101° Arena di Verona Opera Festival 2024
Orchestra della Fondazione Arena di Verona
Violino Giovanni Andrea Zanon
Regia Marco Balich
Direzione creativa e Artistica Stefania Opipari, Claudio Sbragion
Direzione Artistica Contenuti Video Rino Stefano Tagliafierro
Design Contenuti Video Moving Dots
Antonio Vivaldi: Concerti Le quattro stagioni da Il Cimento dell’armonia e dell’invenzione op. 8; Concerto in mi bemolle maggiore op. 8 n. 5 “La tempesta di mare”
Verona, 28 agosto 2024
Un’ode al nostro Pianeta Terra, alla sua bellezza e meraviglia, alla delicatezza dei suoi fragili ecosistemi attraverso il passare delle quattro stagioni. Un viaggio straordinario nella magnificenza e nella potenza della natura è l’occasione per ricordarci le sfide che dobbiamo affrontare per preservarne l’equilibrio. Con queste parole la Fondazione Arena ha presentato la serata Viva Vivaldi – Immersive Concert, un’esperienza visiva sulle note secolari del Prete Rosso che celebrano il meraviglioso spettacolo del Creato, prestando l’orecchio al grido accorato che la madre Terra ci sta inviando. Un grido che anche il Santo Padre ci invita ad ascoltare poiché è tutto interconnesso e le crisi ambientali e climatiche, l’inquinamento e le biodiversità compromesse richiedono risposte ecologiche, sociali e politiche; ma anche l’impegno di ciascuno a cambiare le abitudini personali con l’assunzione di responsabilità sulle proprie scelte nel rispetto dell’ambiente. Non un concerto, quindi, bensì un itinerario guidato nel naturale ciclo delle stagioni, ciascuna delle quali foriera di un messaggio chiaro e preciso, che costringe il viaggiatore a fermarsi per contemplare quanto accade intorno mentre egli è impegnato nei ritmi frenetici e logoranti della vita quotidiana. Nella vastità dello spazio scenico areniano, che può offrire ricchezza di spunti e suggestioni visive, la realizzazione musicale non poteva certamente optare per la filologia applicata; ragione per la quale gli archi dell’orchestra areniana si presentavano con una formazione ampiamente rinforzata. Va detto subito, ad onor del vero, che l’amplificazione non ha inficiato il risultato, anzi, l’elemento sonoro si è incardinato alla perfezione su quanto si andava vedendo. I professori erano seminascosti da una sorta di sipario quasi trasparente sul quale erano proiettate immagini ed animazioni mentre il solo violino solista si spostava cambiando spesso ubicazione; questo ha finito ovviamente per generare brevi vuoti temporali che facevano partire gli applausi ad ogni movimento ma per le ragioni stesse sopra descritte tutto questo non ha affatto disturbato la liturgia della Natura. L’esecuzione, senza direttore, era guidata dalla spalla dell’orchestra che interagiva con il violino solista, il giovane ma già affermato e celebrato Giovanni Andrea Zanon; nulla da eccepire sul talento virtuosistico che ha trovato rapida ed efficace intesa con il Concertino e con il Tutti, grazie anche all’orchestra della Fondazione Arena in ottima forma con un suono bello e corposo, teso alla ricerca di un fraseggio legato lasciando le varietà tecniche all’estro del solista. Di particolare intensità emotiva sono risultati i concerti L’estate (in particolare il terzo movimento) e L’inverno con il famoso Larghetto che imita la pioggia grazie ad un suggestivo pizzicato degli archi. Zanon, da parte sua ha offerto un’esecuzione limpida e di particolare pregnanza, arrivando a coinvolgere il proprio corpo in una sorta di coreografia estemporanea che, talvolta, sembrava voler coinvolgere anche l’orchestra. Indugiando nell’agogica, Zanon ha anche arricchito taluni elementi interpretativi di particolare effetto come quello dei contadini ubriachi ne L’autunno ma anche gli scivoloni sul ghiaccio nella stagione invernale; come già evidenziato in altre occasioni precedenti, Zanon riesce a portare il suo strumento ad una sorta di personificazione antropomorfa della stessa musica. Ad estensione ideale delle Stagioni, il concerto in mi bemolle maggiore op. 8 n. 5 detto La tempesta di mare, sul quale le videoproiezioni hanno creato un bellissimo effetto di onde impetuose del mare in burrasca. La parte visiva era affidata alla regìa di Marco Balich, coadiuvato negli effetti da Stefania Opipari, Claudio Sbragion e Rino Stefano Tagliafierro. Generosa la concessione dei bis, ben quattro, con un intenso e commovente Salut d’amour di Elgar, il Carnevale di Venezia op. 10 di Paganini e due movimenti da Le stagioni. Vivissimo il consenso da parte di un pubblico numeroso, vicino al sold out, a testimoniare il successo di una proposta culturale ed artistica oltremodo positiva. Foto Ennevi per Fondazione Arena.
La seconda, in ordine cronologico, delle tre Cantate per la quattordicesima Domenica dopo la Trinità è la nr.78, “Jesu, der du meine Seele” eseguita la prima volta a Lipsia il 10 settembre 1724. La partitura si basa sull’omonimo Lied (1541) di Johann Rist (1607-1667) condensando le 10 strofe interne, dalla 2 alla 11, in 3 arie e 2 recitativi, in ciascuno dei quali vengono inseriti e riassunti i contenuti di 3 strofe. La chiave d’interpretazione dell’opera sta probabilmente nell’ultimo versetto della lettura domenicale (Vangelo di Luca cap.17, vers.11-19): «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!». Come il Lied a cui s’inspira, la composizione svolge la funzione di una preghiera che il predicatore recita a nome e per conto dei fedeli, indugiando nel meditare sul peccato, sulla redenzione e sull’amore di Cristo. Il risultato è quello di un’opera di toccante bellezza che Bach colora subito di malinconia, impostando il Coro iniziale come una “Ciaccona” che riversa il suo bagaglio cromatico discendente sugli otto versetti del Corale, intonato dai soprani con il rinforzo di un corno, oboe e di un flauto traverso. Il tema viene ripetuto 27 volte dando luogo a una catena di variazioni contrappuntistiche che preparano l’entrata del Corale vero e proprio in modo geniale e seguendo sentieri impervi. Condotta imitativa e a canone sono le caratteristiche del duetto (nr.2\ tra soprano e contralto con la palese intenzione di ritrarre il seguace che segue le orme del Maestro. Allo stesso tempo la parte del Continuo propone il tipico movimento “ostinato” e ben scandito mediante il quale Bach raffigura i concetti di movimento, o cammino, o passi. Il taglio formale è quello dell’aria con “da capo”, mentre le altre 2 arie, una per tenore con flauto traverso (nr.4) e l’altra per basso (nr.6), un “allegro” da concerto per oboe concertante, sono “bipartite”, ma anch’esse vanno a costituire un trittico di straordinaria bellezza. Di grande efficacia anche i 2 recitativi, entrambi recanti citazioni del testo del Corale. Il secondo recitativo (nr.5) in stile “accompagnato, porta anche significative mutazioni dinamiche.
Nr.1 – Coro
Signore, tu che la mia anima,
per mezzo della tua morte atroce,
hai liberato con forza
dall’oscuro antro del diavolo
e dal peso dell’angoscia
e l’hai resa consapevole
attraverso la tua parola di misericordia,
tu sia ora, o Dio, il mio rifugio!
Nr2 – Aria/Duetto (Soprano, Contralto)
Accorriamo a te con i nostri deboli ma decisi passi,
o Gesù, o Maestro, per ricevere il tuo aiuto.
Ti prendi cura con costanza di malati ed erranti.
Ah, ascolta come
le nostre voci si elevano per invocare soccorso!
La vista del tuo volto sia per noi fonte di gioia!
Nr.3 – Recitativo (Tenore)
Ah! sono figlio del peccato,
Ah! vado errando in lungo e largo.
La lebbra del peccato, che abita in me,
non mi abbandonerà in questa vita mortale.
La mia volontà aspira solo al male.
Eppure il mio spirito dice: ah, chi mi libererà?
Ma spingere la carne ed il sangue
a compiere il bene
è al di là delle mie forze. 1
Se io non nascondessi la mia debolezza
non potrei neanche contare tutti i miei errori.
Perciò porto il dolore ed la pena dei peccati
ed il peso delle mie colpe,
che altrimenti non potrei più sopportare,
e sospirando li affido a te, o Gesù.
Non tener conto dei miei atti malvagi
che hanno provocato la tua ira, Signore!
Nr.4 – Aria (Tenore)
Il sangue che cancella la mia colpa
rende il mio cuore leggero
e mi assolve.
Se le schiere infernali mi sfideranno in battaglia,
Gesù sarà al mio fianco
per riconfortarmi e portarmi alla vittoria.
Nr.5 – Recitativo (Basso)
Le piaghe, i chiodi, la corona e la tomba,
i colpi inflitti al Salvatore
sono ora i segni del suo trionfo
e possono infondermi nuova forza.
Quando un terribile giudice
pronuncerà la maledizione dei dannati,
tu la trasformerai in benedizione.
Nessun dolore o tormento possono toccarmi,
poiché il mio Salvatore li conosce;
e poiché il tuo cuore brucia d’amore per me,
io in cambio
ti offro il mio.
Questo mio cuore, nutrito dal dolore,
cosparso del prezioso sangue
che hai versato sulla croce,
lo dono a te, Signore Gesù Cristo.
Nr.6 – Aria (Basso)
Ora vieni a tranquillizzare la mia coscienza
che grida vendetta contro me stesso,
Sì, il tuo amore la riempirà,
poiché la tua Parola mi dà speranza.
Se i cristiani credono in te,
nessun nemico potrà
strapparli dalle tue mani.
Nr.7 – Corale
Signore, confido in te, aiutami nella mia debolezza,
non permettere che perda coraggio;
Tu, tu puoi rendermi più forte
quando il peccato e la morte mi assalgono.
Mi affido alla tua bontà,
finchè potrò con gioia contemplarti,
Signore Gesù, dopo il combattimento
nella dolcezza dell’eternità.
Traduzione Emanuele Antonacci
Domenica 1 settembre / Sabato 7 settembre
Ore 09.59 / 10.02
“IL TROVATORE”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Fernando Previtali
Regia Mario Lanfranchi
Interpreti:Ettore Bastianini, Leila Gencer, Fedora Barbieri, Mario Del Monaco, Plinio Clabassi…
RAI 1957
Ore 12.04/ 12.07
“CAVALLERIA RUSTICANA”
Musica Pietro Mascagni
Direttore Arturo Basile
Regia Mario Lanfranchi
Interpreti: Carla Gavazzi, Rosita Gilardi, Mario Ortica, Giuseppe Valdengo, Maria Amadini.
RAI 1956
Ore 18.17
“EDGAR”
Musica Giacomo Puccini
Direttore Massimo Zanetti
Regia Pier Luigi Pizzi
Interpreti: Vassilii Solodkyy, Lidia Fridman, Ketevan Kemoklidze…
Torre del Lago, 2024
Lunedì 2 settembre
Ore 10.00
“NINA, o sia LA PAZZA PER AMORE”
Musica Giovanni Paisiello
Direttore Riccardo Muti
Regia Ruggero Cappuccio
Interpreti: Anna Caterina Antonacci, Juan Diego Florez, Michele Pertusi, Donatella Lombardi, Carlo Lepore, Giuseppe Filianoti
Milano, 1999
Martedì 3 settembre
Ore 10.00
“FALSTAFF”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Riccardo Muti.
Regia Ruggero Cappuccio
Interpreti: Ambrogio Maestri, Roberto Frontali, Juan Diego Florez, Inva Mula, Barbara Frittoli, Bernadette Manca Di Nissa…
Mercoledì 4 settembre
“Ore 10.00
“SIMON BOCCANEGRA”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Myung-Whun Chung
Regia Andrea De Rosa
Interpreti: Simone Piazzola, Maria Agresta, Francesco Meli, Giacomo Prestia, Julian Kim…
Giovedì 5 settembre
Ore 10.00
“DON PASQUALE”
Musica Gaetano Donizetti
Direttore Riccardo Muti
Regia Andrea De Rosa
Interpreti: Claudio Desderi, Mario Cassi,Francisco Gatell, Laura Giordano Gabriele Spina
Venerdì 6 settembre
Ore 10.00
“TURANDOT”
Musica Giacomo Puccini
Direttore Donato Renzetti
Regia Giuliano Montaldo
Interpreti: Daniela Dessì, Massimo La Guardia, Ramaz Chikviladze, Mario Malagnini, Roberta Canzian…
Genova, 2012
Ore 21.15 replica Domenica 8 settembre
Ore 18.40
“ORFEO ED EURIDICE”
Musica Christoph Willibald Gluck
Direttore Antonello Manacorda
Regia Damiano Michieletto.
Interpreti: Raffaele Pe, Nadja Mchantaf, Susan Zarrabi, Josefine Mindus
Spoleto, 2024
Domenica 8 settembre
Ore 10.00
“TOSCA”
Musica Giacomo Puccini
Direttore Fulvio Vernizzi
Regia Mario Lanfranchi
Interpreti: Magda Olivero, Alvino Misciano, Giulio Fioravanti…
RAI, 1960
Lunedì 9 settembre
Ore 10.02
“CRISTOFORO COLOMBO”
Musica Gaetano Donizetti
Direttore Armando Gatto
Coreografie Alberto Mendez
Regia Beppe Menegatti.
Interpreti: Carla Fracci, Bryan Hewison, Maurizio Vanadia…
Milano, 1992
Martedì 10 settembre
Ore 10.00
“DON GIOVANNI ossia IL CONVITATO DI PIETRA”
Musica Giuseppe Gazzaniga
Direttore Herbert Handt
Regia Beppe Menegatti
Interpreti:Ugo Benelli, Cettina Cadelo, Eva Csapo, Patrizia Gentile, James Loomis..
Mercoledì 11 settembre
Ore 10.00
“FALSTAFF”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Giuseppe Patanè
Regia Giulio Chazalletes
Interpreti: Angelo Romero, Pietro Bottazzo, Bernard van der Meersch, Tullio Pane, Mario Bertolino, Clarice Carson, Carmen Lavani, Mariana Paunova, Diane Curry
Spoleto, 1978
Giovedì 12 settembre
Ore 09.58
“SOGNO DI UN VALZER”
Musica Oscar Straus
Direttore Hans Walter Kämpfel
Regia Giulio Chazalettes
Interpreti: Lino Savorani, Edith Martelli, Carlo Bini, Riccardo Peroni…
Trieste, 1977
Venerdì 13 settembre
Ore 11.30
“BALLO AL SAVOY”
Musica Paul Abraham
Direttore Tamas Breitner
Regia Gino Landi
Interpreti: Antonio Bevacqua, Fiorella Pediconi, Aniko Felfoldi…
Trieste, 1977
Tokyo, Villaggio Italia
AL PADIGLIONE ITALIA A EXPO 2025 OSAKA, L’ “ATLANTE FARNESE”
Sarà l’Atlante Farnese, l’imponente opera marmorea di Atlante che regge sulle spalle l’Universo, simbolo del viaggio, della scoperta, della ricerca e della scienza, a sancire l’unione tra Occidente e Oriente. L’opera sarà posizionata al centro del Padiglione Italia a Expo 2025 Osaka. Il progetto è una collaborazione tra Ministero della Cultura e Commissariato Generale per l’Italia a Expo 2025 Osaka. L’opera arriva in Giappone e in Asia per la prima volta, e sarà posizionata al centro della Piazza semicircolare del Padiglione Italia la cui architettura è ispirata alla Città Ideale del Rinascimento italiano, su progetto di Mario Cucinella MCA Architects. L’annuncio è stato dato dal Commissario Generale per l’Italia a Expo 2025 Osaka, Ambasciatore Mario Vattani, durante la conferenza stampa che si è tenuta al Villaggio Italia, il progetto itinerante di promozione delle eccellenze del patrimonio culturale, artistico, storico ed economico italiano realizzato in occasione dell’arrivo a Tokyo per la prima volta nella storia della Nave Scuola Amerigo Vespucci. Una cornice unica per un annuncio straordinario, fatto alla presenza di autorità italiane e giapponesi e rappresentanti istituzionali dell’Expo, personalità del mondo della cultura e dell’economia giapponese, italiano e internazionale, davanti a una platea di giornalisti locali e internazionali. “Mettere al centro del Padiglione Italia un capolavoro nonché icona di valore inestimabile come l’Atlante Farnese, nei giorni dell’Esposizione Universale di Osaka nel 2025, significa far conoscere a tutti un’opera che rappresenta l’eredità culturale della nostra Nazione- ha commentato il Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano :“La preziosa scultura, insieme ad altre opere della collezione, ha contribuito a fare del MANN uno dei musei archeologici più importanti al mondo, determinando un forte impulso alla diffusione della nostra cultura e al riconoscimento dell’Italia come custode di un patrimonio unico a livello globale”. “Per la prima volta l’Atlante Farnese arriva in Giappone: si tratta di un’operazione logistica senza precedenti, resa possibile grazie alla fiducia del Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, a cui va tutta la nostra gratitudine- ha dichiarato il Commissario Generale per l’Italia a Expo 2025 Osaka, Mario Vattani – Ringraziamo la Direzione Generale Musei e il Museo Archeologico di Napoli, e siamo certi del valore di questa scelta, perché l’Atlante Farnese, con la sua fortissima carica simbolica, racconta anche i valori che portiamo a Expo: la ricchezza del nostro patrimonio culturale e le responsabilità che ne derivano, e anche la scienza, la ricerca, la nostra alta tecnologia, lo spirito del viaggio e della scoperta di altre culture”. “È con orgoglio che la Direzione generale Musei e il Museo archeologico nazionale di Napoli hanno accolto l’invito del Commissariato Generale per l’Italia a Expo 2025 Osaka, a sostenere la presenza dell’Italia, durante la prossima Esposizione Universale, con il prestito di uno dei capolavori più rappresentativi del Museo– ha spiegato il Direttore generale Musei, Massimo Osanna- La scelta dell’Atlante Farnese, opera unica e iconica, non è stata affatto casuale. La scultura, potente non soltanto dal punto di vista storico-artistico ma anche per i molteplici significati ad essa sottesi, vola per la prima volta Oltreoceano per incarnare lo spirito di questo importante evento internazionale: il superamento delle frontiere della conoscenza attraverso la curiositas, il desiderio di scoperta e l’attrazione per l’ignoto, connaturati nell’animo umano e che da sempre hanno contribuito a creare ponti e stabilire relazioni tra mondi e popoli diversi, tra Occidente e Oriente”. Databile al II secolo d.C. (epoca Antonina intorno al 150 d.C.), l’Atlante Farnese è un’opera unica di cui non esistono copie. Rappresenta la poderosa figura maschile di Atlante, con un lungo manto che gli copre la schiena, le ginocchia piegate e il corpo ricurvo, mentre regge sulle spalle il globo celeste tenendolo tra le mani. La sfera, finemente scolpita, simboleggia l’Universo, con le costellazioni, i segni zodiacali, le quattro direzioni, il Cielo e la Terra secondo le teorie conosciute al tempo. L’ Atlante Farnese ha segnato gli studi in campo astronomico-scientifico, divulgando il sapere e le teorie di Tolomeo tanto da diventare modello per i disegni dei primi globi celesti olandesi nel Cinquecento e punto di riferimento per gli scienziati delle epoche successive. Sul globo celeste, in rilievo di 6 mm sono segnati i cerchi meridiani che passano per i poli e per i punti dei solstizi e degli equinozi, l’equatore, l’eclittica, un circolo artico ed uno antartico, e inoltre, in forma antropomorfa o di animale, le costellazioni australi e boreali e i dodici segni dello Zodiaco. Tesoro apprezzato sin dal Cinquecento, fu acquisita da Alessandro Farnese nel 1562 da Paolo del Bufalo, divenendo così parte della collezione Farnese a Roma. L’opera fu restaurata tra il 1550 e il 1560 quando fu collocata a Palazzo Farnese in quella che divenne la stanza dell’Atlante, dove rimase fino al 1786 quando giunse a Napoli sotto i Borbone. Da allora è esposta al Museo Archeologico Nazionale. Atlante, personificazione del rapporto con l’Universo, ma anche del viaggio come legame ideale tra Oriente e Occidente, sarà il metaforico accompagnatore che il visitatore incontrerà nel percorso espositivo alla scoperta delle eccellenze italiane in mostra al Padiglione Italia: le più sofisticate tecnologie italiane applicate allo Spazio, al Mare e agli Abissi, al benessere dell’individuo e della società. Una narrazione del futuro che l’Italia, attraverso il suo Padiglione, sviluppa rifacendosi al pensiero filosofico e umanistico che si radica nella cultura greco-romana con uno sguardo rivolto all’interculturalità che il Mediterraneo ha da sempre rappresentato.
Roma, Palazzo Merulana
ANNA MARIA FABRIANI. RIVERBERI E TRAME DALLA SCUOLA ROMANA.
La prima esposizione dell’artista, oggi centenaria, allieva di Carlo Socrate e testimone della tradizione pittorica del Novecento
Dal 5 settembre al 6 ottobre 2024 Palazzo Merulana, museo gestito e valorizzato da CoopCulture, sede della Fondazione Elena e Claudio Cerasi, ospita la mostra “Anna Maria Fabriani. Riverberi e trame dalla Scuola Romana”, la prima retrospettiva in assoluto dedicata alla centenaria pittrice che oggi vive a Lucca e che fu allieva di Carlo Socrate. Il progetto espositivo rappresenta “un viaggio intimo nel reale” da parte dell’artista, influenzata dagli anni trascorsi nella capitale nell’atelier di Villa Strohl-Fern, che ospitava moltissimi esponenti della Scuola Romana. Quaranta nature morte, fiori e ritratti sorprendenti come Cecilia, simbolo della mostra, ricchi di valenze, di trame e legami con il suo maestro dal quale Fabriani ha appreso tecniche pittoriche, il metodo di ricerca del colore, e rigore nella composizione sviluppando un’attenzione spasmodica alla luce, che diverrà nel corso del tempo una cifra stilistica dell’artista. Con questa mostra Palazzo Merulana, già custode di numerosi capolavori della Scuola Romana appartenenti alla Collezione Elena e Claudio Cerasi, continua la sua attenta opera di indagine, di valorizzazione e, talvolta, come nel caso di Fabriani, di scoperta di uno dei momenti più interessanti e vitali dell’arte italiana del ‘900. La pittrice inizia il suo percorso verso la fine degli anni ’40, presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, dove stringe il legame artistico con Carlo Socrate che prosegue poi nell’atelier di Villa Strohl-Fern. La sua produzione si divide in due fasi con una pausa lunghissima una dall’altra: la prima termina negli anni ’70; la seconda si riapre nel 1997 quando l’artista, alla morte del marito, lo scrittore e drammaturgo Silvano Ambrogi, riprende dalla cantina il ritratto che gli aveva fatto trenta anni prima e che aveva lasciato incompiuto. Lo completa. Da allora ricomincia a dipingere fino a che fisicamente non riesce a rimanere lunghe ore in piedi davanti al cavalletto. Durante questo periodo, la pittura di Fabriani evolve, integrando nuove visioni contemporanee, talvolta quasi inquadrature cinematografiche, in una ricerca continua della luce, della messa in scena dei soggetti nello spazio, pur mantenendo un legame esclusivo con la tradizione pittorica della Scuola Romana alla quale si è sempre sentita legata. L’esposizione inizia dal ritratto di Maria Magris (1945 circa) e arriva fino al 2018 con Limoni arance e Amaro del Capo. Raccoglie prestiti provenienti da collezioni private e appartenenti alla famiglia che documentano la ricerca artistica ed espressiva dell’artista durata decenni. Il progetto si inserisce, pienamente nel dibattito attuale sulle pittrici e la loro scarsa visibilità. L’effetto di difficoltà oggettive dell’accesso delle donne alla complessa filiera del mercato dell’arte è la cancellazione dai percorsi espositivi tradizionali, e perciò anche dalla lettura della critica. Una censura di uno sguardo femminile (che spesso diventa autocensura) laddove sono presenti tecnica, visione, e un universo, invece, ricchissimo. In questo contesto di mercato e della possibilità di uno spazio materiale per dipingere, molte pittrici, come è anche il caso di Fabriani, hanno operato quasi esclusivamente nello spazio domestico, raffigurando soggetti di uso e fruizione quotidiana, traducendo questi in elementi di studio, speculazione filosofica e libertà. L’intera esposizione è frutto di un lavoro di ricerca, recupero e catalogazione, iniziato diversi anni fa, da parte della curatrice Sabina Ambrogi che ha sempre cercato di inseguire dipinti che – per lo strano destino peculiare dei quadri – si disperdevano per incuria, negligenza, o per distrazione. Magari perché regalati o venduti. Alcuni sono stati ritrovati in cantine (Savoiardi e Grigio su Grigio). Uno in particolare il ritratto a Maria Magris (1945- olio su cartone) è stato di recente ritrovato dalla curatrice nella cantina del palazzo dove l’artista è cresciuta e vissuta in gioventù. La restauratrice Cristiana Noci ha letteralmente riportato alla luce l’opera distrutta dalla muffa, macchiata di vernice, e piegata da oggetti accatastati sopra nel tempo. Ha restaurato, tra gli altri, anche Rosetta (1953), sicuramente il pezzo più forte e pregiato della collezione, danneggiato insieme a Grigio su grigio (1958) durante un trasloco. Ma è stata l’occasione per riportare mirabilmente la palette di grigi di quest’ultima opera alla sua origine e lucentezza. Circa una decina di dipinti eseguiti con il maestro Socrate, nell’atelier di Villa Strohl-Fern, sono ancora oggetto di ricerca. Sono andati perduti in Venezuela al porto di Caracas -La Guayra- dopo una spedizione in nave in una cassa, nel 1959. Il fratello dell’artista, Maurizio Fabriani, destinatario della spedizione, dirigeva cantieri per le costruzioni delle autostrade nel cuore del paese in zone molto impervie, a più di venti ore di macchina dalla capitale venezuelana. Non ha fatto in tempo a tornare per recuperarli. O si è forse persa la possibilità di un’organizzazione per farlo. La mostra è un’occasione per lanciare “un messaggio nella bottiglia” e chiedere a chi li avesse – compreso il circuito museale nazionale venezuelano – di farsi avanti per poterli catalogare ed esporre.
Roma, Teatro dell’Opera, RomaEuropaFestival
MYCELIUM/BIPED
Prima nazionale
Opening REF2024
In corealizzazione con Teatro dell’Opera di Roma
Con il sostegno al REF di Dance Reflections by Van Cleef & Arpels
La trentanovesima edizione del Romaeuropa Festival inaugura il suo percorso con un doppio appuntamento, ponte tra la tradizione contemporanea e le nuove frontiere della ricerca coreografica: per la prima volta al Teatro Costanzi (grazie alla corealizzazione con Teatro dell’Opera di Roma), il Ballet de l’Opéra de Lyon omaggia Merce Cunningham riallestendo “Biped”, tra le più celebri coreografie del padre della modern dance ed esperimento pionieristico del dialogo tra danza e tecnologia. Sfruttando un sistema di motion capture e un software appositamente creato (DanceForms), Cunningham ha infatti trasposto in digitale settanta frasi coreografiche che all’interno della pièce concorrono a costruire una fusione di danza, luce e immagini in movimento. Assoli, duetti, trii e danze d’insieme dialogano con l’omonima composizione musicale di Gavin Bryars, in scena insieme al suo ensemble. Nella seconda parte della serata, in un ideale passaggio di testimone, l’approccio minimalista al suono e al movimento, s’incarna nella pièce commissionata dal Ballet de l’Opéra de Lyon alla nuova stella della danza internazionale Christos Papadopoulos. “Mycelium” invita il corpo di ballo nelle sue atmosfere percettive, mimesi della natura e dei suoi meccanismi. Venti danzatori danno vita a un’entità multiforme, una proliferazione di corpi ispirata al mondo dei funghi che, con piccoli movimenti, micro-variazioni e aggiustamenti istantanei, risponde al flusso di offbeat e loop elettronici composto da Coti K. Qui per tutte le informazioni.
Roma, Teatro 7 Off
TEATRO INCONTRA: TERZA EDIZIONE
direttore artistico Pino Strabioli
Il 2 settembre 2024 avrà inizio la terza edizione del progetto “Teatroincontra…” che si pone l’obiettivo di portare lo spettacolo dal vivo fuori dal centro, come spiega il direttore artistico Pino Strabioli: “Con la nostra programmazione intendiamo abbracciare la più ampia porzione di pubblico possibile, dai bambini a chi ama il teatro di prosa, da chi vuole assistere ad uno spettacolo comico a chi è interessato ai temi sociali, da chi crede nella forza e nell’importanza della memoria a chi ama la multiculturalità.” Gli spettacoli della rassegna si terranno interamente presso il Teatro 7 Off (via Monte Senario, 81 A) a partire dal 2 settembre, alle ore 21. In scena Francesca Reggiani che porterà il suo “Agitarsi prima dell’uso”, scritto insieme a Enrica Accascina, Nicola Capogna, Valter Lupo, Gianluca Giugliarelli. Alle ore 21:00 del giorno successivo, 3 settembre, verrà rappresentato un testo di Adriano Bennicelli, “Hotel due mondi”, interpretato da Alessio Chiodini e Francesco Stella. Dopo la partecipazione al Fringe Festival, il 4 settembre torna il testo di Garcìa Barba, “Vacanze di guerra (tutto compreso)”, interpretato da Valentina Martino Ghiglia per la regìa di Ferdinando Ceriani. Il 5 settembre alle ore 21:00 Pino Strabioli ci parlerà di teatro e libri, di letteratura, cinema e palcoscenico con il casting director Pino Pellegrino e l’attore Alessio Vassallo. Il 6 settembre il palco del Teatro 7 Off si animerà grazie ad un esilarante “delirio a due” dal titolo “Matrimonio e altre catastrofi” interpretato da Alessandra Mortelliti e Luca Ferrini. Attraverso la voce di Ariele Vincenti in “Marocchinate” il 7 settembre, verranno raccontati i gravi fatti della Ciociaria del ’44 e di come gli abitanti di quei luoghi vissero le 50 ore successive all’arrivo delle truppe Marocchine, aggregate agli Alleati. Doppio appuntamento l’8 settembre 2024: alle ore 11:00 uno spettacolo dedicato ai più piccoli dal titolo “il cielo non ha muri” scritto e diretto da Carlotta Piraino ed interpretato da Carlotta Piraino, Diego Venditti, Agostina Magnosi, Gabriele Di Stadio. Alle ore 18.00 sarà la volta di Urbano Barberini che porterà in scena temi drammatici, come il bullismo, raccontati attraverso un’ironia schietta e travolgente nello spettacolo “Sulle Spine”, scritto e diretto da Daniele Falleri. “LEI” è il titolo della rappresentazione diretta da Riccardo D’Alessandro, che andrà in scena il 9 settembre alle ore 21:00 e che racconterà l’amore visto da tre prospettive diverse, quelle di Claudio, Renato e Lorenzo interpretati da Riccardo Alemanni, Andrea Lintozzi e Gabriele Fiore. Il 10 settembre alle ore 21:00 la grande interprete Milena Vukotic, per la regia di Maurizio Nichetti, porterà in scena “Milena ovvero Emilie du Châtelet”, un monologo dedicato ad una donna la cui importanza nella storia della scienza non è minore di quella che Voltaire ha avuto nella storia della letteratura. A chiudere questo ciclo di appuntamenti teatrali, l’11 settembre alle ore 21:00, Pino Strabioli. Accompagnato dalla fisarmonica di Marcello Fiorini, porterà in scena uno dei suoi spettacoli più apprezzati dal titolo “Sempre fiori mai un fioraio” dedicato al celebre Paolo Poli. QUI PER TUTTE LE INFORMAZIONI.
La seconda delle tre cantate bachiane destinate alla tredicesima domenica dopo la Trinità è Allein zu dir, Herr Jesu Christ BWV 33 eseguita la prima volta a Lipsia il 3 settembre 1724. La partitura è costruita sull’omonimo Corale (1546) di Konrad Hubert (1507-1577) che consta di 4 strofe. La prima e l’ultima sono nel Coro iniziale e nel Canto “comunis” finale. Le altre strofe sono parafrasate nei 2 recitativi e rispettive arie. L’ampiezza del brano introduttivo (Nr.1 Coro) non è data dal fatto che la strofa consta di 9 versi, ma dal fatto che Bach fa ricorso ad una organizzata e proporzionata di interludi strumentali. Di grande pregio e importanza le 2 arie. La nr.4, tripartita, affidata al contralto, presenta una particolare ambientazione timbrica, con una parte melodica intensa e patetica affidata al violino solista con “sordino”, mentre gli altri archi agiscono in un pizzicato. Nel regolare e cadenzato flusso di questo sottile accompagnamento non è difficile cogliere la raffigurazione del testo che parla dell’esitazione e il timore che il fedele nel suo cammino di fede e invoca Cristo perché interceda verso il Padre celeste. L’altra aria, bipartita (nr.5) è in realtà un duetto tra il tenore e il basso che trova la sua giustificazione nella lettura evangelica del giorno, incentrata sul Comandamento dell’amore verso il Prossimo come se stessi. Il discorso musicale accosta 2 voci maschili e quindi “prossime” e le adatta congiuntamente a “canone”, perfezionando il parallelismo con il gioco concertante di 2 oboi che agiscono al medesimo modo delle voci.
Nr.1 – Coro
Solo in te, Signore Gesù Cristo,
riposa la mia speranza su questa terra;
so che sei il mio Consolatore,
non c’è altro conforto per me.
Fin dall’inizio non c’è stato niente,
nessun essere umano sulla terra
che potesse preservarmi dal pericolo.
Mi rivolgo a te,
in cui ho risposto la mia fiducia.
Nr.2 – Recitativo (Basso)
Mio Dio e giudice, se mi interroghi
sulla Legge,
non saprei risponderti senza entrare
in contraddizione nella mia coscienza
neanche una volta su mille.
Sono povero in spirito e vuoto d’amore,
immensi e pesanti sono i miei peccati;
ma se il mio cuore fosse pentito,
tu, mio Dio e mio rifugio,
con una sola parola di perdono
lo riempiresti ancora di gioia.
Nr.3 – Aria (Contralto)
Timorosi i miei passi vacillano,
ma Gesù ascolta la mie suppliche
e intercede per me presso il Padre.
Il fardello dei peccati mi opprime,
ma la parola consolatrice di Gesù mi rassicura
di aver fatto il necessario per me.
Nr.4 – Recitativo (Tenore)
Mio Dio, non respingermi
dalla tua presenza, anche se quotidianamente
infrango i tuoi comandamenti!
Rispettare anche il più piccolo di essi
è troppo difficile per me; ma se non prego
che per l’aiuto di Gesù,
nessun rimorso di coscienza potrà
privarmi della mia speranza;
concedimi solo per la tua misericordia
la vera fede cristiana!
Essa porterà i suoi buoni frutti
e sarà operante attraverso l’amore.
Nr.5 – Aria/Duetto (Tenore, Basso)
Dio, tu che sei chiamato Amore,
ah, infiamma il mio spirito,
a te prima che ad ogni altra cosa
possa spingermi il mio amore!
Fà che per puro istinto possa
amare il mio prossimo come me stesso;
e se i nemici disturbano la mia pace,
mandami il tuo aiuto!
Nr.6 – Corale
Gloria a Dio sul trono supremo,
al Padre di ogni cosa buona,
a Gesù Cristo, suo unico figlio
che veglia sempre su di noi,
e allo Spirito Santo
che ci assiste col suo aiuto,
così possiamo onorarlo
qui su questa terra
e per tutta l’eternità.
Traduzione Emanuele Antonacci
Pesaro, Rossini Opera Festival, XLV Edizione
“IL VIAGGIO A REIMS”
Dramma giocoso in un atto di Luigi Balocchi
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi, a cura di Janet Johnson
Corinna VASILISA BERZHANSKAYA
Marchesa Melibea MARIA BARAKOVA
Contessa di Folleville JESSICA PRATT
Madama Cortese KARINE DESHAYES
Cavalier Belfiore JACK SWANSON
Conte di Libenskof DMITRY KORCHAK
Lord Sidney MICHAEL MOFIDIAN
Don Profondo ERWIN SCHROTT
Barone di Trombonok NICOLA ALAIMO
Don Alvaro VITO PRIANTE
Don Prudenzio ALEJANDRO BALIÑAS
Don Luigino TIANXUEFEI SUN
Delia PAOLA LEGUIZAMÓN
Maddalena MARTINIANA ANTONIE
Modestina VITTORIANA DE AMICIS
Zefirino / Gelsomino JORGE JUAN MORATA
Antonio NICOLÒ DONINI
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Direttore Diego Matheuz
Maestro del Coro Giovanni Farina
Esecuzione in forma di concerto a 40 anni dal primo Viaggio a Reims diretto da Claudio Abbado
Pesaro, 23 agosto 2024
Nella parte finale dei ballabili del riscoperto Viaggio a Reims si eclissava il teatrino aereo che le conteneva, e le marionette dei Colla restavano a volteggiare nel vuoto della sala, dando forma plastica a una musica sconosciuta e incantevole, come un grande abbraccio per il pubblico estasiato: era forse il momento più suggestivo dello spettacolo con cui Luca Ronconi, insieme a Claudio Abbado, aveva ridato vita alla fantomatica partitura perduta. Il ROF 2024 si conclude con un omaggio a quell’irripetibile esperienza, con un’esecuzione in forma di concerto (forse anche perché qualunque nuovo allestimento scenico del Viaggio sarebbe impari all’ambizione di ricordare degnamente l’impresa che consacrò definitivamente la missione del ROF). Il risultato è più che positivo: dopo aver assistito a quattro spettacoli di impianto e stile completamente diversi, il pubblico di Pesaro può infatti concentrarsi sulla musica di Rossini nella sua dimensione più pura. Ma questo vale anche per gli artisti, e si sente: a cominciare dall’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI guidata da Diego Matheuz, per esempio, che fornisce la sua migliore prestazione in questa edizione, dopo Bianca e Falliero ed Ermione. Pur con una compagine sinfonica, il direttore riesce a mantenere una certa leggerezza nei volumi sonori, animati da un brio e da una vivacità di grande effetto teatrale (addirittura indiavolato nel concertato «Partiamo – Ah! Sì, il desio» della scena 20). Fra le prestazioni vocali più riuscite occorre ricordare quella del mezzosoprano Vasilisa Berzhanskaya (che debuttò al ROF appunto nel Viaggio a Reims dell’Accademia del 2016, come Marchesa Melibea) nella parte di Corinna: l’aria dell’arpa, cantata ovviamente sulla scena, fa risaltare tutta la bellezza della voce calda, la solidità del registro basso e centrale, la tecnica dei pianissimo e delle filature magistrali, determinando una risposta al calor bianco da parte del pubblico. Anche Jessica Pratt, dal piglio sempre ardimentoso, è un’apprezzatissima Contessa di Folleville, molto festeggiata dal pubblico. I tenori Dmitry Korchak (Conte di Libenskof) e Jack Swanson (Cavalier Belfiore), confermano le qualità già dimostrate in altri ruoli sostenuti quest’anno a Pesaro (il primo come Contareno in Bianca e Falliero, il secondo come Almaviva nel Barbiere): Korchak, nettamente superiore per tecnica, è un po’ in affanno per i tempi rapidi del direttore nel suo intervento di sortita, ma poi supera brillantemente ogni ostacolo; Swanson si fa apprezzare quale novello tenore di grazia. Il basso-baritono Erwin Schrott è un Don Profondo sicuro di sé, dalla voce un po’ chiara ma omogenea e ben proiettata: «Medaglie incomparabili» garantisce l’effetto desiderato di prezioso divertissement catalogico (anche se l’interprete concede qualcosa di troppo all’emissione parlata e ai tic linguistici archetipici “ruggero-raimondiani”). Godibilissimi, come sempre, gli interventi dei baritoni Nicola Alaimo (Barone di Trombonok) e Vito Priante (Don Alvaro). Insoddisfacente, invece, la prova del basso-baritono Michael Mofidian, nella parte di Lord Sidney (già ascoltato quest’anno come Fenicio nell’Ermione): perché, se quasi tutte le note superiori alla zona di passaggio difettano vistosamente di intonazione nell’aria «Invan strappar dal core», il pubblico gli tributa un notevole applauso? La scarsa musicalità si può anche camuffare, ma le note fisse e le stonazioni sono mancanze oggettive, che occorre rilevare (al pari del flauto di Giampaolo Pretto, che magnificamente introduce e accompagna la scena). Si disimpegnano bene tutti gli altri solisti e benissimo il Coro del Teatro Ventidio Basso preparato da Giovanni Farina. Mai come quest’anno il concerto conclusivo del festival sembra essere un’occasione di ponderazione del fatto e previsione sul da farsi. Se l’edizione 2025 è già predisposta, con un bel trinomio importante e composito (Zelmira, Il turco in Italia, L’italiana in Algeri), nello scritto che suggella quella attuale, ossia le pagine di Sergio Ragni nel programma di sala del Viaggio a Reims, si percepisce una certa nostalgia per i decenni delle grandi (ri)scoperte, unita però anche a un rimpianto amaro (alquanto sorprendente) sulle conseguenze attuali di tanti anni di lavoro storico-filologico e teatrale. «Nel panorama operistico internazionale Rossini è isolato, e oggi, nel 2024, si esegue poco», scrive Ragni, per poi concludere con una considerazione generale sulle regie teatrali: «Oggi si procede per affastellamento, sovraccaricando invece di alleggerire. E l’opera è diventata un campo libero nel quale il regista si sente autorizzato a sovrapporre, anche nel più melodrammatico melodramma, agli “orpelli sacrati alla scena” l’autocompiacimento esasperato e morboso delle proprie elucubrazioni mentali». C’è da sperare che, al di là del legittimo sfogo di un laudator temporis acti, questa presa di posizione preluda a proposte e progetti nuovi da parte del ROF, davvero al servizio della cultura musicale. Foto © Amati Bacciardi
Opéra-comique in due atti su testo di François Guillome Desfontaines. Nicole Cabell (Léontine), Geoffrey Agpalo (Valcour), David Govertsen (Ophémon), Erica Schuller (Jeannette), Michael St. Peter (Colin), Nathalie Colas (Dorothée). Haymarket Opera Orchestra, Craig Trompeter (direttore). Registrazione: Sasha and Eugene Jarvis Opera Hall at DePaul University (Chicago), 20-22 giugno 2022. 3 CD Cedille Record
Joseph Boulogne Chevalier de Saint-George è una figura da romanzo capace di essere al contempo quasi un unicum nella storia europea del tempo e il paradigma di tante esistenze di giovani nobili trovatesi a vivere l’esperienza della rivoluzione. Nato probabilmente nel 1739 in Guadalupa da un nobile francese e da una schiava africana, molto verosimilmente senegalese, venne di fatto adottato dal padrino George Boulogne de Saint-Georges. La sua origine non rappresentò un ostacolo per la formazione del giovane nobile che ebbe accesso alla miglior istruzione possibile per un rampollo dell’aristocrazia francese. Perfetto gentiluomo di corte vicino a posizioni progressiste e illuministe – fu membro della loggia massonica “Les Neuf Sœurs” – e impareggiabile spadaccino fu però soprattutto un musicista di assoluto talento. Allievo di Gossec e amico di Mozart riuscì a raggiungere nel 1771 il grado di maestro del Concert des Amateurs e più tardi direttore dell’Opéra potendo contare sull’appoggio di Maria Antonietta.
Virtuoso del fioretto e del violino il “Mozart nero” come veniva chiamato si trovò a un certo punto a vivere il dramma della rivoluzione. D’idee illuminate fu tra quei nobili che appoggiò la causa rivoluzionaria. Vicino a La Fayette entro nella Guarde nationale già nel 1790 svolgendo incarichi importanti sul delicato fronte renano. Passato indenne – pur attraverso non poche peripezie – attraverso la stagione del Terrore cercò di riacquisire un maggior ruolo sotto il Direttorio ma mal visto da Barras e da Bonaparte fu progressivamente marginalizzato Si spense nel 1799 forse per un’infezione trascurata.
Oltre la vita da romanzo quello che resta di Saint-George è una parte – purtroppo assai limitata – della produzione musicale che ancora deve in buona parte essere riproposta. Violinista di sommo talento e maestro della scrittura orchestrale Saint-George si cimentò anche nel teatro ma purtroppo solo un’opéra comique “L’amant anonyme” del 1780 è sopravvissuta e finalmente arriva alla sua prima registrazione discografica.
Prima di porsi all’ascolto della musica di Saint-George bisogna per prima cosa mettere da parte qualunque curiosità esotica relativa alle sue origine. Saint-George era un afro-europeo ma a differenze di altre figure di analoga origine non appare come portatore di un doppio retaggio culturale. La sua formazione, la sua visione del mondo e la sua arte sono quelle di un aristocratico francese del tempo e per quanto si cerchi neppure la minima eco troveremmo di componenti esotiche. Quella che si ascolta è una musica brillante e splendidamente scritta in cui traspare tutto lo spirito vitale della corte di Luigi XVI. Un linguaggio musicale ibrido in cui su una base autenticamente francese – si noti l’importanza anche a livello narrativo delle lunghe sezioni danzate – si aggiungono forti suggestioni italiane e viennesi.
La registrazione per l’etichetta Cedille Record – distribuita in Europa da Naxos -documenta la ripresa dell’opera da parte di una compagnia privata di Chicago, la Haymarket Opera Company sicuramente meritevole sia per la ripresa sia per l’impegno posto nella realizzazione ma che ovviamente resta a un livello più modesto rispetto a quanto avrebbe potuto fare un grande teatro ufficiale. Sul piano editoriale insolita la scelta di aggiungere un terzo CD in cui vengono riproposti i brani musicali dell’opera con il taglio di tutti i recitativi parlati.
L’orchestra della compagnia è diretta con slancio e ottimo senso dello stile da Craig Trompeter. Si tratta di un’esecuzione con strumenti moderni ma che mostra una buona attenzione alla prassi esecutiva dell’epoca e, al netto di qualche pesantezza, appare nel complesso briosa e vitale. La registrazione è buona specie considerando che si tratta di una ripresa dal vivo. Manca quella punta di autenticità cui ci hanno abituato tante compagini filologiche ma l’ascolto risulta godibile.
Riflessioni simili si possono fare per la compagnia di canto in cui si apprezzano un impegno e una convinzione ammirevoli ma in cui mancano non solo talenti più cristallini ma anche quella naturalezza stilistica cui ci hanno abituato gli autentici specialisti.
Nicole Cabell affronta la protagonista Léontine con grande slancio. La voce è solida e robusta. Dal colore brunito e con buona omogeneità in tutta la gamma. Regge bene una scrittura che in più punti guarda ai modelli dell’opera seria italiano. Le colorature sono eseguite con correttezza. Come tutti gli interpreti mostra un notevole lavoro sulla dizione francese che risulta corretta ed efficacie pur non nascondendo una certa artificiosità. L’amato Valcour è Geoffrey Agpalo. Tenore dal timbro scuro e brunito, fin troppo per una parte come questa, canta con grande convinzione ma è innegabile che manchino un po’ di eleganza e leggerezza. Il timbro all’inizio suscita qualche perplessità ma ci si abitua con il prosieguo dell’ascolto.
David Govertsen dispone di una notevole voce di basso baritono con cui da giusto rilievo al precettore Ophémon. Purtroppo l’emissione non è sempre corretta e sacrifica un materiale decisamente interessante.
La coppia buffa Jeannette e Colin è affidata a Erica Schuller e Michael St. Peter che con le loro voci più leggere e squillanti creano il giusto contrasto con i protagonisti seri. Completa il cast la Dorothée corretta e un po’ anonima di Nathalie Colas.
L’edizione della Haymarket Opera Company è sicuramente uno stuzzicante aperitivo e non resta che attendere che altre istituzioni portino la loro attenzione sulla musica di Sant-George e su quest’opera la cui qualità musicale compensa ampiamente l’inconsistenza del libretto tratto da una commedia di Madame de Genlis e che soffre dell’assenza di un’autentica tensione drammatica che prescinda dagli avvitamenti psicologici dei protagonisti.
CASA MUSEO MARIO PRAZ
La Casa Museo di Mario Praz a Roma è una gemma nascosta che racchiude il cuore e l’anima di un uomo che ha dedicato la sua vita all’arte, alla letteratura e all’estetica. Situata nel suggestivo Palazzo Primoli, l’ultima residenza del critico e storico dell’arte Mario Praz, la casa rappresenta un affascinante viaggio tra passato e presente, reale e fantastico, offrendo ai visitatori l’opportunità di immergersi in un mondo che riflette pienamente la personalità del suo abitante. Mario Praz, nato a Roma nel 1896, è stato una delle figure più influenti della critica letteraria e della storia dell’arte del XX secolo. La sua opera più celebre, La casa della vita, è ben più di un semplice resoconto delle stanze della sua dimora e degli oggetti che le adornano. In questo testo, Praz intreccia la sua biografia personale con la storia degli arredi e delle collezioni che ha accumulato nel corso della sua vita, rivelando il profondo legame che lo univa a ogni singolo pezzo della sua collezione. Praz non era un semplice collezionista; per lui, ogni oggetto aveva un significato intrinseco, carico di emozioni e memorie. Era noto per il suo amore per il viaggio e per l’antiquariato, con una particolare predilezione per lo stile Impero. La sua descrizione nel Who’s Who era estremamente concisa, ma rivelatrice: “Travelling. Empire furniture“. Questa frase riassumeva perfettamente le sue passioni e la sua vita, dedicata alla scoperta e all’acquisizione di pezzi d’antiquariato che non solo arricchivano la sua collezione, ma riflettevano anche il suo mondo interiore e la cultura europea di cui era profondamente parte. Oltre a La casa della vita, Praz ha scritto numerose altre opere che hanno avuto un impatto significativo sulla critica moderna. Tra queste, spiccano La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (1930), un testo pionieristico che esplora temi come l’erotismo, la morte e il demonico nel Romanticismo europeo, e Mnemosyne: The Parallel Between Literature and the Visual Arts (1971), in cui Praz esamina le intersezioni tra letteratura e arti visive, offrendo nuove prospettive attraverso una lente intermediale. Queste opere non solo hanno contribuito a consolidare la sua fama a livello internazionale, ma hanno anche influenzato profondamente il pensiero critico del Novecento. A differenza di molti collezionisti che tendono a mantenere un certo distacco emotivo dagli oggetti che raccolgono, Praz viveva in simbiosi con i suoi pezzi, trovando in essi un riflesso di sé stesso e della cultura che amava. Per lui, gli oggetti non erano semplici testimoni di un passato remoto, ma entità vive che abitavano il presente, ognuna con una propria anima e una propria storia da raccontare. La collezione di Praz includeva mobili in stile Impero, un tempo disprezzati, ma che grazie alla sua passione sono stati rivalutati e riconosciuti come opere d’arte. Questi mobili, insieme a cere, ventagli, quadri d’interni e conversation pieces, creano un’atmosfera unica e suggestiva all’interno della casa. Praz credeva che questi oggetti, spesso trascurati dalle storie ufficiali dell’arte, fossero capaci di raccontare la sua storia e di offrire una visione del mondo che andava oltre la semplice estetica. Un aspetto particolarmente affascinante della personalità di Praz era il suo rapporto quasi mistico con gli specchi e con gli oggetti che richiamavano il concetto di memento mori. Gli specchi, per Praz, non erano solo strumenti di riflessione fisica, ma vere e proprie porte verso altre dimensioni, riflessi di mondi paralleli e di vite passate. Credeva che gli specchi potessero catturare l’immagine delle persone amate e che, una volta che queste fossero scomparse, gli specchi conservassero per sempre la loro immagine, come un ricordo impresso per l’eternità. Anche il tema del memento mori era costantemente presente negli ambienti di Praz, a ricordare la fugacità della vita e la natura effimera dell’esistenza umana. Questa consapevolezza permeava la sua vita e il suo lavoro, influenzando profondamente la sua visione del mondo e il modo in cui si relazionava con gli oggetti che lo circondavano. L’amore di Praz per gli oggetti si estendeva anche agli antiquari, i mercanti d’arte antica che permettevano la trasformazione di un oggetto dimenticato in una vera e propria opera d’arte. In alcuni dei suoi scritti, come Omelette soufflée à l’antiquaire. Elogio degli antiquari, Praz rende omaggio a questi professionisti, riconoscendo il loro ruolo fondamentale nel preservare e valorizzare il patrimonio storico e artistico. Egli apprezzava la loro capacità di far rivivere il passato e di presentarlo in una forma che potesse essere apprezzata dai moderni, riconoscendo al contempo le sfide e le contraddizioni insite in questo processo di valorizzazione. Tuttavia, l’intensa passione di Praz per gli oggetti e il suo rapporto quasi ossessivo con essi non furono sempre compresi. Spesso, veniva visto come un uomo solitario, rinchiuso in una torre d’avorio dove il tempo sembrava essersi fermato, isolato dal resto del mondo. La sua ex-moglie gli rimproverava di vivere in una dead life, una vita fatta di oggetti e ricordi, ma priva del calore umano. Questa visione alimentava un’aura di mistero e inquietudine attorno alla figura di Praz, accentuata dal fatto che egli stesso si percepiva come un uomo in simbiosi con le sue collezioni, intrattenendo relazioni profonde e significative con oggetti apparentemente inanimati. Dopo un tentativo di furto nella sua casa, Praz descrisse il suo disamore per l’appartamento, che fino ad allora aveva considerato un santuario inviolato. Quell’effrazione aveva cambiato per sempre il carattere della casa, facendo passare su di essa “il soffio della morte”. Poco dopo, Praz decise di trasferirsi in un nuovo appartamento a Palazzo Primoli, dove ricominciò il rituale del collezionismo, cercando di ricostruire il suo mondo e di riconsacrare il suo tempio personale. La Casa Museo di Mario Praz rappresenta oggi una delle meraviglie nascoste di Roma, un luogo dove la vita e l’arte si intrecciano in un modo indissolubile, creando un ambiente unico e suggestivo. Visitare questa casa non è solo un’esperienza culturale, ma un vero e proprio viaggio nell’anima di un uomo che ha saputo vedere il mondo attraverso una lente fatta di memoria, arte e magia. Photocredit:MinisterodellaCultura – EmanueleAntonioMinerva
Pesaro, Rossini Opera Festival, XLV Edizione
“IL BARBIERE DI SIVIGLIA”
Commedia in due atti di Cesare Sterbini
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi, a cura di Alberto Zedda
Il Conte d’Almaviva JACK SWANSON
Bartolo CARLO LEPORE
Rosina MARIA KATAEVA
Figaro ANDRZEJ FILONCZYK
Basilio MICHELE PERTUSI
Berta PATRIZIA BICCIRÈ
Fiorello / Ufficiale WILLIAM CORRÒ
Orchestra Sinfonica Gioachino Rossini
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Direttore Lorenzo Passerini
Maestro del Coro Giovanni Farina
Regia, Scene e Costumi Pier Luigi Pizzi
Regista collaboratore e Luci Massimo Gasparon
Produzione ROF 2018
Pesaro, 22 agosto 2024
Dopo i furori tragici di Ermione, è più che giusto che il pubblico del Rossini Opera Festival desideri uno spettacolo di grande musica e di non inferiore divertimento. Il barbiere di Siviglia prodotto nel 2018 avrebbe certamente offerto la migliore e più sontuosa opportunità, purché con una compagnia vocale all’altezza dei due titoli precedenti del Rossini “serio”. Al contrario, nel corso degli anni è stata applicata a questo allestimento la stessa matrice stilistica, evidentemente per conservare una serie di indicazioni musicali che si devono non ai vari direttori d’orchestra, bensì al regista-demiurgo primo, Pier Luigi Pizzi. Forse, ricorrere a una serie di gags che incominciano presto e attraversano tutta l’esecuzione non è l’unica modalità praticabile in un festival come quello di Pesaro. Il carattere della comicità di questo spettacolo non è estemporaneo né puntuale, bensì connaturato alla recitazione e all’intonazione delle parti: Don Bartolo pizzica la r, Don Basilio è balbuziente, Almaviva nelle vesti di Don Alonso strascica la s. L’effetto complessivo, nella sua prevedibilità, accentua la tipizzazione dei caratteri, sminuendo l’effetto comico complessivo per chi abbia già visto le precedenti edizioni (la più diffusa fu certamente quella in streaming dell’autunno 2020). La maggior parte del pubblico, comunque, non la pensa affatto così, perché si diverte moltissimo, tributando prolungati applausi a tutti gli interpreti, durante e al termine della recita. Paradossalmente, nel bel saggio di Gianfranco Mariotti all’interno del programma di sala, Il Barbiere e la (cattiva) tradizione, si mette in guardia il lettore dall’unico orientamento registico corrente, che appiattisce questo titolo «su un inamovibile cliché interpretativo: quello del massimo esempio possibile di opera buffa». Lo stesso Mariotti depreca le letture ridotte a «un repertorio fisso di tic e gag note e prevedibili». E dunque? Pare che al ROF si stia progettando di «recuperare a questo smagliante capolavoro la sua complessità originale». Intanto, però, si ride con ciò che la maggior parte del pubblico si aspetta … Buona la prova dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI diretta dal giovane Lorenzo Passerini, debuttante al ROF; concertatore attento, ma corrivo a due tendenze: l’eccessiva rapidità dei tempi e la pesantezza delle sonorità (flebili gli archi e fragorose le percussioni). Andrzej Filonczyk è un Figaro empatico e credibile, anche se esagera con toni caricaturali e zeppe di recitazione e ripetizione di parole. In più, tende a cantare sempre a voce spiegata, nonostante un piccolo difetto di respirazione, che rallenta l’emissione e lo costringe a rincorrere il ritmo. Il tenore statunitense Jack Swanson è un Almaviva che non brilla per il fraseggio o l’originalità dell’impostazione, ma si sforza di arricchire musicalmente la prestazione con piccole variazioni e puntature; la grazia del porgere attenua parzialmente i difetti tecnici, giacché la linea di canto soffre di una certa staticità e l’emissione è come impedita nei passaggi più virtuosistici (in particolare nel rondò finale). Le stesse leziosaggini a cui ricorre il baritono caratterizzano anche il canto di Maria Kataeva: dopo il concerto vocale di cui fu protagonista al ROF 2023, era da aspettarsi che la sua Rosina fosse piuttosto superficiale. Della voce scrivemmo a suo tempo che “è interessante, sia nel timbro sia nella tecnica, ma la cantante sembra torturata dal dubbio di non essere sentita: diversamente, non eseguirebbe tutto in forte o fortissimo, senza rilassare mai la tensione con una mezza voce, una smorzatura, un accento naturale […]. Ovviamente, deve anche forzare sul registro acuto, per mantenere l’emissione sempre al massimo, a scapito di altri accorgimenti”. Purtroppo non possiamo smentirci né attenuare quel giudizio; anzi, pesa sulla sua Rosina, sempre impegnata in movenze di flamenco, una certa impressione di volgarità. L’artista più adeguato e vocalmente coerente è Carlo Lepore, notevole Don Bartolo, sia nel caratterizzare un personaggio che gli sembra cucito addosso, sia nello stile arguto e attento al rispetto della scrittura rossiniana, insomma molto equilibrato (se non fosse per il vezzo della r, da cui ogni tanto egli stesso prescinde). Il sillabato del duetto con Rosina è godibilissimo, al pari di ogni altro intervento nei quadri d’insieme. Antiquitatis causa, si potrebbe elogiare anche il Don Basilio di Michele Pertusi, ma l’inflessione parlata ha ormai preso il sopravvento sul fraseggio. Da ricordare l’intervento di un’altra interprete che con il ROF vanta un rapporto pluridecennale: Patrizia Bicciré, simpatica Berta, che debuttò a Pesaro nella parte di Giulia nella Scala di seta del 1992. Alla “commedia perfetta” che è il Barbiere corrisponde una impostazione architettonico-spaziale perfetta, dovuta a Pizzi, che firma scene, costumi e luci. L’allestimento, nato e ritornato a Pesaro ma esportato anche altrove, non ha bisogno di essere ulteriormente descritto; c’è però un elemento storico che merita di essere menzionato, ed è la relazione tra lo stesso Pizzi e il ROF, iniziata nel 1982 e mantenutasi costante fino a oggi, con una identificazione registica con la rassegna che rivaleggia soltanto con Luca Ronconi. Ed è assai significativo che proprio con il Barbiere sia culminata la carriera registica rossiniana di Pizzi, nella città del compositore. Foto © Amati Bacciardi
Pesaro, Rossini Opera Festival, XLV Edizione
“L’EQUIVOCO STRAVAGANTE”
Dramma giocoso in due atti su libretto di Gaetano Gasbarri
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi, a cura di Marco Beghelli e Stefano Piana
Ernestina MARIA BARAKOVA
Gamberotto NICOLA ALAIMO
Buralicchio CARLES PACHON
Ermanno PIETRO ADAÍNI
Rosalia PATRICIA CALVACHE
Frontino MATTEO MACCHIONI
Filarmonica Gioachino Rossini
Coro del Teatro della Fortuna di Fano
Direttore Michele Spotti
Maestro del Coro Mirca Rosciani
Regia Moshe Leiser e Patrice Caurier
Scene Christian Fenouillat
Costumi Agostino Cavalca
Luci Christophe Forey
Produzione 2019, riallestimento
Pesaro, 21 agosto 2024
Dopo i titoli del Rossini serio (Bianca e Falliero) e tragico (Ermione), il ROF 2024 ripropone due allestimenti del repertorio comico, accostando all’imponente Barbiere di Siviglia del 2018 L’equivoco stravagante del ’19, creato per il Teatro Rossini. Lo sguardo di una mucca che si sporge da un quadro campestre è il particolare visivo, giocoso di per sé, attorno al quale si sviluppa tutta la farsesca vicenda. Ed è come se il sorriso provocato da questo dettaglio si estendesse in risate quasi ininterrotte, per un pubblico che si diverte e applaude moltissimo. Al di là della qualità artistica e musicale dello spettacolo, è interessante osservare l’evolversi dell’atteggiamento socio-culturale nei confronti di questo titolo rossiniano: il pubblico, per buona parte formato da non italofoni, partecipa dalla prima all’ultima battuta, cogliendo e gustando ogni allusione, doppio senso e scurrilità più o meno velata del libretto. Merito, senza dubbio, dei sopratitoli in originale e in inglese, ma anche degli strumenti “educativi” che il ROF mette a disposizione dei suoi attenti frequentatori (in questo caso, il bel saggio di Fabio Rossi all’interno del programma di sala, La lingua equivoca di Gaetano Gasbarri). Insomma, un combinato di tecnologia e supporto interpretativo che soltanto pochi anni fa non era ancora disponibile e che, invece di raffreddare o razionalizzare la reazione del pubblico, la aumenta in termini positivi. Michele Spotti, giovane direttore dalla carriera internazionale e ormai di casa a Pesaro, è alla guida della Filarmonica Gioachino Rossini, districandosi bene con i ritmi indiavolati dei numeri d’insieme (e contenendo talvolta le piccole intemperanze di alcuni strumenti). La compagnia vocale è formata da un bel bouquet di giovani, quasi tutti coltivati nel giardino dell’Accademia Rossiniana, che si muovono attorno a un artista molto affermato ed esperto come Nicola Alaimo, il cui Gamberotto è irresistibile per comicità vocale e attoriale (esempio di baritono che lavora prima di tutto sui mezzi tecnici, come quelli indispensabili per affrontare il sillabato, per sortire l’effetto comico, anziché su gags o altri mezzucci da filodrammatica). Agli altri cantanti è certamente riservata una carriera che darà loro l’opportunità di perfezionare alcuni aspetti del canto: per esempio la dizione, la corretta messa in maschera della voce, l’intonazione per il soprano russo Maria Barakova (Ernestina) o il fraseggio e la varietà della linea di canto per il tenore catanese Pietro Adaíni (Ermanno), pregevole per la finezza dell’emissione e del porgere. Anche il baritono spagnolo Carles Pachon (Buralicchio) è stato molto equilibrato nel suo ruolo di carattere buffo. Spigliato e preciso, come sempre, il Coro del Teatro della Fortuna di Fano istruito da Mirca Rosciani. Moshe Leiser e Patrice Caurier, avvalendosi dello spazio lasciato quasi del tutto libero dalle scene di Christian Fenouillat, fanno muovere i sei personaggi con disinvoltura e divertimento; a parte una gratuita oscenità al principio del I atto, quando ancora non si sa nulla della situazione, i registi non introducono altri elementi nella recitazione, forse perché il libretto di Gasbarri è talmente colmo di battute e invenzioni verbali («spudorato, ingegnoso, esilarante» lo definisce Marco Beghelli nel programma di sala), che non rimaneva (per fortuna) altro spazio libero. Anche i costumi di Agostino Cavalca, provvisti di un bel naso posticcio per tutti, contribuiscono alla costruzione di una vis comica che, seguendo lo sviluppo narrativo (se così si può chiamare questa pièce ai limiti dell’assurdo), va crescendo nel II atto, si ripiega in un momento di elegia quando Ernestina è portata in prigione, e infine si placa nell’allegria generale del gámos, secondo il miglior canone della commedia popolare, dai tempi di Aristofane fino a Eduardo Scarpetta. Foto © Amati Bacciardi
Art de toucher le clavecin, Premier prélude; Les Regrets (Pièces de clavecin, 1er livre, ordre 3); La Favorite, Chaconne à deux thèmes (Pièces de clavecin, 1er livre, ordre 3); L’Art de toucher le clavecin, Second prélude; Les Idées Heureuses (Pièces de clavecin, 1er livre, ordre 2); La Diligente (Pièces de clavecin, 1er livre, ordre 2); L’Art de toucher le clavecin, Troisième prélude; L’Enchanteresse, Rondeau (Pièces de clavecin, 1er livre, ordre 1); La Fleurie ou la tendre Nanette (Pièces de clavecin, 1er livre, ordre 1); L’Art de toucher le clavecin, Quatrième prélude; Le Réveil-matin (Pièces de clavecin, 1er livre, ordre 4); L’Art de toucher le clavecin, Cinquième prélude; La Logivière, Allemande (Pièces de clavecin, 1er livre, ordre 5); L’Art de toucher le clavecin, Sixième prélude; Allemande l’Ausoniène (Pièces de clavecin, 2nd livre, ordre 8); Seconde Courante (Pièces de clavecin, 2nd livre, ordre 8); Sarabande l’Unique (Pièces de clavecin, 2nd livre, ordre 8); L’Art de toucher le clavecin, Septième prélude; Les Bergeries (Pièces de clavecin, 2nd livre, ordre 6); L’Art de toucher le clavecin, Huitième prélude; Les Juméles (Pièces de clavecin, 2nd livre, ordre 12); L’Atalante (Pièces de clavecin, 2nd livre, ordre 12). Stefano Lorenzetti (clavicembalo). Registrazione: Auditorio Stelio Molo, Lugano, Dicembre 2018. T. Time: 72′ 28″ 1 CD Dynamic CDS7879
Riscoperta nella seconda metà dell’Ottocento, la produzione clavicembalistica di François Couperin è certamente una delle più affascinanti e anche una delle più frequentate dalla discografia in seguito al ritorno d’interesse per il clavicembalo e il suo repertorio verificatosi nella seconda metà del Novecento. Couperin è il protagonista anche di questa proposta discografica della Dynamic nella quale gli otto preludi di quell’autentico scrigno, ricco di preziosi gioielli musicali che è L’Art de toucher le clavecin, sono seguiti da due brani degli Ordres (nome con cui venivano chiamate in Francia le suite) tratti dai due primi volumi dei Pièces de clavecin. Il risultato è un album in cui, anche per la scelta dei brani affiancati ai preludi, la malinconia costituisce il sentimento dominante in pagine di straordinaria forza espressiva. Di altissimo livello l’esecuzione di Stefano Lorenzetti, il quale, avvalendosi di un clavicembalo costruito ad imitazione di uno strumento francese dell’epoca da Tony Chinnery nel 1986, non solo evidenzia, con maestria, aspetti della prassi esecutiva della musica francese del Settecento, come l’inégalité e i ritmi puntati, eseguiti quest’ultimi in modo sfuggito, ma anche perché restituisce all’ascolto i valori espressivi di questo splendido repertorio.
Pesaro, Rossini Opera Festival, XLV Edizione
“ERMIONE”
Azione tragica in due atti su libretto di Andrea Leone Tottola
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, a cura di Patricia B. Brauner e Philip Gosset
Ermione ANASTASIA BARTOLI
Andromaca VICTORIA YAROVAYA
Pirro ENEA SCALA
Oreste JUAN DIEGO FLÓREZ
Pilade ANTONIO MANDRILLO
Fenicio MICHAEL MOFIDIAN
Cleone MARTINIANA ANTONIE
Cefisa PAOLA LEGUIZAMÓN
Attalo TIANXUEFEI SUN
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Direttore Michele Mariotti
Maestro del Coro Giovanni Farina
Regia Johannes Erath
Scene Heike Scheele
Costumi Jorge Jara
Video Bibi Abel
Luci Fabio Antoci
Nuova produzione
Pesaro, 21 agosto 2024, ultima recita
«La collera, in musica, serve solo come elemento di contrasto». Stendhal si servì di questo argomento nella Vie de Rossini per comprendere il fallimento di Ermione, giacché – a suo dire – in quest’opera tutti i personaggi sono preda dell’ira, che costituisce l’unica cifra emotiva della vicenda e della musica. Evidentemente, tanto il giudizio quanto l’argomentazione risultano discutibili, soprattutto dopo aver visto la nuova produzione del Rossini Opera Festival, affidata alla direzione musicale di Michele Mariotti e alla regia di Johannes Erath, forti entrambi di una compagine orchestrale e di una compagnia vocale davvero ragguardervoli. Il declamato e l’asciuttezza dell’apparato belcantistico di Ermione pongono degli interrogativi su come interpretare vocalmente l’opera; in più, la vicenda mitologica che Tottola desume da Racine propone personaggi dal carattere estremamente ambiguo. Rispetto alla rappresentazione “neoclassica” del ROF 2008, questa di Erath è radicalmente opposta, perché non si arrende all’indeterminatezza psicologica dei personaggi; al contrario, si sforza di comprenderne l’operato e le interazioni, con un esito che, nella sua crudezza estetica, può anche non piacere, ma è sicuramente sorretto da un processo di interpretazione. A Pesaro, l’opera e l’allestimento non soltanto piacciono, ma suscitano un entusiasmo che negli ultimi anni non ha avuto eguali, tanto nel pubblico come nella critica, forse perché incarnano perfettamente un certo gusto diffuso e alla moda, che finora è rimasto quasi inedito nelle produzioni del Rossini serio. Più che la regia dei movimenti o la concertazione musicale o le scene (di Heike Scheele) o i costumi (di Jorge Jara), è l’effetto complessivo della fotografia a caratterizzare lo spettacolo. Una fotografia sonorissima, beninteso, in cui la musica illustra la violenza e il sadismo della storia, tutto su di un nerissimo fondale: tableaux popolati da cinici cortigiani si susseguono come sequenze alla Kubrick, in cui è il gusto della violenza sfrontata a trionfare, con un unico obbiettivo: sedurre il pubblico e indurlo a condividere il piacere che si prova (inconsciamente?) di fronte alla sofferenza altrui; quella di Astianatte, legato, incappucciato, preso a calci, ma anche quella di Andromaca, e della stessa Ermione, oggetto della malvagità di Pirro. La volgarità degli indumenti, come nei film di Tarantino, prelude all’agire subdolo e imprevedibile dei caratteri. E tutto ha causa non nell’ira (come, un po’ troppo aristotelicamente voleva Stendhal), bensì nella passione amorosa. Il regista deve aver studiato molto bene il libretto, accorgendosi che il termine chiave più ricorrente è proprio “Amore”: per questo lo trasforma in un personaggio androgino costantemente presente sulla scena, quale grande burattinaio di tanti pupazzi che si credono eroi ed eroine dell’Antichità classica! E quanto più fanno la voce grossa (anche fuor di metafora), tanto più rivelano la loro umanissima debolezza e postmoderna fragilità. Giacché l’intesa tra regista e direttore è perfetta, la modalità con cui si affronta la partitura è consequenziale: mai si era ascoltato nel Rossini di Mariotti un suono tanto scabro, violento, accelerato e contrastato con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI (la tavolozza dei colori è agitatissima, sin dai legni della sinfonia). E, ancora di conseguenza, le voci dei due protagonisti, Ermione e Pirro, gareggiano in aggressività, toni eccessivi, declamati di un realismo (o addirittura verismo) rossinianamente inusitato. Anastasia Bartoli conferma le qualità vocali per cui era stata apprezzata l’anno scorso in Eduardo e Cristina, rivelandosi interprete ideale, non di Ermione in generale, ma di questa specifica Ermione, esagitata e muscolare, alla pari di Enea Scala come Pirro: entrambi si concentrano su di un’emissione tonitruante, gareggiando in atteggiamenti di forza, un po’ a discapito della precisione nella coloratura e nelle agilità. Il soprano, inoltre, ha una leggera tendenza alle note fisse, forse per effetto della costante sollecitazione del diaframma e delle pieghe vocali; e forse le stesse cause determinano nel primo tenore alcune piccole risonanze di gola. In ogni caso, entrambi tengono soggiogato l’ascoltatore con la loro esuberanza e sicurezza vocale, soprattutto quando enunciano nel registro centrale (Bartoli) o in quelli centrale e basso (Scala). A confronto di tale atmosfera vocale concitata, la cavatina dell’Oreste di Juan Diego Flórez sembra davvero il deus ex machina della tradizione rossiniana, che addita un’alternativa musicalmente rassicurante, oltre a fornire una lezione magistrale di ars canendi; la necessità di qualche pausa per assumere il fiato necessario all’impervia prova nulla toglie alla validità di un canto dal valore perenne. Nella stretta finale dell’opera, per esempio, una puntatura molto efficace del soprano chiude la prestazione della Bartoli, subito seguita da un’altra dello stesso Flórez: mondi vocali diversi che si passano virtuosamente il testimone. L’Andromaca del mezzosoprano Victoria Yarovaya è curata nella pronuncia di ogni fonema e nel porgere molto dignitoso, da personaggio autenticamente regale. Un cameo, anche se di piccole dimensioni in siffatto arengo, la voce del tenore Antonio Mandrillo come Pilade. Ermione come allegoria dell’impossibilità dell’amore non è certo un suggerimento originale. Ma quando, durante il duetto del II atto tra la figlia di Menelao e il figlio di Agamennone le passioni sembrano ricomporsi, e sullo sfondo si proietta l’interno di un teatro con i vari ordini di palchi, il colpo d’ala dell’ironia è patente: tale pacifica ricomposizione potrebbe avvenire solo nella trama di un melodramma convenzionale. Per questo, subito dopo, il teatro tremola, ondeggia fino a spengersi, mentre dietro una cortina tutti i figuranti applaudono lentamente, come in una compiaciuta canzonatura. Anch’essa, nelle relazioni umane, una forma di violenza incomprimibile. Foto Amati-Bacciardi © ROF
Lo scorso anno fu un ritorno memorabile per Verona e il mondo della danza. Tanto che quest’anno raddoppiano le serate. Dopo il successo del 2023, che vide un Teatro Romano gremito chiedere ai ballerini oltre sette bis, Zorba il greco è pronto a tornare tra le mura scaligere. Il celebre titolo di Mikis Theodarakis sarà sul palcoscenico del Teatro Romano di Verona, il 27 e 28 agosto alle 21.15. Grazie alla collaborazione con il Comune di Verona, il 101° Arena di Verona Opera Festival 2024 cambia palcoscenico per due serate esclusive.
Insieme al Ballo areniano, calcheranno le scene dei solisti di prima grandezza: l’applaudito Denys Cherevychko tornerà accanto a Eleana Andreoudi e Liudmila Konovalova, Prime Ballerine rispettivamente dell’Opera di Atene e di Vienna. E, novità dell’edizione 2024, il debutto di Davide Buffone, primo ballerino del Teatro Nazionale Sloveno di Maribor, come Zorba e di Gioacchino Starace, Solista del Teatro alla Scala, come John.
Zorba il greco è uno spettacolo significativo per la storia areniana: il balletto fu scritto appositamente per l’Arena nel 1988 e diretto dal compositore stesso su ideazione del coreografo Lorca Massine, riproposto a Verona nel ’90 e nel 2002, quindi replicato in tutto il mondo entusiasmando milioni di spettatori. Ancora oggi Zorba, tratto dal romanzo di Nikos Kazantzakis, rappresenta nella trama e nella musica un inno alla vita, alla scoperta dell’altro, al superamento del lutto, alla forza interiore, alla Grecia stessa.
Per il ritorno a Verona del Ballo areniano, Zorba il greco è andato in scena nel 2023 con una nuova produzione di Fondazione Arena resa possibile grazie alla collaborazione con il Comune di Verona e l’Estate Teatrale Veronese. Sinergia che si ripete anche quest’anno.
Torna anche il team creativo al completo: coordinatore del Ballo Gaetano Bouy Petrosino alla presenza dello stesso autore e coreografo Lorca Massine, con scene di Filippo Tonon e luci di Sergio Toffali.
Le due eccezionali serate, parte del 101° Arena di Verona Opera Festival 2024, si preannunciano sold-out. Ultimi biglietti in vendita sul sito www.arena.it, alla biglietteria di via Dietro Anfiteatro e nei punti Ticketone.
Pesaro, Rossini Opera Festival, XLV Edizione
“BIANCA E FALLIERO”
Melodramma in due atti di Giuseppe Felice Romani
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini a cura di Gabriele Dotto
Priuli NICOLÒ DONINI
Contareno DMITRY KORCHAK
Capellio GIORGI MANOSHVILI
Falliero AYA WAKIZONO
Bianca JESSICA PRATT
Costanza CARMEN BUENDÍA
Ufficiale / Usciere CLAUDIO ZAZZARO
Cancelliere DANGELO DÍAZ
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Direttore Roberto Abbado
Regia Jean-Louis Grinda
Scene e costumi Rudy Sabounghi
Luci Laurent Castaingt
Nuova produzione
Pesaro, 19 agosto 2024, ultima recita
Con una sinfonia il cui tema iniziale sarebbe stato ripreso per Le siège de Corinthe, un numero d’insieme che, immettendo al finale primo, anticipa di parecchi anni il sestetto di Lucia di Lammermoor, varie atmosfere che oscillano tra Bellini e il Donizetti “veneziano”, Bianca e Falliero sembra davvero la partitura ideale per inaugurare un’edizione del Rossini Opera Festival: titolo raro (ma non desueto), colmo di elementi musicali destinati a fruttuoso sviluppo, è un’opera coerente, unitaria, ricchissima di invenzione musicale (originale) e drammaturgica, anche per le ampie proporzioni del libretto di Felice Romani: insomma, il Rossini serio più coscienzioso (non così ardito come nell’Ermione, andato in scena soltanto pochi mesi prima a Napoli con scarso successo), che prepara una pièce bien faite, degna di inaugurare la stagione di Carnovale scaligera del 1819 all’insegna del belcanto più disteso e fiorito. Roberto Abbado guida l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, calibrando di scena in scena le sonorità adeguate al rinnovato spazio del ROF, l’Auditorium Scavolini (già Palazzetto dello Sport, non più in uso al festival dal lontano 2005, quando chiuse con un glorioso Barbiere ronconiano), ora destinato – a quanto pare – a ricoprire un ruolo sempre più importante nelle annate venture. In effetti, l’acustica è assai buona; certo, non sontuosa, ma almeno senza alcun effetto di eco, come accade invece in altri spazi della rassegna pesarese. La concertazione di Abbado è magnifica e accuratissima, anche se nella resa di alcuni strumenti si registra qualche piccolo cedimento, forse dovuto alla stanchezza degli ultimi giorni. La compagnia contante affianca un giovane mezzosoprano, ben conosciuto a Pesaro sin dal 2017, e un soprano di fama internazionale dalla carriera amplissima: dai tempi della Pietra del paragone (2017) o del Barbiere (2018) Aya Wakizono è cresciuta molto sul piano vocale e si può definire oggi una cantante dalla corretta impostazione tecnica e dalla buona professionalità. Tuttavia, nel suo Falliero l’emissione manca di incisività nel registro basso (in cui il personaggio esprime molte delle sue frasi); l’indubbia bellezza della voce e il fraseggio suppliscono a volte questa mancanza, anche con pregevoli finezze, ma la coloratura resta un ambito bisognoso di perfezionamento, soprattutto nei gruppetti discendenti e, più in generale, nella capacità di sgranare le singole note. Questo non impedisce che nella grande scena solistica del II atto il mezzosoprano raccolga un’autentica ovazione. Jessica Pratt, che inaugurò le sue presenze al ROF nel 2011 come protagonista dell’Adelaide di Borgogna, è una Bianca dalla buona proiezione e dalla discreta corposità vocale, anche se nel registro acuto il timbro tende a sbiancarsi. Gli acuti, in generale, sono piuttosto spericolati, con inflessioni anche stridule, sebbene il soprano riesca a mantenerli più o meno sotto controllo (la puntatura – invero non necessaria – del rondò conclusivo alla prima si trasformò in un urlo tanto prolungato quanto selvaggio: un incidente che nella recita a cui abbiamo assistito non si è, fortunatamente, ripetuto). Anch’ella ottiene una meritata ovazione dopo l’aria del I atto. Trattandosi di due voci femminili che coincidono con i personaggi protagonisti e amanti, la prestazione delle due interpreti deve essere valutata congiuntamente; e la differenza di timbri giova senza dubbio al contrasto dei colori, decisamente godibile nel corso dei vari duetti e numeri d’insieme. Il miglior cantante sulla scena è comunque il tenore russo Dmitry Korchak, nella parte di Contareno: la sua prestazione entusiasma non soltanto per la sicurezza del registro acuto, ma anche per la capacità di alleggerire il suono, i pianissimo, il fraseggio studiato e la cura della dizione. Completa il quartetto dei protagonisti il basso georgiano Giorgi Manoshvili, molto apprezzato per la cavata autorevole e il porgere sicuro: anche se non ha l’onere di pezzi solistici, la parte di Capellio è determinante per lo scioglimento dell’intreccio. Molto corrette le prestazioni dei comprimari e del Coro del Teatro “Ventidio Basso” istruito da Giovanni Farina. A fronte del grande successo sul versante musicale, su quello visivo e registico lo spettacolo non funziona altrettanto bene. Che cosa fa il regista Jean-Louis Grinda per porre in risalto (o, almeno, per comprendere) l’esteso apparato belcantistico con cui tutta l’opera si dispiega? Un bel nullino … Lo spettacolo, infatti, è di un’inutile eterogeneità, che frammischia tante idee diverse, tutte sbagliate: gli spezzoni cinematografici della guerra civile spagnola, il tripudio floreale tricolore (frutto di un’interpretazione assai discutibile dei versi presuntamente “politici” di Romani), l’inserzione di una nonna (o la madre anziana?) di Bianca, che nel libretto non c’è, il notturno oleografico di Venezia, i costumi (realizzati da Rudy Sabounghi, che firma anche le scene) che vanno dal XVII al XX secolo … tutto produce un effetto frammentario, alternando momenti di confusione a lunghe sequenze statiche. Se il diavolo è nel dettaglio, valga ricordarne uno dei più fastidiosi, come la ricostruzione della campagna militare della Spagna contro Venezia, con la proiezione durante il I atto della mappa di battaglie a Treviso e nei pressi della laguna. Nel libretto di Romani, però, il Doge dice che «dalle Orobie mura | ci minaccia l’Ispano», e anche Falliero ricorda quale scenario di battaglia «le mura altere | dell’Orobia città», che è ovviamente Bergamo. L’Adda segnava il confine tra i possedimenti spagnoli e il territorio di San Marco ai tempi dello spionaggio del marchese di Bedmar (1617-1618; anch’egli è menzionato nell’opera) e nei decenni successivi. Il lettore di Manzoni ricorderà infatti l’entusiasmo di Renzo nell’“espatriare” verso Bergamo dopo aver superato il fiume e aver raggiunto la terra del leone veneziano. Foto © Amati Bacciardi
Roma, Vittoriano: tornano a splendere il pennone di Gaetano Vannicola, con la sua aquila monumentale, e la Vittoria alata di Edoardo Rubino nell’ambito del grande progetto di restauro promosso dal VIVE
Si svelano i risultati della prima fase del restauro sugli elementi in bronzo dorato del Monumento a Vittorio Emanuele II.A ottobre sarà completato il restauro delle sculture del fronte principale, restituendo a cittadini e turisti la piena bellezza di un patrimonio unico al mondo.
Nell’ambito del grande progetto di restauro delle sculture del Vittoriano promosso dal VIVE, diretto da Edith Gabrielli, vengono restituiti a cittadini e turisti il pennone di sinistra ideato da Gaetano Vannicola e la Vittoria alata di Edoardo Rubino. Torna così nuovamente a splendere, in tutta la sua magnificenza, la finitura dorata degli elementi in bronzo, prevista nel progetto di Giuseppe Sacconi, l’architetto del monumento. Diretto da Edith Gabrielli ed eseguito da Susanna Sarmati, il progetto di restauro –realizzato grazie al contributo di Bvlgari – è volto a garantire la conservazione e a restituire la piena leggibilità delle sculture sul prospetto principale del celebre monumento dedicato a Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, realizzate agli inizi del Novecento da alcuni dei più importanti artisti del panorama nazionale. Il disallestimento del ponteggio del pennone di sinistra impegnerà l’intera settimana e si concluderà con lo svelamento della Vittoria alata dello scultore torinese Edoardo Rubino: la bandiera italiana potrà così tornare a sventolare sul monumento. Il pennone presenta una base a campana ornata da festoni e alla sommità un’aquila romana, l’una e l’altra in bronzo dorato; anche la Vittoria alata che si libra sulla prua di una nave romana, poco al di sotto, è ugualmente in bronzo dorato, in calibrato accordo con il bianco del Botticino, caratteristico del Vittoriano. “Nel progetto dell’architetto Giuseppe Sacconi il Vittoriano s’imponeva allo sguardo per l’equilibrio cromatico fra il candore del Botticino e la finitura dorata delle sculture e degli ornamenti in bronzo. Parlano chiaro in tal senso la documentazione esistente, compreso un disegno del febbraio 1888, e le analisi condotte direttamente sulle opere. Tuttavia, il degrado causato dagli anni, dall’inquinamento e dagli agenti atmosferici aveva ormai occultato alla vista questa finitura. Nel pieno rispetto dei principi metodologici del restauro italiano, abbiamo deciso di reintegrare l’immagine a suo tempo concepita da Sacconi, restituendo piena leggibilità alla doratura originale. Oggi tutti possono vedere i primi risultati di questo lavoro nel pennone di sinistra. Fra qualche settimana, entro ottobre, concluderemo il restauro del secondo pennone e dei due gruppi monumentali de Il Pensiero e de L’Azione, rispettivamente di Giulio Monteverde e di Francesco Jerace. Invito tutti ad approfittare in questo periodo delle visite guidate gratuite che, nello spirito del “cantiere aperto”, consentono di salire sui ponteggi e di osservare i restauratori al lavoro. In questi mesi lo hanno fatto in parecchi, inclusa Carla, una gentile e dinamica signora di 78 anni”, afferma Edith Gabrielli, Direttrice del VIVE-Vittoriano e Palazzo Venezia. Il restauro ha evidenziato che le finiture in oro risultavano coperte a causa del processo di ossidazione del bronzo, in particolare su angoli e sottosquadri, e di ridipinture in tinta giallo limone che erano state applicate nel corso del tempo. È stato così possibile far riaffiorare la finitura dorata occultata dai depositi di ossidazione e dai precedenti interventi. Ad effettuare il lavoro una équipe di esperti restauratori, fra le eccellenze italiane del settore che, grazie alla modalità del cantiere “aperto” – realizzato con un sistema di ponteggi trasparenti – può essere ammirata da cittadini e turisti durante tutte le fasi di lavoro. Proseguono i lavori di restauro sulla fontana Mare Adriatico di Emilio Quadrelli, sulle sculture in bronzo dorato raffiguranti Il Pensiero di Giulio Monteverde e L’Azione di Francesco Jerace. Dalla prossima settimana sarà allestito il ponteggio sul pennone di destra con la Vittoria alata di Edoardo De Albertis. Il termine dell’intero intervento è previsto per la fine di ottobre. Per scoprirne da vicino le tecniche e conoscere i problemi di conservazione delle sculture e le soluzioni adottate, il VIVE – Vittoriano e Palazzo Venezia ha promosso fin dall’avvio dei lavori una serie di visite guidate in cui è possibile salire sui ponteggi e verificare il procedere dell’intervento. Un’iniziativa che ha riscosso un grande successo da parte del pubblico e che prevede un prossimo appuntamento il 12 settembre 2024 alle ore 10.00, in linea con il continuo e proficuo dialogo che l’Istituto persegue da sempre con la propria comunità. Le visite al cantiere di restauro sono gratuite e riservate ad un massimo di 15 persone a turno previa prenotazione inviando richiesta a: vi-ve.edu@cultura.gov.it