Roma, Museo Ebraico
LA FAMIGLIA DEL MONTE NEI SECOLI. ARTE, STORIA E MEMORIA.
LEGAMI. RITRATTI FAMILIARI DI ARTISTI EBREI DEL NOVECENTO.
CENTOVENTI ANNI DI MATRIMONI AL TEMPIO MAGGIORE: FAMIGLIA E TRADIZIONE DEGLI EBREI DI ROMA.
Al centro della Giornata Europea della Cultura Ebraica di quest’anno, che si terrà domenica 15 settembre e avrà come tema la “famiglia“, si trovano tre mostre organizzate presso il Museo Ebraico di Roma. La conferenza di presentazione, prevista per venerdì 13 settembre 2024 alle ore 11:00, offrirà un’anteprima esclusiva per la stampa. Le mostre includono: “La famiglia Del Monte nei secoli. Arte, storia e memoria“, con preziosi argenti, tessili, fotografie e manoscritti che raccontano la storia di una famiglia ebraica; “Legami. Ritratti familiari di artisti ebrei del Novecento“, un’esplorazione attraverso dipinti e sculture dei legami intimi tra gli artisti e le loro famiglie; e la mostra fotografica “Centoventi anni di matrimoni al Tempio Maggiore: famiglia e tradizione degli ebrei di Roma“, con venti scatti iconografici che raccontano i matrimoni della comunità ebraica romana dagli anni Dieci del Novecento a oggi, allestita lungo la cancellata del Tempio in via Catalana. La visita guidata sarà condotta dal Direttore del Museo Ebraico di Roma, Olga Melasecchi, e dal Direttore del Centro di Cultura Ebraica, Giorgia Calò, che offriranno approfondimenti sul tema.
Roma, Palazzo Bonaparte
LA MOSTRA: FERNANDO BOTERO
Palazzo Bonaparte si prepara a inaugurare un’importante stagione espositiva per l’anno 2025, in occasione del Giubileo e del 25° anniversario dalla nascita di Arthemisia. Un anno in cui la Capitale ospiterà grandi nomi dell’arte internazionale partendo proprio da questo settembre 2024 con una retrospettiva dedicata all’amatissimo artista colombiano Fernando Botero, recentemente scomparso.
Dipinti, acquarelli e sculture e alcuni inediti saranno esposti nelle sale del Palazzo in una mostra che sarà la più completa mai realizzata a Roma. Opere di medie e grandi dimensioni che rappresentano la sontuosa rotondità del suo universo femminile, restituito con effetti tridimensionali e colori spesso sgargianti, ma tutt’altro che sinonimo di sensualità o di estetica naïf, primitiva. Ciò che pare in Botero non è mai la realtà in sé, ma rivestita con una patina di un’ambiguità iperrealista di matrice sudamericana. Non mancheranno le versioni di capolavori della storia dell’arte, come le Menine di Velázquez e la Fornarina di Raffaello, il celebre dittico dei Montefeltro di Piero della Francesca, i ritratti borghesi di Rubens e van Eyck. E ancora, temi classici come il circo e la corrida, quest’ultimo forse il tema più interessante perché interpretato attraverso il filtro della tradizione ispanica molto sentita nell’arte, da Goya a Picasso. Una sala è dedicata, infine, alla più recente sperimentazione tecnica del maestro che, dal 2019, dipinse con acquerelli su tela: opere quasi diafane, frutto di un approccio delicato, forse senile, ai temi familiari di sempre.
Conrad Susa (1935-2013)
“THE DANGEROUS LIAISONS”
Opera in due atti su libretto by Philip Littel dal romanzo di Autore: Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos (1782)
Prima rappresentazione: San Francisco Opera, 10 settembre 1994
Frederica von Stade (Marquise de Merteuil)
Thomas Hampson (Vicomte de Valmont)
Renée Fleming (Madame de Tourvel)
Judith Forst (Madame de Volanges)
Johanna Meier (Madame de Rosemonde)
Mary Mills (Cécile de Volanges)
David Hobson (Chevalier de Danceny)
Laura Claycomb (Josephine)
Elizabeth Bishop (Emilie)
James Scott Sikon (Monsieur Bertrand)
Pamela Dillard (Victoire)
Hector Vasquez (Azolan)
Kristen Clayton (Julie)
Matthew Lord (Duel Second No. 1)
Gregory Cross (Duel Second No. 2)
Man-Hua Gao (Maid)
Mika Shigematsu (Maid)
Alfredo Portilla (Footman)
Earle Patriarco (Footman)
George Weiss (Father Anselm)
Orchestra e Coro San Francisco Opera
Direttore Donald Runnicles
Regia Colin Graham
Scene Gerard Howland
Reg. 10.09.1994
Napoli, Teatro di San Carlo, stagione di Opera e Danza 2023/2024
“LA DANZA FRANCESE DA SERGE LIFAR A ROLAND PETIT”
“Suite en blanc”
Musica Édouard Lalo (Extrait de Namouna)
Coreografia Serge Lifar ripresa da Charles Jude, Stephanie Roublot
Scene e costumi Maurice Moulène
Luci Charles Jude
“Le Jeune Homme et la Mort”
Libretto Jean Cocteau
Musica Johann Sebastian Bach
Coreografia Roland Petit ripresa da Luigi Bonino
Scene Georges Wakhévitch
Costumi Barbara Karinska
Luci Jean-Michel Désiré
Le Jeune Homme ALESSANDRO STAIANO
La Mort CHIARA AMAZIO
“L’Arlesienne”
Musica Georges Bizet
Coreografia Roland Petit ripresa da Luigi Bonino, Gillian Whittingham
Scene René Allio
Costumi Christine Laurent
Luci Jean-Michel Désiré
Orchestra, Étoiles, Solisti, Corpo di ballo del Teatro di San Carlo
Direttore Jonathan Darlington
Direttore del Balletto Clotilde Vayer
Produzione del Teatro dell’Opera di Roma
Napoli, 7 settembre 2024
In scena al San Carlo di Napoli il trittico dal titolo La danza francese. Da Serge Lifar a Roland Petit, pensato dalla Direttrice Clotilde Vayer: «tre splendide coreografie», come lei stessa dichiara nelle note di sala, ossia Suite en blanc di Serge Lifar, Le jeune homme et la Mort e L’Arlésienne di Roland Petit. Un cartellone da lei costruito secondo una «progressione nei balletti e nei coreografi da affrontare», facendo riferimento ai più grandi coreografi del Novecento, tra cui Serge Lifar e Roland Petit. Ma aggiunge una considerazione importante, ossia quella di non aver abbastanza spettacoli per poter mettere in scena tutto ciò che vorrebbe. A buon intenditor poche parole: la danza sempre Cenerentola delle arti al San Carlo, a partire dall’allestimento, che non ha per nulla aiutato. Non solo un palcoscenico che non permetteva di vedere la parte inferiore delle gambe dei danzatori, ma una palese sciatteria da parte dei tecnici delle luci – e lo diciamo subito– mai attenti nei momenti più importanti con l’accensione e lo spegnimento dei riflettori. Distrazioni imperdonabili.
Ma veniamo allo spettacolo. Suite en blanc, su musica di Édouard Lalo, con la sua successione di virtuosismi astratti di grande difficoltà tecnica, fu danzato la prima volta all’Opéra di Parigi il 23 luglio del 1943. Come lo stesso Lifar scriveva su «Le Matin» del 21 luglio del 1943, in questa coreografia si era «preoccupato soltanto della pura danza» al fine di «creare belle immagini, immagini che non avessero nulla di cerebrale». Una «testimonianza per le generazioni future, alle quali trasmetteremo l’eterna fiaccola delle tradizioni accademiche». Il Corpo di ballo del Massimo napoletano ha portato in scena la coreografia con impegno e risultati in parte apprezzabili, anche se è molto lontano dallo stile richiesto. In difficoltà soprattutto alcune soliste, tanto che anche il pubblico ha iniziato ad applaudire in sordina. Il lavoro fatto sulla Compagnia è comunque chiaro, ma la disomogeneità dei tipi umani e la mancanza di una espressività univoca e concentrata da parte del corpo di ballo sono quei particolari che, ad alto livello, fanno la differenza.
Si cambia scena con Le Jeune Homme et la Mort, «mimodramma» – come lo definì lo stesso Roland Petit – sulla solenne Passacaglia in do minore di Johann Sebastian Bach quale contrasto sonoro rispetto all’intimismo del dramma (tra l’altro scelta all’improvviso a tre giorni dalla prima, a sostituire una composizione jazz inisiale), nell’orchestrazione di Ottorino Respighi, libretto di Jean Cocteau e scenografia di Georges Wakhevitch (prima rappresentazione al Théâtre des Champs-Élysées di Parigi nel 1946). Un dramma esistenzialista che vede protagonista ideale una donna (come ne L’Arlesienne), ma di fatto l’azione danzata principale è a carico dell’uomo, in un vortice di grande tecnica completamente asservita al vigore interpretativo del protagonista, cui fa da contraltare la cinica freddezza della donna provocatrice, che lo istiga al suicidio, rivelandosi infine come l’incarnazione della morte. Ottima l’interpretazione dell’étoile Alessandro Staiano, che con questo ruolo non semplice (visti i mostri sacri che lo hanno portato in scena in passato) conferma la propria crescita artistica, ormai nella sua piena maturità. Chiara Amazio nel suolo della Morte, tagliente e algida come da occorrenza, ha dato il giusto spessore al personaggio. Grande ovazione da parte del pubblico.
In conclusione, ottima prestazione anche per i protagonisti de L’Arlesienne, altro balletto ispirato a una figura femminile che esiste solo nei ricordi che affliggono la mente di Frédéri, il quale abbandona la sua sposa Vivette nel giorno delle nozze, a memoria perpetua della ricerca di ciò che non si ha. Per questa creazione Petit è folgorato dalla musica di Bizet, fonte di ispirazione. Questo avveniva il 23 maggio del 1973 e nel 1974 andava per la prima volta in scena. La gioviale articolazione delle masse attribuisce alla coreografia la caratteristica estetica petitiana, mentre il delicato ‘confronto’ tra i due sposi, in cui l’interlocutore maschile è sordo ai tentativi di lei di destare la sua attenzione, sono stati affidati alle due étoiles Claudia D’Antonio e Danilo Notaro. Delicata e precisa lei, dipinta come in un quadro verista, convincente e sicuro lui, benché in alcuni passaggi forse non al suo massimo, a causa di linee delle braccia troppo morbide laddove ci si sarebbe aspettato più vigore, ma bravissimo a reggere un assolo ancora una volta tecnico e drammatico di grande trasporto emotivo.
Si tratta, per le étoiles sancarliane, di danzatori ormai maturi che provengono tutti dalla Scuola di Anna Razzi, dove oltre alla tecnica era possibile accogliere un testimone artistico di cui questi ragazzi hanno saputo fare tesoro. Poi, è chiaro, la danza si trasforma e le stesse coreografie, riprese rispettivamente da Charles Jude (Suite) e da Luigi Bonino (Petit), non sono pezzi da museo; gli stessi Autori le avrebbero modificate a seconda degli interpreti, come è sempre stato e come sarà sempre nella storia della danza, in quando i danzatori partecipano necessariamente al processo di creazione /riprese.
L’orchestra del Teatro di San Carlo è stata diretta con partecipazione dal Maestro Jonathan Darlington, in brani di indiscutibile valore che, come tali, hanno contribuito alla completezza dello spettacolo.
Sonori applausi a fine spettacolo, a ripagare le fatiche di tutti gli artisti.(foto Luciano Romano)
Richard Strauss (Monaco di Baviera, 11 giugno 1864 – Garmisch-Partenkirchen, 8 settembre 1949) – a 75 anni dalla morte del compositore
“Des Esels Schatten” (L’ombra dell’asino, op. pos 1949 – incompiuta)
Libretto by Hans Adler adapted from Martin Wieland’s novel `The Abderites’
Struthion – Peter Banoff
Antrax – Chris Merritt
Krobyle – Florentina Giurca
Gorgo – Felicitas Moravitz
Dame Salabanda – Getrud Ottenthal
Philippides – Georg Tichy
Physignatus – Ernst Dieter Suttheimer
Polyphonus – Paul Wolfrum
Pfriem Jaroslaw Stajnc
Agathyrsus – Ernst Gutstein
Strobylus – Wolfgang Muller-Lorenz
Kammerdiener – Josef Schwarz
Direttore: Ernst Marzendorfer
Regia: Wolfgang Weber
Festival di Hellbrunn1983
Roma, RomaEuropa Festival 2024: Opening
CHRISTOS PAPADOPOULOS, MERCE CUNNINGHAM, GAVIN BRYARS ENSEMBLE, BALLET DE L’OPÉRA DE LYON
Biped
Creato nel 1999
Entrato nel repertorio del Ballet de l’Opéra de Lyon nel 2024
Coreografia Merce Cunningham
Musica Gavin Bryars
Scena e Ologrammi Paul Kaiser e Shelley Eshkar
Costumi Suzanne Gallo
Luci Aaron Copp
Corpo di ballo Ballet de l’Opéra de Lyon
Con il sostegno di Dance Reflections by Van Cleef & Arpels
Mycelium
Creato il 9 settembre 2023
Entrato nel repertorio del Ballet de l’Opéra de Lyon nel 2023
Prima Nazionale
Coreografia Christos Papadopoulos
Musica Coti K
Ideazione luci Eliza Alexandropoulou
Costumi Angelos Mentis
Corpo di ballo Ballet de l’Opéra de Lyon
Coproduzione Biennale de la danse de Lyon, Theatre de la Ville
Roma, 05 settembre 2024
Ha aperto al Teatro Costanzi la trentanovesima edizione del Romaeuropa Festival. La collaborazione tra il Festival e l’ente lirico capitolino è stata dedicata alla presenza del Ballet de l’Opéra de Lyon, ora diretto da Cédric Andrieux, nel suo valore simbolico di promotore di un dialogo tra il repertorio e le nuove tendenze coreografiche. Come spiega lo stesso direttore della compagnia, difatti “i danzatori che si uniscono al Ballet cercano una radice classica nell’approccio al movimento e allo stesso tempo la possibilità di scoprire i nuovi talenti coreografici”. Non è un caso che la prima coreografia interpretata sia una ripresa di BIPED, storica creazione di Merce Cunningham, padre della modern dance americana. Già danzatore della Martha Graham Dance Company, avviò la sua personale ricerca coreografica dopo l’incontro con il musicista John Cage. Nella sua visione, la musica e la danza condividono la dimensione spazio-temporale intrecciandosi in modo casuale al fine di privilegiare le potenzialità espressive insite nello stesso movimento, senza imporre una volontà autoriale. I corpi di Cunningham disegnano graficamente nello spazio, contrapponendo l’utilizzo flessuoso delle gambe ai movimenti del torso. E le complesse dinamiche corporali vengono indagate in maniera sofisticata grazie al coinvolgimento delle tecnologie digitali. Già nel 1990 Cunningham elabora coreografie digitali grazie al programma Life Forms, poi divenuto Dance Forms, capace di catturare il movimento attraverso un complesso sistema di sensori e telecamere a raggi infrarossi. Di tutto ciò è testimone peculiare la coreografia BIPED, nata dalla collaborazione con il compositore Gavin Bryars (John Cage era morto nel 1992). La musica delicata, fonde segmenti eseguiti dal vivo ed altri preregistrati, in un alternarsi di sentimenti che dal lirismo della sezione iniziale si spinge verso atmosfere più oscure e inquietanti. È la musica che oggi, al nostro sguardo, pur nel suo essere indipendente dalla coreografia, conduce dentro lo spettacolo, donando sostanza alle forme grafiche disegnate nello spazio dai corpi e al loro riverberarsi nelle proiezioni digitali, che amplificano la dimensione spettacolare grazie a un caleidoscopico uso di dissolvenze e fuochi d’artificio di colori. I movimenti in scena e quelli proiettati non si rispecchiano esattamente, creando una partitura visiva fondata su rimandi coreografici, nonché sul contrasto tra l’evanescenza digitale e l’incisività dei corpi in scena rivestiti di lurex. I movimenti nei loro puri intagli coniugano allungamenti e sospensioni, rotazioni e disequilibri, accelerazioni e indugi. Le composizioni si basano su assoli, duetti, danze d’insieme, che sostituiscono alla rigorosa logica del linguaggio classico un pensiero ispirato all’imprevedibilità scenica. Il clima immersivo e allo stesso tempo misterioso ben prelude al secondo pezzo della serata, Mycelium, creato dal coreografo greco Christos Papadopoulos sulla musica elettronica di Coti K. Anche in questo caso sono le pulsazioni ritmiche della musica a guidare lo spettatore attraverso le evoluzioni coreografiche di venti danzatori, ispirate alle ramificazioni biologiche del mondo dei funghi. Rispetto al precedente lavoro coreografico di Papadopoulos dal titolo Mellowing, visto l’anno scorso all’Auditorium Parco della Musica, le idee concettuali espresse nella coreografia sembrerebbero meno elaborate. Lo stesso movimento si ripete con poche variazioni lungo il corso della coreografia trasmettendosi dai piedi allineati, alle ginocchia, alle anche, all’avambraccio, alle mani. Il gruppo avanza compatto per poi sfaldarsi spazialmente, rimanendo allo stesso tempo unito nelle intenzioni di movimento. Eppure, la suggestione che ne deriva coinvolge e vivifica lo sguardo degli spettatori, trasportati nel mondo dell’immaginazione. Forse è proprio questo il legame con Cunningham. In questo amplificato minimalismo, l’autorialità si riduce per dare spazio all’imprevedibilità espressiva insita nell’intreccio non narrativo tra la potenza evocativa dei corpi e il fascino ipnotico della trama musicale. Foto Agathe Poupeney -Opera de Lyon e Romaeuropa Festival
Was Gott tut, das ist wohlgetan BWV 99 esguita la prima volta a Lipsia il 17 settembre 1724, è la seconda delle tre Cantate bachiane destinate alla quindicesima domenica dopo la Trinità. L’incipit di questa partitura lo ritroviamo in altre 2 Cantate, la nr.98 e la nr.100. Una Cantata, per quanto riguarda il testo, sul lied del 1574 di Samuel Rodigast (1649-1708) che ha per protagonista il flauto traverso (frequentemente adoperato durante l’estate del 1724) qui utilizzato in tutti i brani, ad esclusione dei 2 recitativi, in funzione solistica, concertante (aria nr.3), o di ripieno (Nr.6, Corale), concertante con l’oboe (Coro nr.1) e dialogante con lo stesso strumento nell’aria-duetto (Nr.5) con il solo basso continuo, come nell’aria precedente. il tono virtuosistico è particolarmente presente nell’aria tripartita del tenore (nr.3), una superba pagina, in cui si alternano espressioni dolenti, passaggi cromatici ascendenti e discendenti, per sottolineare la disperazione dell’anima, con rapidi passi che sembrano tradurre la gioia di trovare in Dio colui che cura ogni male. Spicca comunque il coro d’apertura (nr.1), un Mottetto su “cantus firmus” alla voce di soprano con un raddoppio da parte del Coro, una esposizione vocale di tipo “arcaico” che si alterna con inserti strumentali concertanti di grande modernità.
Nr.1 – Coro
Ciò che Dio fa, è ben fatto,
i suoi disegni restano giusti;
qualunque sia il corso del mio destino,
mi atterrò in silenzio al suo volere.
Egli è il mio Dio,
nella necessità
saprà soccorrermi;
non ho che da lasciarlo agire.
Nr.2 – Recitativo (Basso)
La sua parola di verità è forte
e non mi deluderà
perché non abbandona né perde
coloro che credono.
Sì, mi conduce sul cammino della vita,
il mio cuore è sereno e soddisfatto
dell’amore paterno e misericordioso di Dio
e sa essere paziente
quando l’avversità lo colpisce.
Dio che tutto può con le sue mani
allontana da me la disgrazia.
Nr.3 – Aria (Tenore)
Non tremare, anima angosciata,
se il calice della croce
ha un gusto tanto amaro!
Dio è medico saggio e autore di miracoli,
che non ti offrirebbe un veleno mortale,
anche se la sua dolcezza fosse nascosta.
Nr.4 – Recitativo (Contralto)
Ora, l’alleanza stretta per l’eternità
resta il fondamento della mia fede.
Essa parla con fiducia,
nella morte e nella vita:
Dio è la mia luce,
a lui voglio donarmi.
E anche se ogni giorno
porta con sé la sua pena,
una volta superata la sofferenza,
dopo aver abbastanza pianto,
verrà infine il tempo della redenzione,
quando si manifesterà la sincera lealtà di Dio.
Nr.5 – Aria-Duetto (Soprano, Contralto)
Quando le amare sofferenze della croce
combattono le debolezze della carne,
questo è un bene.
Chi nei suoi vani pensieri
considera la croce insopportabile,
non avrà in futuro alcun piacere.
Nr.6 – Corale
Ciò che Dio fa, è ben fatto,
a questo voglio attenermi.
Se anche fossi spinto sull’aspra via
del pericolo, della morte, della miseria,
allora Dio
come un padre
mi prenderà tra le sue braccia;
perciò a lui voglio affidarmi.
Traduzione Emanuele Antonacci
(Saluzzo, 25 marzo 1910 – Milano, 8 settembre 2014)
La carriera della Olivero resta un caso particolare. Ella ha saputo conservare per oltre 50 anni una vocalità pressochè integra, grazie a una notevolissima tecnica e uan rigorosa scelta di repertorio, basato essenzialmente su Puccini e autori coevi. La Olivero resta uno dei maggiori esempi dell’interpretazione lirica del ‘900.
Allegati
Roma, Sala Umberto
BEATRICE CENCI
Vittima esemplare di una giustizia ingiusta
con Zoe Nochi, Antonio Melissa, Stefania Fratepietro, Giorgio Adamo, Ilaria Deangelis, Maurizio Semeraro, Danilo Ramon Giannini, Giuseppe Cartella’
Libretto di Simone Martino e Giuseppe Cartellà
Musiche di Simone Martino
Costumi Catia Mancini
Produzione esecutiva Paola Ferrari
Marketing e Distribuzione Giovanna Gattino
Regia di Simone Martino
Aiuto Regia Antonio Melissa
Ensemble: Alessandro Giorgi, Jasmine Lazzoni, Beatrice Mastrangeli, Luca Petrone, Francesca Romana Reniers, Sofia Sandri, Martina Sbardella, Martina Torrisi.
Il copione di questo spettacolo musicale in due atti è del tutto originale. La sceneggiatura è tratta dalla vera storia di Beatrice Cenci nobildonna romana vissuta nella seconda metà del 1500 e riadattata dal Maestro Simone Martino insieme a Giuseppe Cartellà. Martino è compositore e autore di molte Opere musical, tra le più note citiamo: “Roma Opera musical”, “San Michele l’Angelo dell’Apocalisse”, “Lo sguardo oltre il fango”, “Il Canto di Natale – La favola musicale”, “Re Artù opera musical” e “Vlad Dracula”. La vicenda si svolge nella seconda metà del 1500 quando la giovane subì ripetuti abusi da parte di suo padre Francesco Cenci, un nobile di spicco della Roma papale. La giovane denunciò gli abusi scrivendo direttamente al Papa, chiedendo di farsi rinchiudere in convento, pur di condividere la propria vita con quel mostro dentro casa, ma le sue preghiere non vennero ascoltate. Queste ripetute violenze spingono Beatrice a voler eliminare suo padre, sua unica via di scampo per essere libera. Con l’aiuto della matrigna Lucrezia Petroni Velli, del fratello Giacomo e del castellano Olimpo Calvetti, Dopo due tentativi andati a vuoto riescono nel loro intento, cercando di far passare la morte del nobile come un incidente, gettando il corpo già esanime dell’uomo da un mignano del casale di Petrella Salto (proprietà dei Cenci). Le indagini proveranno il contrario e a nulla valgono le testimonianze delle violenze subite dalla giovane che verrà processata assieme ai suoi complici e decapitata l’11 settembre 1599 nella piazza di Castel Sant’Angelo in Roma. Beatrice Cenci può essere considerato uno dei casi di violenza casalinga più documentati nella storia antica. La brutalità della legge romana della fine del 1500 non è certo paragonabile alla giurisdizione dei nostri giorni. Certo la violenza sulle donne era, e purtroppo rimane ancora, una gravissima piaga della nostra società. Per lo stesso motivo all’interno dell’opera viene inserita una figura femminile dei giorni d’oggi (Claudia), donna che subisce abusi familiari e che, grazie al diario di Beatrice, consegnato dalla nostra protagonista sotto forma di spirito [legenda romana] all’inizio dello spettacolo, trova la forza di denunciare e scappare dal suo carnefice. Beatrice Cenci opera drammatica è un musical di denuncia contro la violenza di genere. Lo spettacolo vanta il primo premio del concorso per nuove opere “Forse, domani Broadway” nel 2014 presso il Teatro Greco di Roma. Presidente in giuria il Maestro Gino Landi. Si narra che ogni notte a cavallo dell’11 settembre lo spirito di una nobildonna dall’aspetto etereo, quasi evanescente, passeggi lentamente sul ponte di Castel Sant’Angelo, tenendo la sua testa sottobraccio. Per gli abitanti romani è lo spirito di Beatrice Cenci. Qui per tutte le informazioni.
Venezia, Teatro la Fenice, Lirica e Balletto, Stagione 2023/24
“TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini
Turandot SAIOA HERNÁNDEZ
L’imperatore Altoum MARCELLO NARDIS
Timur MICHELE PERTUSI
Calaf ROBERTO ARONICA
Liù SELENE ZANETTI
PingSIMONE ALBERGHINI
Pang VALENTINO BUZZA
Pong PAOLO ANTOGNETTI
Un mandarino ARMANDO GABBA
Il principe di Persia ALESSIO ZANETTI
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Francesco Ivan Ciampa
Maestro del Coro Alfonso Caiani
Piccoli Cantori Veneziani diretti da Diana D’Alessio
Regia Cecilia Ligorio
Scene Alessia Colosso
Costumi Simone Valsecchi
Light designer Fabio Barettin
Nuovo Allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 3 settembre 2024
Torna alla Fenice la Turandot di Puccini nell’allestimento firmato da Cecilia Ligorio – con scene di Alessia Colosso, costumi di Simone Valsecchi e light design di Fabio Barettin –, che si basa su quello ideato dalla stesa regista veronese, insieme ai tre collaboratori appena citati, per la stagione 2018-2019. Mettere in scena l’ultimo titolo del catalogo pucciniano significa confrontarsi con una serie di enigmi. Non ci riferiamo tanto ai tre oscuri quesiti posti dall’algida principessa all’ardente Calaf, quanto ad un quarto enigma, ahimè, di impossibile soluzione: quello riguardante la scena finale, che Puccini riuscì solo ad abbozzare, prima che una morte prematura ponesse fine alla sua attività creativa. Peraltro, Turandot rimase incompiuta anche per il fatto che il compositore si era bloccato di fronte a cruciali problemi drammaturgici: soprattutto quello di rappresentare in modo credibile il repentino mutamento psicologico dei protagonisti. L’incarico di completare Turandot fu dato nel 1925 da Casa Ricordi a Franco Alfano, che peraltro si discostò molto dagli schizzi lasciati dal maestro, tra l’altro costruendo un finale, che richiede ai due interpreti di cimentarsi con una tessitura acutissima e di confrontarsi con un’ipertrofica orchestra. Così si opta generalmente per una versione ridotta. In ogni caso, non potremo mai sapere cosa intendesse Puccini con l’annotazione “Poi Tristano”, posta su un foglio di schizzi. Tornando alla concezione registica, Cecilia Ligorio vede nell’opera pucciniana la storia fiabesca del viaggio iniziatico di Calaf, a cui si intreccia quello della coppia Liù-Timur. Ma anche la crudele principessa dovrà affrontare, dopo l’incontro con Calaf, un suo percorso interiore verso il cambiamento. Anche le maschere – ognuna delle quali si confronta con i suo doppio bambino –sono, in questa messinscena che assegna loro particolare importanza, alla ricerca di una propria dimensione umana, nel momento in cui rimpiangono la “casa nell’Honan”, identificata con una vita da trascorrere serena, anziché al servizio di un potere violento. L’elemento fiabesco domina nelle scene – altamente metaforiche – poste da Alessia Colosso all’interno di una grande cornice di lacca blu, che delimita il regno della fiaba, della fantasia ed evoca la stessa Cina. Entro questa dimensione fantasmatica si agitano messaggi segreti, reconditi desideri, paure e sogni: così la luna diventa una grande sciabola che mozza il capo al Principino di Persia, le ombre dei defunti circondano Calaf e lo provocano, le stelle – una costellazione di lampadine – si spengono alla morte di Liù. Un impianto scenico, cui contribuisce con efficacia il disegno delle luci di Fabio Barettin, che privilegia la penombra finché, con la morte di Liù, alla fioca luce notturna subentra gradatamente quella del sole che sorge, e nel contempo i protagonisti assumono la loro propria identità. Originale la scelta di Simone Valsecchi, che – seguendo anche lui la logica dell’inconscio – ha disegnato costumi di varie fogge: ispirati a quelli delle popolazioni nomadi mongole (Calaf, Timur, Liù), desunti dalla tradizione cinese (Turandot, Altoum), di foggia contemporanea quelli per il popolo e il Mandarino, quest’ultimo munito anche di trench e ventriquattrore. La direzione musicale, Francesco Ivan Ciampa evidenzia – forse anche troppo – il ruolo estremamente suggestivo che Puccini assegna alle percussioni, nell’ambito di un potente organico orchestrale, tra l’altro, ispirato alle straussiane Salome ed Elektra. La sua lettura si caratterizza talora per un vigore esasperato di stampo espressionista, fin dal folgorante inizio in medias res – che ricorda l’incipit di Tosca –, il cui carattere sinistro è dovuto all’intervallo di quarta aumentata (tritòno), che intercorre tra la prima e la seconda cellula del tema. Ma il suo gesto direttoriale sa essere anche lieve nei momenti in cui l’orchestrazione diventa rarefatta come nella statica invocazione alla luna. Ne consegue un’interpretazione che restituisce tutta la modernità della partitura – dove, alla semplicità narrativa di una storia fiabesca, si contrappone un’indiscutibile ricchezza sinfonica –, immergendo il pubblico in una pluralità di stili e atmosfere, e nel contempo valorizzando la capacità – che solo Puccini aveva – di toccare immediatamente le corde dell’essere umano. Saioa Hernández è una principessa gelida ed altera: lo si è colto nel gesto come nell’uso della voce, particolarmente potente e corposa. Il soprano spagnolo ha brillato nell’ardua “In questa reggia”, affrontando agevolmente la tessitura siderale di questa pagina sublime. La sua Turandot è più incline ad un’espressività esasperata che alle espansioni liriche, nondimeno la sua “trasformazione” finale è apparsa abbastanza credibile, nonostante i problemi drammaturgici sopra accennati. Meno convincente il Calaf di Roberto Aronica , che ha manifestato qualche difficoltà con effetti sull’emissione – talora forzata – e sugli acuti – dal suono piuttosto aspro –, oltre che sulla capacità di prodursi in sfumature e sottigliezze interpretative, come si è constatato anche in “Nessun dorma”. Pienamente calata nella parte Selene Zanetti, che ci ha consegnato una Liù generosa ed eroica nel suo rinnegare se stessa per amore in antitesi all’egocentrismo della protagonista, imponendosi nelle sue due arie (“Signore, ascolta “ e “Tu, che di gel sei cinta”), nonostante qualche limitata défaillance. Ben timbrato e convincente nei panni di Timur Michele Pertusi. Affiatato nell’insieme, ma anche efficace nei singoli interventi, il Trio delle Maschere: Simone Alberghini (Ping), Valentino Buzza (Pang), Paolo Antognetti (Pong). Autorevole l’Altoum offerto da Marcello Nardis come il Mandarino di Armando Gabba. Ottima – per intonazione, coesione e fraseggio – la prestazione del Coro della Fenice e dei Piccoli Cantori Veneziani, rispettivamente istruiti da Alfonso Caiani e Diana D’Alessio. Applausi più che convinti a fine serata.