezzo a questo turbinio di movimenti, fra cavalli meccanici, cicogne e nevicate di coriandoli, si snoda una regia vera, attenta alla recitazione dei protagonisti e ai loro rapporti drammaturgici: è l’umanizzazione della fiaba. Anna Netrebko è una Turandot anomala, e proprio per questo tanto più affascinante. Il volume e il giro d’armonici impressionanti distraggono dall’intonazione talvolta fantasiosa. Il registro acuto resta di solidità, potenza, bellezza e ricchezza di suono impressionanti, e di sensualità e magia s’illumina nei suoi favolosi filati. Centri e gravi non sono quelli di un soprano drammatico, ma la geniale invenzione di un lirico dalle possibilità straordinarie. Comunque, qualunque amabile disquisizione vocale viene sbranata dalla tigre che è sul palcoscenico: una Turandot palpitante che rovescia il cliché dell’artigliata statua urlante. All’annunciato Alagna è subentrato Brian Jagde: forse un poco spaesato in uno spettacolo così complesso, non ha comunque fatto mancare il suo timbro lucente, l’emissione salda, il volume importante; solo il fraseggio resta sempre un po’ generico. Rosa Feola è un’ottima Liù, dal timbro gentile e perfetto di lirico puro, ma grintosissima e nient’affatto piagnucolante, anzi volitiva e coraggiosa: toccante e intelligente interprete, resta memorabile malgrado scopra una leggera oscillazione nel filare gli acuti. L’Imperatore non è il vegliardo relegato alla nuvoletta in cima alla scalinata, ma un affabile e cordiale vecchietto: a dargli voce è Raúl Giménez, che spezza con ritmica precisone le sue frasi e vi procura sempre senso ed espressione. Di quella ruffianata instagrammabile che sono i lumini commemorativi alla toscaniniana pausa dopo la morte di Liù s’è fatto già un gran parlare. In effetti commuoversi è difficile, fors’anche perché Vitalij Kowaljow, Timur, ha gran voce, ma parecchio ruvida, e né la dizione cartavetrata né l’emissione dura valgono ad addolcirla. Le tre maschere fanno piuttosto bene, anche se la dizione non è impeccabile: Pang è Chuan Wang, Pong è Jinxu Xiahou, Ping è Sung-Hwan Damien Park, che, vocalmente assai snello, vince la coppa delle agilità sceniche con una capriola che non interrompe il canto. Molto bene anche il mandarino di Adriano Gramigni. La direzione di Michele Gamba è ultranovecentesca, e giustamente, ma di un novecento in cui c’è molto Sacre e poca Salome. La tavolozza è quella livermoriana, avara di colori e prodiga di oscurità a forti contrasti: ne viene una Turandot arcaica, barbarica, brutale, cruda, aggressiva, dalle dinamiche roboanti e dai tempi precipitosi. Poco sfumata, poco fiabesca, poco magica, poco aurata. La suggestiva profondità sonora suggerita dagli interventi fuori scena di coro e banda di palcoscenico viene un po’ schiacciata da riporti molto ingombranti: così la misteriosa spazialità notturna che introduce il terz’atto non brilla di tanta poesia. Nonostante i vistosi miglioramenti di sera in sera, di scollamenti fra palco e buca ce n’è ancora qualcuno. Indomito e creativo l’ottimo coro di Alberto Malazzi. Di tipicamente novecentesco nella direzione di Gamba ci sono anche una certa liberalità a concedere fermate al tenore qualora lo desideri (per verità, la cosa era ben più evidente con l’irriducibile Eyvazov), i fastidiosi taglietti alla scena delle maschere, e l’adozione (seppur ob torto collo) del finale Alfano II, detto anche Alfano-Toscanini, dal nome del direttore che lo pretese e che mai lo diresse: oltre al danno, la beffa. Prossime repliche 12 e 15 luglio. Foto Brescia & Amisano

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Roma, Maxxi: “Passeggiate Romane” dall’11 luglio al 10 novembre 2024

gbopera - Gio, 11/07/2024 - 14:13

Roma, Maxxi
PASSEGGIATE ROMANE
galleria 1
scenografia di Dante Ferretti
Una passeggiata inconsueta nella storia della città
In mostra una selezione di opere e reperti, raramente visibili al pubblico, provenienti dai depositi di tre tra le istituzioni museali più importanti di Roma: Galleria BorgheseLa Galleria Nazionale e Musei Capitolini. Con questa mostra il MAXXI espone per la prima volta nei suoi spazi un cospicuo numero di opere di arte antica e moderna accogliendole in un allestimento scenografico immersivo concepito e progettato per l’occasione dal pluri-premio Oscar Dante Ferretti. Una scenografia autoriale che vede la città e la strada ampliarsi, invadendo l’ambiente chiuso della galleria e mettendo in discussione il consueto rapporto tra interno ed esterno. Le opere, in un gioco di rimandi e prospettive, entrano in stretto dialogo con l’attualità del MAXXI e, attraverso la sensibilità contemporanea del luogo, vengono rilette offrendo uno sguardo aggiornato sul presente. In collaborazione con Galleria Borghese, La Galleria Nazionale e Musei Capitolini.

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Festival d’Aix-en-Provence 2024: “Samson” de J.P.Rameau

gbopera - Gio, 11/07/2024 - 12:24
Festival lyrique Aix-en-Provence, Théâtre de l’Archevêché, saison 2024 “SAMSON” Opéra perdu de Jean-Philippe Rameau, livret censuré de Voltaire, inspiré de la Bible. Musique Jean-Philippe Rameau Samson JARRETT OTT Dalila JACQUELYN STUCKER Timna LEA DESANDRE Achisch NAHUEL DI PIERRO Elon LAURENCE KILSBY L’Ange JULIE ROSET Un convive ANTONIN RONDEPIERRE La Mère de Samson ANDREA FERREOL Chœur et Orchestre Pygmalion Direction musicale et conception musicale Raphaël Pichon Mise en scène, concept et scénario Claus Guth Scénographie Etienne Pluss Costumes Ursula Kudrna Lumières Bertrand Couderc Chorégraphie Sommer Ulrickson Aix-en-Provence, le 6 jullet 2024 En cette soirée du 6 juillet nous ne savions pas trop à quoi nous attendre pour la représentation du “Samson” de Jean-Philippe Rameau. Autant le dire tout de suite, c’était superbe et dans une réalisation sans faute. Une création mondiale dans le parti pris de recréer une partition écrite il y a près de 300 ans et perdue depuis dont le livret écrit par Voltaire avait été censuré deux fois. Le “Samson” auquel nous assistons ce soir n’est donc pas l’œuvre originale mais une reconstitution réussie qui veut rester dans la lignée des opéras de Jean-Philippe Rameau et dans l’esprit de Voltaire, philosophe contestataire et néanmoins humaniste. Raphaël Pichon sélectionne certains passages d’opéras tels que “Les Indes galantes”, “Castor et Pollux” ou “Les Fêtes d’Hébé”, susceptibles d’avoir été réutilisés par Rameau lui-même à partir de la partition de son “Samson”. Claus Guth coordonne, donne une ligne au récit biblique et, par rapport au Samson de Saint-Saëns, déjà anti-héros, nous propose un Samson plus violent, sanguinaire, qui n’arrive pas à réprimer ses pulsions. La vengeance qui l’habite le poussera à mourir avec ses ennemis dans un acte ultime où il se voit en justicier. Claus Guth nous présente un travail intéressant, original et, si nous n’aimons pas les opéras revisités, cette recréation nous a séduits en tous points. Le récit, tiré du Livre des Juges – Samson n’est-il pas le dernier des justes – retrace les éléments marquants de sa vie ; il déchire un lion à mains nues, retrouve un essaim d’abeilles dans sa dépouille et l’offre à sa mère, se marie, frappe les Philistins après la noce, met le feu à leurs champs en attachants des torches aux queux de chacals, pour finir prisonnier et aveugle. L’idée de la vengeance ne le quitte pas, jusqu’au moment où, sa force retrouvée, il meurt enseveli avec ses ennemis en détruisant les colonnes qui soutiennent le temple. Dès l’entrée Etienne Pluss pose le décor, une sorte de bel édifice en ruine que quelques ouvriers vont essayer de réparer. Ce récit, c’est la mère de Samson qui nous le livre dans un come-back intelligent : l’apparition de l’Ange qui lui annonce sa grossesse puis le jeune Samson et jusqu’à ses pleurs, agenouillée au milieu des ruines. Les costumes sobres imaginés par Ursula Kudrna jouent sur les couleurs, le blanc pour les Hébreux, le noir pour les Philistins. Les lumières de Bertrand Couderc sont admirablement pensées, dorées avec des rougeoiements qui évoquent l’incendie, plus sombres avec des contrejours ou venues du toit endommagé éclairant certains personnages. Lui, attaché sur un lit taché de sang et posé à la verticale, n’est-ce pas au Christ que l’on pense, ainsi qu’à l’image de la cène alors que, tout de blanc vêtu, il est assis au milieu de cette table entouré de philistins ? Lumières crues et scènes réalistes avec ces arrêts sur images qui font appel à la technique : laser, néons et éclairs spectaculaires. Ce spectacle qui nous remet en mémoire des textes millénaires nous tient en haleine jusqu’à la dernière note. La distribution homogène nous immerge dans ces temps anciens. Jarrett Ott est un Samson plus que crédible ; le baryton américain à la prononciation impeccable et au jeu pertinent chante dans une voix forte et ronde aux graves sonores dans un joli vibrato et un phrasé musical. Son combat intérieur se ressent dans le soutien du souffle et les contrastes de nuances qui donnent un relief vocal au personnage. Le solide baryton Nahuel Pierro interprète Achisch dans une voix aussi sombre que son noir costume et une projection sonore pleine d’énergie. Il laisse résonner les graves au vibrato contrôlé dans un jeu efficace et cohérant. Laurence Kilsby est un Elon à la voix claire et projetée. Son timbre de ténor peut monter jusqu’à la stridence dans une colère exacerbée aux rythmes marqués. Lea Desandre laisse ressortir le joli timbre de son mezzo-soprano dans une interprétation musicale du rôle de Timna. Dans un jeu approprié, les ornementations sont chantées avec délicatesse dans la pureté du style baroque qui contrôle le vibrato. L’envoûtante et lascive Dalila de Jacquelyn Stucker subjugue Samson dans une voix de soprano aux aigus clairs et projetés. Sa belle technique lui permet un vibrato contrôlé avec des nuances qui passent d’une voix forte à la tristesse, jusqu’à une plainte murmurée alors qu’elle se suicide. Très beau relief de ce personnage maléfique. On apprécie la voix pure de l’Ange annonciateur de Julie Roset qui perdra une aile dans toute cette violence. Bonne prestation aussi du ténor français Antonin Rondepierre pour un convive remarqué. Très remarquée aussi Andréa Ferréol pour le rôle parlé de la mère dans une voix projetée qui laisse ressortir ses sentiments. Pas d’effet théâtral mais une interprétation sobre et sensible. La chorégraphie conçue par Sommer Ulrickson pertinente, efficace et néanmoins artistique permet aux danseurs d’imager ce récit tout en soutenant la violence du discours. Toujours très présent, le Chœur Pygmalion aux voix homogènes, parfois coryphée antique et ciment inconditionnel de ce récit, nous donne à entendre des voix aux sonorités qui se fondent dans des contrastes de nuances où chœur d’hommes ou de voix mixtes vont de la puissance au murmure dans une belle intensité. L’Orchestre Pygmalion avec Raphaël Pichon à sa tête a su trouver les sonorités baroques de ses instruments tout en les faisant sonner avec plus ou moins de force mais toujours avec musicalité dans ce style particulier où les respirations donnent le rythme mais créent aussi les atmosphères.  Photo© Monika Rittershaus
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Roma, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo: ” Giubileo 2025. Le vie della Fede. Testimonianze d’arte e di pensiero”

gbopera - Gio, 11/07/2024 - 11:34

Roma, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo
GIUBILEO 2025. LE VIE DELLA FEDE. TESTIMONIANZE D’ARTE E DI PENSIERO
progettata e curata da Mariastella Margozzi
Roma, 10 luglio 2024
È stata prorogata fino al 30 agosto 2024 presso il Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo la mostra “Giubileo 2025. Le Vie della Fede. Testimonianze d’arte e di pensiero”. Promossa e organizzata dal Centro Europeo per il Turismo, Cultura e Spettacolo, l’esposizione è ospitata negli spazi del Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo, sotto la direzione dei Musei Statali di Roma del Ministero della Cultura. Il progetto espositivo esplora l’evoluzione dei temi e delle figure dell’arte sacra attraverso i secoli, offrendo testimonianze del complesso rapporto tra la collettività e il senso religioso. Castel Sant’Angelo, con la sua storia profondamente intrecciata a quella della Chiesa, rappresenta il luogo ideale per questa riflessione artistica e spirituale. Dalle opere più antiche presenti in mostra, quelle di Vittore Crivelli della fine del 400, alle più recenti dell’artista contemporaneo Omar Galliani, nella Mostra si snoda un percorso esemplificativo di immagini intimamente legate alla religione cristiana che attraversa oltre cinquecento anni di storia, partendo dall’arte cinque-seicentesca con opere, tra gli altri, di Orazio Gentileschi, Bartolomeo Passerotti, Bernardo Cavallino, Mattia Preti, Rutilio Manetti, Bartolomeo Manfredi, Bernardino Mei, Leonello Spada, Valerio Castello. Si passa poi attraverso la scelta culturale degli artisti della “modernità” tra *800 e ‘900 con la laicità di Domenico Morelli e Gaetano Previati. Si approda quindi alla ricerca di una profonda spiritualità con gli artisti che nella seconda metà del ‘900 rinnovano i parametri dell’arte religiosa per intima necessità di rilettura del sacro attraverso l’arte figurativa. Sono evidenti in queste opere l’angoscia esistenziale di Mario Sironi, la ieratica serenità di Giacomo Manzù, la religiosa visione di Venanzo Crocetti, quella tempestosa di Pericle Fazzini, lo spirito caustico di Giovanni Hajnal. Con Omar Galliani, unico artista vivente ed esponente di primissimo piano della più recente ricerca figurativa, la Mostra affronta il tema della rappresentazione contemporanea dell’intima comprensione dei misteri della Fede e della necessità intellettuale e spirituale della loro oggettivazione visiva. Nell’intento di esemplificare le tante possibili vie della Fede, la Mostra traccia alcuni profili di uomini e donne, santi e i beati dell’ultimo secolo, che rappresentano diversi approdi della continua ricerca di Rio da parte dell’umanità. Essi hanno seguito il senso del sacro nella loro vita, dedicandosi con amore agli altri e nutrendo il sentimento costante della Speranza nella Divina Misericordia. Le loro storie di fede assoluta nella severe, qui sintetizzate attraverso loro brevi pensieri, accompagnano il percorso della conoscenza del pensiero religioso moderno. Tra questi personaggi chiave nel tracciare le esperienze di riconoscimento del Divino nel mondo sono stati scelti Giovanni Battista Scalabrini, San Pio da Pietrelcina, Teresa Benedetta della Croce, Suor Faustina Kowalska, Madre Teresa di Calcutta, Chiara Lubich. L’impianto espositivo si sviluppa su tre sale, le cui caratteristiche architettoniche prevedono soffitti non particolarmente alti. Questo spesso limita lo spazio necessario per apprezzare pienamente le dimensioni delle opere esposte. Tuttavia, nonostante l’aspetto a tratti affollato, soprattutto per quanto riguarda le pitture di grandi dimensioni, la bellezza intrinseca dell’esposizione riesce a superare queste limitazioni. La scelta dei materiali espositivi, unitamente a didascalie semplici ma efficaci, permette al visitatore di cogliere immediatamente il profondo significato della mostra. Questo allestimento offre un’esperienza coinvolgente e illuminante, che va oltre la semplice fruizione visiva. Nonostante l’inaugurazione della mostra abbia ricevuto la giusta visibilità, attualmente essa risente dell’ondata di chiusure, e la proroga fino al 30 agosto 2024 rappresenta un’opportunità per rilanciare la promozione e aumentare l’affluenza. È fondamentale che questa mostra non sia percepita solo come una tappa di passaggio nella visita al castello, ma come una meta principale e meritevole di attenzione. La proroga offre quindi l’occasione di rinnovare l’interesse del pubblico e di attrarre visitatori che possano apprezzare appieno il valore artistico e culturale dell’esposizione. Personale accogliente e preparato. Photocredit@olivierodavide

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Ostia Antica, Parco Archeologico : “Riapre il Museo Ostiense”

gbopera - Mer, 10/07/2024 - 18:28

Ostia Antica, Parco Archeologico
RIAPRE IL MUSEO OSTIENSE
Straordinari interventi di restauro sulle strutture e sui reperti arricchiscono l’esperienza culturale per i visitatori
Roma, 10 Luglio 2024

Riapre al pubblico, all’interno del Parco archeologico di Ostia antica, il Museo Ostiense con un finanziamento Cipe di oltre 3 milioni di euro. Alla cerimonia sono intervenuti il Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, il Direttore generale Musei, Massimo Osanna, e il Direttore del Parco archeologico di Ostia antica, Alessandro D’Alessio. L’intervento si è articolato in due distinti capitoli, uno relativo ai lavori di adeguamento strutturale e allestimento, l’altro al restauro delle opere inserite nel percorso espositivo. La necessità di riallestire il museo nasce dalla duplice esigenza di illustrare la storia e il contesto della città romana di Ostia grazie a un racconto museale del tutto nuovo rispetto al passato e, al tempo stesso, di adeguare e mettere a norma, anche dal punto di vista statico-strutturale e dell’accessibilità fisica e cognitiva, il Casone del Sale, l’edificio risalente al XVI secolo e già sede del Museo Ostiense. Quest’ultimo è stato aggiornato anche nella dotazione impiantistica, illuminotecnica e tecnologica, oltre che sul piano scientifico ed espositivo, al fine di conferire alle opere che ospita la giusta atmosfera e la piena godibilità. Prima colonia di Roma e porta dell’Urbe sul Mediterraneo, Ostia fu fondata secondo la tradizione letteraria dal quarto re di Roma Anco Marzio (VII secolo a.C.). I dati archeologici non risalgono però oltre il IV secolo a.C., epoca alla quale si datano i resti più antichi dell’insediamento fortificato (castrum) posto alla foce del Tevere. Nel I secolo a.C. la città era a tal punto cresciuta che dovette dotarsi di una cinta muraria ben più ampia, la cui costruzione fu avviata sotto il consolato di Cicerone. Nel I secolo d.C., con la costruzione di Portus per volontà dell’imperatore Claudio, poi ampliato da Traiano all’inizio del II secolo, Ostia potenziò il suo ruolo di scalo commerciale di Roma. Questo comportò uno sviluppo economico e demografico che si tradusse in uno straordinario impulso edilizio e monumentale. A partire dalla metà del III secolo d.C., invece, la città entrò in una fase di inesorabile declino che condusse al suo progressivo e poi definitivo abbandono intorno alla metà del VI secolo. Dopo essere stata per secoli cava di materiali a cielo aperto, nella seconda metà del Settecento Ostia fu oggetto di sterri finalizzati al recupero di opere d’arte e altri oggetti destinati al mercato antiquario. Le prime indagini archeologiche mirate a rendere il sito accessibile risalgono al XIX secolo, ma è sotto la direzione di Dante Vaglieri (dal 1908 al 1913), e poi a seguire di Guido Calza (fino al 1946), che la città romana venne progressivamente riportata alla luce. Nel 1934 fu inaugurato il Museo Ostiense all’interno del Casone del Sale, per il cui primo riallestimento si dovrà attendere il 1962. Oggi, a più di 60 anni, il Museo riapre, rinnovato e totalmente ripensato. Articolato in 12 sale, il racconto museale si sviluppa in 7 grandi macrotemi: le origini e l’età repubblicana, il potere imperiale, gli spazi civici, la gente, le religioni e i culti, le necropoli del territorio, le forme dell’abitare. Focus specifici riguardano il santuario di via della Foce, i contesti funerari dall’Isola Sacra e lo spazio “dei filosofi”. Il percorso espositivo è integrato da un apparato multimediale che va a completare gli strumenti didattici tradizionali: touchscreen su cui si possono approfondire, attraverso fotografie storiche e disegni conservati negli archivi ostiensi, i principali monumenti e quartieri cittadini – un modo per rendere fruibile un patrimonio di documentazione solitamente non visibile; inoltre, video di approfondimento fruibili mediante sistema sound shower, cioè con audio direzionato sullo spettatore in modo da non arrecare disturbo agli altri visitatori presenti in sala. In occasione del riallestimento, oltre cento opere che ne costituiscono la collezione permanente sono state interessate da interventi di restauro specialistico: un progetto complesso, che ha affrontato diverse situazioni conservative determinate innanzitutto dalla tipologia dei manufatti (sculture, rilievi, mosaici, pitture, ecc.) e dai relativi materiali costitutivi; si è inoltre dovuto tenere conto delle integrazioni e modifiche apportate alle opere dopo il loro rinvenimento nel corso del XX secolo. Diversamente dal passato, si è deciso di non reintegrare quanto inesorabilmente perduto, proprio per favorire l’apprezzamento di quanto invece superstite; pertanto, per una serie di sculture sono state studiate e dimensionate strutture autoportanti in metallo, in grado di restituire gli ingombri delle porzioni assenti consentendo al visitatore di immaginare e reintegrare mentalmente le parti perdute. La realizzazione del nuovo Museo Ostiense ha rappresentato un impegno importante del Parco archeologico di Ostia antica, nel segno di una sempre maggiore e più diversificata offerta culturale che va ad aggiungersi alla serie di nuove aperture dei rispettivi luoghi già approntate negli ultimi 4 anni. “L’intero Parco archeologico, con le monumentali aree dei porti imperiali di Claudio e Traiano e della Necropoli di Porto all’Isola Sacra rappresentano, senza dubbio, un caposaldo dell’archeologia e della storia dell’arte romana, per quel che riguarda sia la produzione scultorea, sia e soprattutto quella musiva e pittorica con opere di altissima qualità del tutto identitarie ed esemplificative della realtà ostiense. E lo stesso può dirsi dell’architettura monumentale e dell’edilizia di Ostia, praticamente una summa delle tipologie e delle tecniche costruttive come della decorazione architettonica romana – dichiara Alessandro D’Alessio, direttore del Parco archeologico di Ostia Antica – La prima ambizione del Museo Ostiense è quella di ricomporre, come mai era stato prima e al netto dei pur imprescindibili aspetti museografici, la rete di relazioni, strettissime e biunivoche, che unisce i capolavori e gli altri oggetti esposti ai contesti urbani, infrastrutturali e funerari di pertinenza. Mettere cioè a sistema la città (quella dei vivi e quella dei morti), le sue istituzioni e il suo funzionamento, con la cultura artistica e materiale che ne promanò”. Per accompagnare la visita del museo è stata pubblicata un’agevole guida (a cura di Alessandro D’Alessio e Cristina Genovese per i tipi Electa), che raccoglie i testi dei pannelli introduttivi al nuovo percorso e alle singole sale in cui si articola l’esposizione delle opere. Photocredit@ParcoArcheologicoOstiaAntica

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Staatsoper Stuttgart: “La Sonnambula”

gbopera - Mer, 10/07/2024 - 10:14
Staatsoper Stuttgart, Stagione 2023/24 “LA SONNAMBULA”
Melodramma in due atti con libretto di Felice Romani, basato sul balletto-pantomima La sonnambule, ou l’arrivée d’un nouveau seigneur di Eugène Scribe
Musica Vincenzo Bellini
Il conte Rodolfo ADAM PALKA
Teresa HELENE SCHNEIDERMAN
Amina CLAUDIA MUSCHIO
Lisa CATRIONA SMITH
Elvino CHARLES SY
Alessio ANDREW BOGARD
Un notaio RUBÉN MORA
Orchestra e Coro della Staatsorchester Stuttgart Direttore Andriy Yurkevych Maestro del Coro Bernhard Moncado Regia e Drammaturgia Jossi Wieler, Sergio Morabito Scene e Costumi Anna Viebrock Luci Reinhard Traub Ripresa dell’ allestimento andato in scena nella stagione 2011/12 Stuttgart, 7 luglio 2024 Con la ripresa della produzione di Sonnambula ideata nel 2012 da Jossi Wieler e Sergio Morabito si è conclusa la stagione della Staatsoper Stuttgart. Questa messinscena del capolavoro di Bellini ottenne un grande successo alle sue prime apparizioni, oltre a diversi premi, e fu anche esportata in altri teatri. Per me invece si tratta di una lettura scenica che non sono mai riuscito a farmi piacere e questa riproposizione non mi ha fatto cambiare opinione, anche se la regia è stata ripulita di alcune tra le più grosse volgarità presenti nella concezione originale. A parte la povertà estetica di una scenografia decisamente poco attrattiva da guardare, l’ idea di presentare Amina come una ragazza afflitta da disturbi mentali non è del tutto priva di senso, ma la condotta scenica generale contrasta in maniera stridente con una musica dal tono generale di puro idillio romantico che dovrebbe evocare un’ atmosfera simile a quella dei grandi balletti romantici come Les SylphidesGiselle e il Lago dei Cigni. Le affinità stilistiche tra alcuni aspetti dello stile musicale di Bellini con quello di Chopin, presenti nella Sonnambula in modo molto evidente, sono state già messe in evidenza da molti studiosi autorevoli e ridurre tutta la vicenda a una sagra paesana in stile Oktoberfest, con i tavolini e le panche da Biergarten spostati dai coristi causando un forte rumore che disturba gravemente la musica, non aiuta a mettere in risalto gli aspetti principali di questa partitura delicata e tutta tenuta su colori al pastello. In ogni caso, si tratta di un  personale parere che può essere anche discusso. Quello che, sempre secondo noi, è del tutto inaccettabile in questa messinscena è il modo in cui viene resa la scena finale, in cui Amina appare con addosso una camicia di notte macchiata di sangue e si contorce dal dolore come se avesse appena abortito. Qualcuno potrà anche ritenere interessante questa interpretazione, a nostro parere è solo una grave caduta di gusto che si poteva e doveva evitare. Per quanto attiene alla parte musicale, la guida d’ insieme era affidata ad Andriy Yurkevich, direttore ucraino da tempo residente in Italia. Si tratta di un maestro di grande esperienza, che in questa esecuzione ha realizzato molto attentamente tutti gli accompagnamenti orchestrali, soprattutto nei momenti in cui Bellini mette i cantanti in grossa difficoltà a causa dello strumentale ridotto al minimo, e ha evidenziato molto bene lo sviluppo drammatico della vicenda. Parlando della compagnia di canto, il pubblico della Staatsoper Stuttgart attendeva con impazienza il debutto di Claudia Muschio nel ruolo di Amina. e questa recita ha segnato la consacrazione definitiva della ventottenne cantante bresciana, che con le sue belle interpretazioni ha guadagnato la stima e la considerazione degli spettatori abituali del teatro. Con la sua voce dolce dai toni vellutati, messa in rilievo da una preparazione tecnica eccellente, Claudia Muschio ha tratteggiato un’ Amina dal carattere ritroso e fragile, con un’ intensità espressiva che aveva il suo culmine nella scena finale dove il giovane soprano con il suo perfetto legato e la precisione impeccabile della coloratura nella cabaletta ha trascinato all’ entusiasmo il pubblico, che ha reagito con una vera e propria standing ovation a un’ esecuzione notevolissima per la maturità espressiva dimostrata dalla cantante italiana. Anche gli altri componenti del cast hanno fornito una prestazione di ottimo livello. Il giovane tenore canadese Charles Sy, anche lui diplomato come Claudia Muschio dall’ Opernstudio, ha realizzato con sufficiente sicurezza tutti i passaggi difficili del ruolo di Elvino, anche se la voce tende un po’ a stringersi nelle note alte. Il basso polacco Adam Palka, una tra le migliori voci dell’ ensemble di Stuttgart, ha realittato una notevole caratterizzazione del Conte Rodolfo, cantando con un fraseggio molto ispirato la celebre aria “Vi ravviso o luoghi ameni”. Eccellente è stato anche il contributo di Catriona Smith e Helene Schneiderman, due voci storiche della Staatsoper, nei ruoli di fianco di Lisa e Teresa. Il successo è stato intensissimo per tutti, con un vero e proprio trionfo per Claudia Muschio. Foto Martin Sigmund
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Venezia, Teatro La Fenice: Markus Stenz dirige Ives, Bellini e Wagner

gbopera - Mar, 09/07/2024 - 09:42

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2023-2024
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Markus Stenz
Maestro del Coro Alfonso Caiani
Piccoli Cantori Veneziani
Maestro del Coro Diana D’Alessio
Amfortas Alex Esposito
Titurel Adolfo Corrado
Gurnemanz Tareq Nazmi
Parsifal Leonardo Cortellazzi
Eine Altstimme Valeria Girardello
Charles Ives:  “The Unanswered Question”; Vincenzo Bellini: “Norma”, sinfonia
Richard Wagner: “Parsifal” – estratti
Venezia, 6 luglio 2024
Ancora Markus Stenz – già protagonista, nel mese di giugno, al Teatro La Fenice in occasione di eventi e reduce dalla recente, fortunata tournée fenicea ad Amburgo – è salito nuovamente sul podio del Teatro veneziano, per cimentarsi in unprogramma, comprendente The Unanswered Question di Ives, la Sinfonia dalla Norma di Bellini e alcuni estratti dal Parsifal di Wagner, questi ultimi interpretati dai basso-baritono Alex Esposito, dai bassi Adolfo Corrado e Tareq Nazmi, dal tenore Leonardo Cortellazzi e dal mezzosoprano Valeria Girardello , nonché dal Coro, istruito da Alfonso Caiani. Assolutamente lontana dal sinfonismo classico-romantico è apparsa The Unanswered Question (1908), una partitura sperimentale, punto di partenza della nuova musica americana; ammirevole per la semplicità dei mezzi utilizzati dal compositore, che sovrappone tre diverse dimensioni espressive con evidenti implicazioni simboliche, affidate rispettivamente agli archi, alla tromba solista e a un quartetto di flauti. Calibratissimo – sotto la guida del maestro tedesco, che ha saputo coordinare con precisione i due gruppi strumentali e il solista – l’intervento dell’orchestra d’archi nell’intessere uno sfondo rarefatto, che ha attraversato l’intera partitura con accordi consonanti, prolungati, implacabili, a rappresentare anche fisicamente – gli archi stavano fuori scena – la distanza tra il silenzio dei “druidi”, che nella loro solitudine indisturbata contemplano il nulla, e l’affannosa ricerca dei mortali. La tromba di Piergiuseppe Doldi – collocata suggestivamente in loggione – ha ben interpretato, reiterando la sua frase politonale avvolta dalla stessa aura sospesa – il ruolo dell’eroe, che si interroga sul senso dell’esistenza, mentre il quartetto dei flauti – perfettamente affiatati nei loro interventi dissonanti – hanno reso con asprezza e goffaggine crescenti il vano tentativo degli uomini di trovare una risposta all’eterno interrogativo della tromba. Ancora i druidi venivano, in qualche modo, evocati dalla sinfonia della Norma (1830), nella cui esecuzione Stenz – sostenuto dall’orchestra in gran forma – ha dato prova di una grande scuola del legato e di una spiccata sensibilità melodica, oltre che di una lettura intensamente espressiva. Solennemente tragica l’introduzione accordale in Sol minore, che apre questo incisivo mosaico sonoro, che prelude mirabilmente al contenuto psicologico della vicenda. Carico di inquietudine e tensione il primo tema che scende poggiando su una sesta napoletana di sol, affidata al nervoso ribattuto di flauto, violini primi e viole, cui è seguito il secondo tema – strettamente imparentato con il precedente – con il suo incedere convulso e bruscamente marcato. Meno frenetico ma pur sempre molto espressivo il terzo tema, dal ritmo puntato, affidato ai legni e alle trombe sul pacato pizzicato degli archi, anticipando la vibrante cabaletta di Norma, che chiude il duetto con Pollione nel secondo atto. Uno squarcio inatteso si è schiuso con il quarto tema, in maggiore, poiché i trilli dei violini primi su un placido fondale orchestrale emanavano un’aura di serenità mistico-contemplativa, precorrendo le pacate battute conclusive dell’aggressivo coro di guerra nell’atto secondo (peraltro, spesso implacabilmente tagliate). Del Parsifal di Richard Wagner (prima rappresentazione: Bayreuth, Festspielhaus, 26 luglio 1882) si è eseguita la scena che si svolge nella Sala del Gral, presso il Castello di Montsalvat. Parsifal, ‘der reine Tor’ (‘il puro folle’), vi giunge accompagnato da Gurnemanz, il decano dei Cavalieri del Gral, che lo guida alla pia Àgape, dove riceverà bevanda e nutrimento dalla sacra coppa. Straordinario il maestro Stenz nel guidare con mano sicura l’Orchestra lungo questo percorso ‘virtuale’ dalla foresta ad una grotta fra volte rocciose, reso da Wagner attraverso il dipanarsi di uno spettacolare interludio sinfonico: la Verwandlugsmusik (Musica della trasformazione). Equilibrata eppure potentemente espressiva l’interpretazione del direttore tedesco, che ha saputo immergerci in questo fiume di note, dove si sono avvicendati in tutta la loro icasticità numerosi leitmotive – tra cui il ricorrente Motivo delle Campane e lo straziante Motivo della Sofferenza –, in un graduale crescendo a misura che i due personaggi si avvicinanvano idealmente al castello. Nella grande sala è risuonato, solenne, il Motivo dell’Àgape – intonato da trombe e tromboni –, e poi ancora quello delle Campane un po’ variato nel ritmo. L’episodio è culminato nella suggestiva enunciazione del Motivo del Gral (il celebre Amen di Dresda), seguito dai timpani con la loro incisiva versione ancora del Motivo delle Campane. Una volta entrati nella sala – da qui è iniziata anche la parte vocale – Gurnemanz e Parsifal assistono al rito. Veramente eccelsa, in generale, la prestazione dei cantanti e dei Cori. Traboccante di pathos l’Amfortas di Alex Esposito, segnalatosi per nobiltà di timbro e fraseggio, dovizia di contrasti e sfmature a livello interpretaivo, nel suo gridare la sua disperazione prima della celebrazione eucaristica, dando l’idea di un rituale compromesso, estenuato, prossimo alla dissoluzione. L’esternazione del rimorso e della sofferenza da parte di Amfortas – colpevole di aver ceduto a Kundry – è esplosa in tuta la sua forza tra continue contorsioni cromatiche, che invano cercano una ‘redenzione’ diatonica. Toccante il Titurel, padre di Amfortas, di Adolfo Corrado – voce dal forte timbro suro – nei suoi accorati interventi. Autorevole Tarekq Nazmi come Gurnemanz, anch’egli dalla voce ben timbrata, nobile e severo, a guidare il ‘puro folle’ verso la consapevolezza della propria missione redentrice. Incisivo Leonardo Cortellazzi nei brevi interventi di Parsifal appena prima che inizi la Musica di trasformazione. Analogamente positiva Valeria Girardello – Una voce dall’alto – in chiusura della scena. Esemplare il Coro della Fenice, insieme ai Piccoli Cantori Veneziani, a dar voce con giusto accento ed encomiabile adeguatezza interpretativa ai momenti salienti dell’azione sacra, segnalandosi nella sommessa scansione delle formule rituali durante la celebrazione eucaristica. Successo caloroso per tutti e un affettuoso saluto al maestro tedesco.

 

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München, Bayerische Staatsoper: “Idomeneo”

gbopera - Mar, 09/07/2024 - 01:17
München, Bayerische Staatsoper, Opernfestspiele 2024 “IDOMENEO
Dramma per musica in tre atti su libretto di Gianbattista Varesco. Musica di Wolfgang Amadeus Mozart Idomeneo PAVOL BRESLIK Idamante EMILY D’ANGELO Ilia  OLGA KULCHYNSKA Elettra  HANNA ELISABETH MÜLLER Arbace  JONAS HACKER Gran sacerdote di Nettuno LIAM BONTHRONE La voce ALEXANDER KÖPECZI Bayerische Staatsorchester e Coro Opernballett der Bayerischen Staatsoper Direttore Ivor Bolton Maestro del coro Christoph Heil Regia Antú Romero Nunes Scene Phyllida Barlow Costumi Victoria Bahr Luci Michael Bauer Coreografia Dustin Klein Drammaturgia Rainer Karlitschek Nationaltheater München, 5 luglio 2024
Dopo la fine della stagione regolare, il cartellone della Bayerische Staatsoper ha tradizionalmente un’ appendice costituita dai Münchner Opernfestspiele, nel cui programma in genere una nuova produzione viene affiancata da alcune riprese scelte fra gli spettacoli di maggior successo. Da parecchi anni io cerco sempre di fare almeno una visita a questa rassegna, anche perché la capitale bavarese in questo periodo dell’ anno consente di gustare tutte le sue bellezze in una situazione meteorologica splendida. Quest’ anno, la mia scelta è caduta sulla ripresa del bell’ allestimento di Idomeneo andato in scena per la prima volta nel 2021 e al quale avevo già assistito in quell’ occasione. Si tratta di uno spettacolo al quale sono particolarmente legato perché  fu la prima opera che vidi dopo la pandemia. In aggiunta, l’ opera di Mozart scritta proprio per München è un tale commovente capolavoro che ogni esecuzione in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo da quattro anni in qua costituisce un bel segnale di speranza. In origine questa produzione era stata concepita per il Prinzregententheater. Per questa ripresa lo spettacolo è stato trasferito al Nationaltheater, la sede principale della Bayerische Staatsoper. Questo ha comportato alcune modifiche e aggiunte alla messinscena ideata da Antù Romero Nunes, quarantenne regista nato a Tübingen e figlio di un portoghese e una cilena, affermatosi in teatri di prosa importanti come il Thalia Theater Hamburg e il Maxim-Gorki-Theater Berlin, che a München aveva già firmato gli allestimenti del Guillaume Tell e di Les Vêpres siciliennes. La sua regia era basata sulle sculture sceniche ideate dall’ artista britannica Phyllida Barlow, alla sua prima prova come scenografa. Il mondo raffigurato dalla scultrice nativa di Newcastle, che nel 2017 è stata scelta per ideare il padiglione della Gran Bretagna alla Biennale di Venezia, era quello di un caos primordiale illustrato tramite strutture indefinite, con i personaggi vestiti in costumi di epoca imprecisata ideati da Victoria Behr. L’ immagine d’ insieme era senza dubbio di grande effetto e l’ allestimento era sicuramente pulito e gradevole, con alcuni momenti davvero ben riusciti. Come nel 2021, la parte musicale ci ha fatto vivere momenti di livello qualitativo assai elevato. Per questa ripresa la direzione era affidata a Ivor Bolton, sessantaseienne musicista inglese a cui la Bayerische Staatsoper affida da parecchio tempo la guida di tutto il repertorio settecentesco. La sua direzione era senza dubbio apprezzabile per il buon ritmo teatrale, la coordinazione tra buca orchestrale e palcoscenico e una attentissima realizzazione dei recitativi sostenuti da un basso continuo formato da organo, cello, chitarra barocca, clavicembalo e fortepiano. L’ opera era eseguita in versione pressoché integrale e con l’ aggiunta di altri brani come l’ aria Non temere, amato bene K. 505 nel secondo atto e il Balletto K. 367 alla conclusione. La compagnia di canto era pressochè immutata rispetto alle recite di tre anni fa, e per questo abbiamo potuto nuovamente ammirare la prova davvero magnifica di Hanna-Elisabeth Müller come Elettra. La trentanovenne cantante di Mannheim, che in questi ultimi tempi ha ottenuto grandi successi alla Wiener Staatsoper come Contessa delle Nozze ed Eva nei Meistersinger, è un’ artista che io seguo da tempo, a partire dalle sue prime esibizioni a Stuttgart nei concerti della Bachakademie. Con questa Elettra, stupendamente sbalzata in tutti i suoi aspetti tragici da una caratterizzazione scenica e vocale di incredibile intensità drammatica, con i difficili passaggi di agilità di forza nelle due arie Tutte nel cor vi sento e D’Oreste, d’Aiace superati con perfetta disinvoltura, Hanna-Elisabeth Müller ha confermato la sua statura di interprete mozartiana tra le più autorevoli della giovane generazione. A rendere ancora più completa la sua interpretazione era la resa intensa dell’ aria del secondo atto Idol mio, di carattere squisitamente lirico, cantata con morbidi pianissimi e un legato di alta scuola. Molto buona è apparsa anche la Ilia del trentaquattrenne soprano ucraino Olga Kulchynska per il fraseggio aggraziato e il timbro luminoso, oltre che per la cura del fraseggio nelle arie. Il giovanissimo mezzosoprano italo-canadese Emily D’ Angelo impersonava Idamante con una voce indubbiamente pregevole e abbastanza ben gestita soto l’ aspetto tecnico, che le ha consentito una resa davvero notevole, oltre che nella celebre aria di entrata Non ho colpa e mi condanni, anche del recitativo e aria con pianoforte obbligato Ch’ io mi scordi di te? K. 505, scritta da Mozart per Nancy Storace sullo stesso testo di un’ aria alternativa composta per la revisione viennese dell’ Idomeneo e in questa produzione eseguita durante il secondo atto. Nuovo era l’ interprete di Idomeneo, il quarantacinquenne tenore slovacco Pavol Breslik che forse non si trovava completamente a suo agio nella tessitura vocale molto centrale del ruolo e ha rivelato un certo impaccio nell’ aria Fuor del mar, anche se eseguita nella versione semplificata scritta per la revisione del testo andata in scena a Vienna nel 1786, cosa del resto abbastanza comune in quanto pochissimi sono stati i cantanti in grado di confrontarsi con i lunghi passaggi di coloratura presenti nella stesura originale. Ad ogni modo Breslik, che è un cantante di buona preparazione tecnica e intelligenza musicale, è riuscito a rendere un ritratto abbastanza efficace dell’ infelice re di Creta, ben fraseggiato e cantato in maniera stilisticamente appropriata. Buona è apparsa anche la prova del tenore statunitense Jonas Hacker, che ha cantato in maniera più che onorevole le due arie di Arbace. Il pubblico, che riempiva quasi completamente il Nationaltheater, ha applaudito a lungo tutti i protagonisti di uno spettacolo ricco di aspetti pregevoli.
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Novara, Teatro Coccia: “Aida” (cast alternativo)

gbopera - Lun, 08/07/2024 - 18:41

Novara, Teatro Coccia, Stagione 2024
AIDA”
Opera in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica di Giuseppe Verdi
Il Re d’Egitto LUCA PARK
Amneris 
VERONICA SIMEONI
Aida
 SERENA FARNOCCHIA
Radamès JASON KIM
Amonasro GUSTAVO CASTILLO
Ramfis STEFANO PARADISO
Una Sacerdotessa ELENA MALAKHOVSKAYA
Un Messaggero DAVIDE LANDO
Orchestra Filarmonica Italiana
Schola Cantorum San Gregorio Magno
Direttore Marco Alibrando
Maestro del Coro Alberto Sala
Regia Alberto Jona
Scene Matteo Capobianco
Costumi Silvia Lumes
Coreografia Gérard Diby
Visual Designer Luca Attilii
Luci Ivan Pastrovicchio
Produzione Fondazione Teatro Carlo Coccia di Novara in collaborazione con Associazione Teatro Popolare di Sordevolo
Novara, Teatro Coccia 06 luglio 2024
Il novarese Teatro Coccia, avendo vinto, l’anno scorso, con il verdiano Nabucco, la sfida di portare nell’Arena della Passione di Sordevolo l’opera lirica, ci ha riprovato, ancora con Verdi, con AIDA uno dei titoli più emblematici dell’intero repertorio. Le improvvise frequenti piogge, marchio di quest’inizio d’estate, si sono messe di traverso per cui la seconda recita (la nostra) che comunque contava un tutto venduto, si è dovuta precipitosamente trasferire a Novara, al riparo della sala del Coccia. La circostanza, viste le incontrollabili mattane atmosferiche, era prevista e in largo senso organizzata, ciò però non è valso ad evitare una notte insonne degli organizzatori, la carovana dei trasferimenti, le difficoltà di stipare in un palcoscenico non enorme quanto allestito per lo spazio spropositato dell’Arena. Visto poi che, pur in tempi di informazioni on line, non sempre tutto funziona come fosse un orologio, diverse decine di possessori di biglietto sono rimasti “a terra”, a Sordevolo, di fronte a cancelli chiusi con tra le dita biglietti pagati ma non si sa se ulteriormente utilizzabili per le recite a venire. La sera del 6 luglio, il migliaio circa di spettatori giunti in qualche modo a Novara, ha occupato “alla rinfusa”, come richiesto dalle maschere, l’intera platea e le prime due file dei palchi. Ad un’accorata ed esauriente introduzione di Corinne Baroni, Direttrice artistica del teatro, è seguita un’introduzione allo spettacolo dell’ottimo Regista dello stesso: Alberto Jona. Sono state puntualizzate le difficoltà dello spostamento e a quanto si è dovuto rinunciare rispetto alla più completa versione “en plein air”. L’impostazione registica colloca l’azione in Egitto, nell’ottocentesco cantiere di scavi dell’illustre egittologo biellese Giovanni Battista Schiapparelli che, tra casse sovrabbondanti di reperti si immagina protagonista di una storia d’amore con la bella nubiana Aida. Tra le tante idee bislacche che allignano nell’odierno teatro d’opera è forse questa la meno contundente e quindi assolutamente accettabile. Numerose proiezioni, molto efficaci e molto colorate, forniscono, con gusto sicuro una precisa ambientazione all’azione e ne danno la giusta ed efficace temperie psicologica. Geroglifici e scrittura ieratica, le rive del fiume, piramidi ed intricati interni con rischiosi camminamenti. La parte musicale ha poi siglato perentoriamente l’esito felice della serata. Marco Alibrando è il giovane direttore d’orchestra messinese che conduce brillantemente, con la giusta veemenza e l’essenziale libertà interpretativa, l’Orchestra Filarmonica Italiana, collaboratrice super affidabile del Teatro Coccia. In tempi in cui le voci scontano, col declinare impietoso delle teste di serie, la presenza di pochissimi rincalzi, il gruppo, secondo cast della produzione, che ha calcato il palcoscenico novarese si è degnamente fatto valere. Spicca su tutti il bel timbro e l’appassionata vocalità dell’Aida di Serena Farnocchia in cui convive, con una raffinata educazione, una equilibrata passionalità. Non schiva gli scogli di una parte assai insidiosa, ma li sa aggirare con scaltra intelligenza. Veronica Simeoni ci dà un’Amneris volitiva e nervosa. La sua passione è più di calcolo che non di carne. Il “ti faccio vedere io chi sono” la domina e la tormenta. Il timbro, dalle sfumature androgine, la soccorre nel renderci il personaggio difficilmente dimenticabile. Entusiasma per giovanile vigore e per sprezzo del rischio l’Amonastro di Gustavo Castillo. Diaframma d’acciaio, polmoni da sub e suoni sfogati sprezzano i rischi che pur potrebbero annidarsi nelle pieghe della veemenza del suo canto. Sullo stesso piano il Radames di Jason Kim che pur qualche inciampo parrebbe averlo già incontrato. Lo squillo tenorile è bello e piacevole, la tenuta delle frasi, a tratti, si affanna. Ramfis, il basso Stefano Paradiso, nonostante un’indisposizione segnalata, porta bene in porto il suo operato. Come pure fanno Luca Park, il Re d’Egitto, Elena Malakhovskaya, la Sacerdotessa e Davide Lando che con prestazione maiuscola ci fa dimenticare le tante malefatte che nel ruolo di Messaggero si son sentite in tante occasioni. È stata anche assai pregevole e applaudita la prestazione del coro Schola Cantorum San Gregorio Magno sotto l’accorta direzione del Maestro Alberto Sala. Trionfale nel nome e nel fatto la prestazione degli ottoni, dell’Orchestra Sinfonica Italiana, che hanno infuocato sala e pubblico nel secondo atto. Le Danze dei Negretti, nel secondo atto, sono state abbozzate, con grazia, da fanciulli, forse della troupe dei figuranti in trasferta del Teatro Popolare di Sordevolo. Della stessa troupe, in processione tra il pubblico, con reperti antichi tra le mani, la rappresentazione della Marcia trionfale. Gli altri momenti di danza, il tempio del primo atto e il trionfo, sono stati affidati alla coreografia e al corpo sinuoso di un formidabile apprezzatissimo e applauditissimo Gèrard Diby. Doppiamente ammirevole e riuscito il lavoro dell’equipe tecnica che ha dovuto affrontare il “trasloco”: per le luci Ivan Pastrovicchio e Alberto Jona, il visual designer Luca Attilii e il Controluce Teatro D’Ombre; per la scena Matteo Capobianco, e per i bellissimi costumi Silvia Lumes. La recita, nonostante le traversie della location è stata senza inciampi ed inconvenienti, con un timing perfetto che ha consentito al pubblico, in maggioranza biellese, un rientro tranquillo. Gli applausi ci sono stati, per i singoli e per l’insieme, contenuti comunque in durata per evitare il rischio di successive corse spericolate tra le risaie. Ancora due recite con l’incognita della sede: venerdì 12 e sabato 13 luglio. Foto Mario Finotti e Anastasiya Tymofyeyeva

Categorie: Musica corale

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