Roma, arrivano i “Monumenti Sonori”
Un viaggio musicale attraverso la storia, dove le note di Puccini, Morricone e Respighi trasformano l’architettura in un palcoscenico a cielo aperto.
Roma, 25 Ottobre 2024
“Ogni luogo racconta una storia” è il motto che ha inaugurato un’iniziativa straordinaria, trasformando alcuni dei siti più iconici di Roma in “testimoni sonori”. L’esperienza immersiva conduce i visitatori tra arte, musica e storia, in un viaggio che sembra annullare le barriere del tempo. Sei percorsi sonorizzati en plein air, distribuiti in alcuni luoghi simbolici della Capitale, creano un dialogo suggestivo tra le melodie scelte e l’essenza storica dei siti, un vero e proprio viaggio multisensoriale. La musica diventa la voce della storia, gli dà una nuova vita, la rende tangibile, risuona tra le pietre e le architetture secolari. Il progetto Monumenti Sonori è stato inaugurato al Portico d’Ottavia, nel cuore del Ghetto Ebraico. Alla cerimonia di apertura erano presenti Miguel Gotor, assessore alla Cultura di Roma Capitale, e Michele dall’Ongaro, presidente-sovrintendente dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Gli altri cinque monumenti coinvolti nell’iniziativa saranno rivelati nei prossimi mesi e il programma si estenderà fino a novembre 2025, con installazioni che interesseranno varie zone della città, dal Flaminio alla Magliana. Un sistema audio all’avanguardia, con altoparlanti integrati nell’ambiente, sfrutta le caratteristiche acustiche dei luoghi per creare un’esperienza sonora avvolgente, che permette di percepire ogni nota come se provenisse dalle stesse mura. L’innovativo l’“olofono”, sviluppato dal Centro Ricerche Musicali (Crm), orienta le emissioni sonore per creare spazi d’ascolto immersivi lungo il percorso. Le sonorità, così, sembrano emergere dagli ambienti stessi, la musica ti abbraccia e ti invita ad entrare. Il repertorio musicale scelto per “Monumenti Sonori” rende omaggio alla ricca tradizione musicale italiana, curato con maestria dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Tra i brani selezionati spiccano celebri capolavori come la Tosca di Giacomo Puccini, eseguita dall’Orchestra e dal Coro dell’Accademia, e i suggestivi poemi sinfonici di Ottorino Respighi, tra cui Pini di Roma, Feste romane e Fontane di Roma. Non mancano le emozionanti note del Love Theme composto da Andrea Morricone per la colonna sonora di Nuovo Cinema Paradiso, a cui si aggiungono le indimenticabili melodie di Ennio Morricone tratte dalla colonna sonora del film Mission. Il palcoscenico architettonico diventa in questo modo più che suggestivo e il visitatore non può che trovarsi sorprendentemente immerso in una sinfonia di emozioni. I percorsi sonorizzati sono accessibili gratuitamente, con due fasce orarie: dalle 11:00 alle 13:00 e dalle 16:00 alle 18:00. Le diverse condizioni di luce e atmosfera offrono esperienze variabili, permettendo di cogliere le sfumature sonore in modi sempre nuovi, sia sotto la luce del giorno che nella morbidezza del tramonto. Questa iniziativa rientra nel più ampio progetto “Roma Smart Tourism”, che mira a valorizzare la Capitale con approcci innovativi alla fruizione culturale. L’obiettivo è restituire voce ai luoghi storici di Roma, risvegliando l’interesse di visitatori, turisti e cittadini romani. E la buona riuscita del progetto è il risultato di una sinergia tra varie istituzioni. Ideato dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e coordinato dal Dipartimento alle Attività Culturali, ha visto la collaborazione della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e della Fondazione Cinema per Roma. La direzione artistica è stata affidata all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, supportata dal Centro Ricerche Musicali (Crm), che ha condotto un’approfondita indagine artistica e tecnica sui monumenti coinvolti. Il coordinamento organizzativo è stato curato da Zètema Progetto Cultura. Monumenti Sonori rappresenta un ponte tra passato e presente, tradizione e innovazione, promettendo di lasciare un’impronta indelebile nella percezione dei luoghi storici di Roma. Le maestose note musicali rinnovano il legame tra la città e le sue storie meno note, creando un racconto che si diffonde e rimane impresso nella memoria di chi lo vive. I luoghi si trasformano in scrigni di suoni che, pur confinati nello spazio, continuano a riecheggiare nel tempo, arricchendo il patrimonio culturale della Capitale e l’anima di chi li visita.
Piacenza, Teatro Municipale, Stagione Opera 2023/2024
“MOSÈ IN EGITTO”
Azione tragico-sacra in tre atti su libretto di Andrea Leone Tottola
Musica di Gioachino Rossini
Mosè MICHELE PERTUSI
Osiride DAVE MONACO
Amaltea MARIAM BATTISTELLI
Faraone ANDREA PELLEGRINI
Elcia AIDA PASCU
Amenofi ANGELA SCHISANO
Mambre ANDREA GALLI
Aronne MATTEO MEZZARO
Orchestra Filarmonica Italiana
Coro lirico di Modena
Direttore Giovanni Di Stefano
Maestro del Coro Giovanni Farina
Regia Pier Francesco Maestrini
Scene e video Nicolás Boni
Costumi Stefania Scaraggi
Luci Bruno Ciulli
Nuovo allestimento del Teatro Comunale Pavarotti-Freni di Modena in comproduzione con Teatro Municipale di Piacenza e Teatro Municipale Romolo Valli di Reggio Emilia
Piacenza, 28 ottobre 2024
Mosè in Emilia: inaugurata la stagione a Modena, riversato su YouTube da Opera Streaming, fa il suo trionfale ingresso a Piacenza. Dove il pubblico migliore del mondo lo attendeva in trepidante eccitazione: “stai attenta alla preghiera alla fine: sentirai!” raccomanda chi “a casa ho anche il disco”. Ma poi precisa: “io c’ho il Mosè, senza in Egitto, ma per il grosso la musica è la stessa”. Il musicologo e il rossinista storcano i loro nasi: la sintesi è di indubbia efficacia. Pubblico migliore del mondo (va bene: al netto delle caramelle), si diceva, perché gaudente, sincero, amante. E, come ogni amante che si rispetti, cieco. Cieco a certi inveterati vezzi della messa in scena, quali pugnali che per buone mezz’ore vanno minacciando ugole cantanti, o palmi di mano che si levano scattanti con tutti i ditini ben ritti e staccati. Per non dire del piè furtivo mosso dal corista che, col favor delle tenebre (e del light designer, qui Bruno Ciulli), si piazza in scena, bell’e pronto per il suo prossimo intervento, mentre solo qualche centimetro più avanti qualcuno sta ancora finendo la propria intima aria. Pier Francesco Maestrini ci mette, insomma, il solito mestiere e ne viene una narrazione piana se non piatta. L’impianto visivo di Nicolás Boni è piuttosto astuto: un fondale animato e un eterno tulle su cui la stessa immagine del fondale fa da quintatura. C’è qualche remoto richiamo al bozzettismo ottocentesco (tardo però, soprattutto la grotta), ma l’immagine digitale si tradisce subito e fa parecchio videogioco. Per inciso, il Mosè rossiniano è protagonista di una delle prime proiezioni in movimento sulla scena lirica: a tentarla fu niente meno che Nicola Benois, alla Scala, nel 1937. Giustamente il pubblico amante non si cura troppo di queste cose e va al sodo: le voci. Michele Pertusi brilla per la bellezza della linea del canto, lubrificata dal mezzo così pastoso e morbido che gli conosciamo. Già “Celeste man placata” è una delizia, e poi la famigerata preghiera, bissata a furor di popolo in un pianissimo smorzato, quasi fosse un “a sé”, una preghiera interiore, di grande effetto. Si difende da cotanto Mosè il Faraone di Andrea Pellegrini, giovane voce che abbiamo già ascoltato in tutti i ruoli di fianco possibili e immaginabili. Il timbro è molto bello, mostoso, e il cantante sensibilissimo all’accento, alla parola, alle intenzioni. Ma a stupire per varietà di colori, d’accenti, di dinamiche, in un fraseggio articolato, vario, cangiante, sfumato, iridescente (può bastare?) è l’Osiride di Dave Monaco, dal timbro fresco, limpido, etereo e solare. Accanto a lui l’Elcia di Aida Pascu, voce nerboruta dai centri solidissimi, qualche spigolosità la rivela negli acuti. Amaltea è Mariam Battistelli, bellissima nella sua armatura da guerriera spaziale (i costumi sono di Stefania Scaraggi), chiara fresca e dolce voce di lussureggiante giovinezza ma irrimediabilmente, anzi irresistibilmente “lezzera”. Nelle parti di fianco spicca l’Aronne sonoro netto e squillante di Matteo Mezzaro, accanto all’Amenofi avvolgente e scura di Angela Schisano, e al maligno Mambre di Andrea Galli. L’Orchestra Filarmonica Italiana diretta da Giovanni Di Stefano oscilla lodevolmente fra complicità cameristiche e turgori romantici, mentre il Coro lirico di Modena di Giovanni Farina scandisce con suono netto e compatto il protagonistico lignaggio del proprio ruolo. Lo spettacolo approderà ancora a Reggio Emilia il 15 e 17 novembre prossimi. Foto Rolando Paolo Guerzoni
Novara, Teatro C. Coccio, stagione d’opera 2024
“LA BENEDIZIONE”
Opera in un atto su libretto di Marco Malvaldi
Musica di Cristian Carrara
Buoso MARCELLO ROSIELLO
Zita FRANCESCA MERCURIALI
Gherardo XIAOSEN SU
Simone STEFANO PARADISO
Rinuccio NICOLA DI FILIPPO
Un frate EUGENIO DI LIETO
“GIANNI SCHICCHI”
Opera in un atto su libretto di Gioacchino Forzano
Musica di Giacomo Puccini
Giani Schicchi MARCELLO ROSIELLO
Lauretta BEATRICE CATERINO
Rinuccio NICOLA DI FILIPPO
Zita FRANCESCA MERCURIALI
Gherardo XIAOSEN SU
Nella ZI JING
Gherardino GIULIO ONGERI
Betto di Signa EUGENIO DI LIETO
Simone STEFANO PARADISO
Marco LORENZO LIBERALI
La Ciesca MARIATERESA FEDERICO
Maestro Spinelloccio/ Ser Amantio RANYI JIANG
Guccio ALBERTO PAROLA
Pinellino JESUS NOGUERA
Buoso Doati DANIELE GUIDA
Orchestra Bazzini Consort
Direttore Vittorio Parisi
Regia Teresa Gargano
Scene Lorenzo Mazzoletti
Costumi Silvia Lumes
Novara, 25 ottobre 2024
Spettacolo annuale del progetto AMO, la scuola di formazione per giovani cantanti portata avanti dal Teatro Coccia, questo dittico segue l’ormai consueta formula di affiancare un’opera di tradizione – quest’anno il ciclo delle farse rossiniane è stato interrotto da “Gianni Schicchi” all’interno delle celebrazioni pucciniane – a un nuovo lavoro introduttivo, appositamente commissionato e in qualche modo legato all’opera di repertorio. Questa volta l’obiettivo è stato pienamente raggiunto sul piano tematico essendo “La benedizione” con musiche di Cristian Carrara su libretto di Marco Malvaldi di fatto un prologo al “Gianni Schicchi” in cui si raccontano la morte di Buoso e le ragioni del testamento a favore dei Minori di Santa Reparata.
Teatralmente il nuovo lavoro funziona bene, è breve – poco più di mezz’ora di musica – e il libretto di Malvaldi con la sua ironia un po’ lugubre si fa decisamente apprezzare. La musica di Carrara è sostanzialmente tonale e d’impianto tradizionale. Lo scrittura orchestrale è di buona fattura e l’aspetto sinfonico non manca di colpire positivamente. latitano invece un maggior senso melodico e un maggior abbandono alla cantabilità, così che la parte vocale si riduce a un declamato teatralmente funzionale ma alla lunga fin troppo ripetitivo.
La parte musicale è stata affidata all’Orchestra Bazzini Consort, compagine bresciana formata da giovani musicisti e guidata per l’occasione da Vittorio Parisi. Si tratta di una formazione quasi amatoriale nata dall’iniziativa degli stessi strumentisti ma nel complesso capace di fornire una prestazione convincente con buona compattezza sonora e in cui si riconosce un notevole impegno. La direzione cerca soprattutto una quadratura complessiva dello spettacolo, sostenendo un cast d’interpreti alle prime armi e riuscendo a garantire una buona tenuta dell’insieme.
Lo spettacolo è una sorta di saggio per i ragazzi del progetto AMO e come tale deve essere considerato risultando evidente, da parte di tutti, una certa immaturità. Unico interprete di esperienza – e presenza abituale sulle scene novaresi – Marcello Rosiello fa un po’ da chioccia per il gruppo dei giovani impegnandosi nel doppio ruolo di Buoso e di Gianni Schicchi. La voce è solida anche se un po’ arida sul piano timbrico, la dizione però è ottima – fondamentale in parti di questo tipo – e il personaggio è ben colto, senza eccessi caricaturali e con una sobrietà complessiva che si apprezza sempre. Forse un accento più sfumato e cangiante non sarebbe stato sgradito ma la prova nel complesso è stata di convincente solidità. Alcuni cantanti partecipano a entrambe le opere. Eugenio di Lieto (un frate e Betto) ci è parso uno dei più solidi, con una buona voce di basso e una corretta linea vocale. Il Rinuccio di Nicola di Filippo ha una buona voce squillante e un’innegabile simpatia scenica però nello stornello è ancora un po’ generico e appare evidente una necessità di maturazione sia vocale sia interpretativa. Funzionale – soprattutto scenicamente – il Gherardo di Xiaosen Su. La Zita di Francesca Mercuriali manca purtroppo di un registro grave solido quale la parte richiede mentre il Simone di Stefano Paradiso non appare ancora centrato sufficientemente. Tra i cantanti presenti solo nel titolo pucciniano ci è parsa alquanto “acerba” la Lauretta di Beatrice Caterino mentre funzionano meglio – nella brevità delle loro parti – la Cesca di Mariateresa Federico e la Nella di Zi Jing. Di anonima correttezza gli altri. Lo spettacolo firmato da Teresa Gargano ha il merito di mantenere una forte coerenza tra le due opere unite dallo spazio scenico oltre che dal racconto. L’ambientazione è contemporanea – e in un’opera come lo Schicchi manca il medioevo di cui libretto e musica sono così profondamente impastati – con tinte fosche e caratterizzazioni grottesche, palese il riferimento a una certa cinematografia italiana – “Parenti, serpenti” di Monicelli su tutti. Si nota il lavoro di preparazione attoriale – tanto più importante con interpreti così giovani e inesperti – e nel complesso la parte visiva riesce a divertire. Le scene di Lorenzo Mazzoletti con il loro gusto un po’ gotico e le citazioni fiorentine non mancano di efficacia visiva, più anonimi i costumi di Silvia Lumes.
Rho (MI), Teatro Civico Roberto da Silva, Stagione 2024/25
“MADAMA BUTTERFLY”
Opera in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini
Cio-Cio-San DARIA MASIERO
Pinkerton GIUSEPPE DISTEFANO
Sharpless FRANCESCO LA GATTUTA
Goro GIACOMO LEONE
Suzuki CARLOTTA VICHI
Il Principe Yamadori YIMING GUO
Lo zio Bonzo GIACOMO PIERACCI
Kate Pinkerton BRONISŁAWA SOBIERAJSKA
Il Commissario Imperiale LIU ALL SONG HAO
Coro e Orchestra Filarmonica Italiana
Direttore Riccardo Bianchi
Maestro del coro Paolo Targa
Regia e Scene Stefano Monti
Costumi Desirée Costanzo e Allegra Montanelli
Movimenti mimici Monique Arnaud
Nuova produzione International Music and Arts in coproduzione con Teatro Civico Roberto De Silva, Fondazione “U. Artioli” Mantova Capitale Europea dello Spettacolo, Teatro Splendor Aosta
Rho (MI), 25 ottobre 2024
C’è una buona notizia al principio di questa recensione: il Comune di Rho, città metropolitana di Milano, per anni considerato il simbolo delle cosiddette “città-dormitorio“ fuori dal capoluogo meneghino, ha un nuovo teatro, bello, della giusta grandezza, con una buca per l’orchestra piccola ma molto profonda, in grado di ospitare compagini di una trentina di strumenti, e una acustica sorprendente; non solo: il Teatro Civico Roberto da Silva ha una stagione ricca, che comprende prosa di alto livello, musica sinfonica d’eccezione (quest’anno vi dirigeranno Pappano e Fasolis) e opera – non potevamo, dunque, farci scappare la loro prima, vera produzione, “Madama Butterfly”. Il dubbio che si tratti di una produzione di serie B viene immediatamente fugato dalla locandina, ove compaiono coro, orchestra, giovani artisti in carriera, e altre due realtà coproduttrici (il Teatro Splendor di Aosta e la Fondazione “U. Artioli” Mantova Capitale Europea dello Spettacolo di Mantova). La compagnia musicale vede senz’altro distinguersi il direttore d’orchestra, Riccardo Bianchi: la sua conduzione energica, senza dubbio personale, non tradisce tuttavia lo spirito più radicale, sofferto della partitura pucciniana; l’Orchestra Filarmonica Italiana, per l’occasione composta da trentuno elementi, non fa certo rimpiangere compagini più numerose, grazie a un suono potentemente coeso, ove senza dubbio spiccano gli archi; anche il rapporto con la scena è preciso e puntuale, e Bianchi si mostra sapiente mediatore tra rispetto filologico e convenzioni della concertazione. Il secondo astro della serata è Daria Masiero, esperta e apprezzata interprete del ruolo: la sua Butterfly è vocalmente morbida e tenace, passa con maestria dai filati più evanescenti al temperamento più passionale mettendo in evidenza un registro sempre brillante e una grazia smaltata e ardente allo stesso tempo, con una linea di canto sempre elegante. Accanto a lei ritroviamo la buona Carlotta Vichi nei panni di Suzuki, che abbiamo appena ascoltato a Savona nello stesso ruolo, riconferma il bel colore vocale, la solida tecnica, unite a un fraseggio accurato e a una efficace naturalezza scenica. Più alterno il Pinkerton d Giuseppe Distefano che mostra, almeno in questa occasione delle pecche nell’emissione con suoni sfocati o che risultano quasi metallici. Di conseguenza il fraseggio ne esce fortemente penalizzato. Complessivamente valida la prova di Francesco La Gattuta (Sharpless) soprattutto a partire dal secondo atto nel quale il baritono mostra una vocalità fresca e morbida. Di pregio il Goro di Giacomo Leone, soprattutto per la bellezza del colore vocale, oltre che per l’impegno profuso in scena. Nell’alveo della correttezza anche le altre performance: lo zio bonzo di Giacomo Pieratti, il Principe Yamadori di Yiming Guo, il Commissario Imperiale di Liu All Song Hao e la Kate Pinkerton di Bronisława Sobierajska, quest’ultima dalle screziature insolitamente e piacevolmente brunite. L’apporto del Coro è pure molto convincente – un plauso al maestro Paolo Targa –, mentre ci lascia più perplesso l’apparato scenico curato da Stefano Monti: la scelta è quella di un Giappone minimale, proiezioni sullo sfondo e tre grandi paraventi soli in scena, che vengono spostati, aperti e chiusi, per ricreare spazi diversi. Pur apprezzando questa idea, e anche la fattura degli oggetti di scena, troviamo le proiezioni alle spalle degli interpreti non solo di produzione scadente (sembrano una presentazione di PowerPoint), ma anche poco significative e dall’arbitrario valore artistico; anche un paio di trovate della regia non ci paiono persuasive – nella fattispecie: la presenza di un mimo silenzioso (Monique Arnaud) in abito tradizionale che durante alcune scene compare per danzare, o muovere oggetti, non sempre in maniera godibile, mai in maniera comprensibile per il pubblico; e l’uso di proiezioni dietro i paraventi, belle e di tradizione, ma che, ad esempio, anticipano al pubblico la presenza del piccolo Dolore (che, invece, molto presumibilmente, negli intenti originali dovrebbe rappresentare il colpo di scena del secondo atto). Inoltre la regia in quanto tale è troppo statica rispetto alla ricchissima drammaturgia musicale di Puccini: spesso i cantanti sono immobili, si osservano, a volte aspettano chiaramente di cantare, ma la cosa forse più stonata è il chiarissimo disagio durante il duetto d’amore del primo atto, in cui Pinkerton e Cio-Cio-San a malapena si toccano (in barba ai vari “Sei mia” e “Ti tengo”), cantandosi semplicemente addosso in maniera un po’ straniante. Insomma, la netta sensazione è che la regia sia composta di elementi slegati tra di loro, senza tener del giusto conto di ciò che Giacosa e Illica, ma soprattutto Puccini, hanno lasciato scritto.
Venezia, Festival “Passione violoncello”, 21 settembre-24 ottobre 2024
“IL TEMPO RITROVATO”
Violoncello Miriam Prandi
Pianoforte Gabriele Carcano
Claude Debussy: Sonate pour violoncelle et piano en ré mineur; Nadia Boulanger: Trois Pièces pour violoncelle et piano; César Franck: Sonate pour violon et piano en la majeur (transcrite pour violoncelle et piano)
Venezia, 24 ottobre 2024
Non poteva concludersi in un modo migliore il mirabolante viaggio virtuale alla scoperta del violoncello, iniziato il 21 settembre, su iniziativa del Centre de Musique Romantique Française, nella sontuosa sala capitolare della Scuola Grande di San Giovanni Evangelista e proseguito nella deliziosa sala dei concerti del Palazzetto Bru Zane. L’ultimo concerto, infatti, si è svolto all’insegna della finezza interpretativa e della padronanza tecnica, del puro piacere estetico e dell’emozionata partecipazione del pubblico. Complici i due solisti, entrambi italiani, già affermatisi nel panorama internazionale, nonostante la loro ancora giovane età – Miriam Prandi al violoncello e Gabriele Carcano al pianoforte –, che hanno mirabilmente interpretato tre composizioni di indubbio fascino: La Sonata per violoncello e pianoforte di Claude Debussy, i Tre pezzi per violoncello e pianoforte di Nadia Boulanger, una trascrizione per violoncello e pianoforte della celebre Sonata per violino e pianoforte di César Franck. E proprio a quest’ultima si riferisce il rimando proustiano contenuto nel titolo, assegnato all’evento di cui trattiamo: è possibile, infatti, che Proust pensasse proprio al capolavoro del compositore belga, quando nella Recherche si riferisce all’enigmatica quanto immaginaria “Sonata di Vinteuil”, contenente la “petite phrase”, che Swann associa – ogni qual volta la sente – all’amata Odette. Nella realtà storica la Sonata di Franck lasciò un’impronta duratura sulla musica francese a cavallo tra Otto e Novecento. Nadia Boulanger, che nasce nello stesso anno della prima esecuzione parigina della Sonata, raccoglie il retaggio di Franck, ma è anche interessata alla rivoluzione di Debussy, che ha segnato un punto di svolta nella Francia musicale di inizio secolo. Questa dunque la ratio sottesa ai pezzi in programma nella serata, che il duo Prandi-Carcano ha eseguito, tra l’altro, con grande sensibilità e adeguatezza stilistica.
Veramente notevole la prestazione offerta da Miriam Prandi, che si è segnalata per la bellezza del suono, l’eleganza del fraseggio, la varietà degli accenti, ora ruvidi e perentori ora delicati e sognanti, oltre che per la perfetta concentrazione dimostrata durante ogni esecuzione, quasi che l’artista si estraniasse completamente dalla vita reale per immergersi in una dimensione, nella quale ogni sua fibra vibrava insieme allo strumento, cassa di risonanza del suo profondo sentire. Assolutamente encomiabile anche Gabriele Carcano, che ha dimostrato un’analoga capacità di immedesimarsi totalmente nella musica, facendosi apprezzare per l’estrema sensibilità e la profonda partecipazione, con cui ha interagito con la violoncellista, grazie anche ad un sicuro dominio della tastiera, da cui ha saputo trarre una ricchezza di colori e di accenti, davvero straordinaria. In un’aura notturna, lunare ci ha immerso la Sonata di Debussy – che l’autore voleva inizialmente intitolare “Pierrot faché avec la Lune” –, di cui si è pienamente apprezzato il colore armonico, prevalente in questo pezzo sulle linee melodiche. Molto espressivo, tra contrasti e sfumature, il dialogo tra i due strumenti: nel perentorio Prologo, che termina con con un diafano suono armonico del violoncello; nella Serenata, dove alla sognante linea melodica del violoncello il pianoforte ha contrapposto secchi accordi di chitarra stilizzata; nell’animato Finale concluso da una una strappata del violoncello e un secco accordo del pianoforte. Analogamente variegata l’espressività nei Tre pezzi di Nadia Boulanger: estatico il primo, dolcemente malinconico il secondo, dionisiaco il terzo. Strepitosa l’esecuzione della Sonata di Franck, trascritta per violoncello e pianoforte: un arrangiamento – verosimilmente quello realizzato da Jules Desart – molto fedele all’originale, che lascia intatta la parte del pianoforte e traspone quella del violino all’ottava inferiore solo quando risulta opportuno. Espressivo il pianoforte in apertura del primo movimento, Allegretto ben moderato, con i suoi pacati accordi introduttivi, prima che, alla quinta battuta, entrasse il violoncello con un leggiadro tema dal caratteristico andamento altalenante, il cui nucleo, rielaborato, sarebbe ritornato ciclicamente in tutta la sonata; un secondo tema dai toni quasi supplichevoli è stato poi introdotto dal pianoforte, dopodiché alcune modulazioni hanno rasserenato il clima espressivo, fino alla coda dolce e cullante. Emotivamente intenso, pervaso da accenti palpitanti, a volte drammatici – che ricordano il Quintetto in fa minore –, è risultato il secondo movimento, Allegro, aperto dagli arpeggi del pianoforte, da cui è emerso il primo tema, che si richiama all’idea ciclica, poi ripreso dal violoncello; una seconda idea tematica, triste e desolata, essa pure derivata dall’idea generatrice, ha rappresentato, in questo movimento turbinoso, una fase distensiva, consentendo al violoncello, cui era affidata, di mettersi in luce sopra arpeggi in terzine del pianoforte; successivamente sono riaffiorati, tramite brevi richiami, i temi precedenti, prima dell’impetuosa chiusura tra arpeggi e trilli dei due strumenti. Originale per concezione e struttura, il terzo movimento, Recitativo-Fantasia – altamente lirico e misterioso, nonché caratterizzato da passaggi a varie tonalità –, si è aperto con un lungo recitativo magnificamente eseguito dal violoncello, intervallato dal tema ciclico espresso con pari efficacia dal pianoforte, prima della comparsa di un nuovo tema, dapprima tranquillo, poi via via più drammatico e più volte elaborato, che si sarebbe poi ripresentato nel movimento successivo; più oltre la forte carica espressiva si è stemperata nel pianissimo che ha chiuso il movimento. Introdotto da un disegno imitativo, il quarto movimento, Allegretto poco mosso – che si sviluppa con un procedimento a canone, di cui César Franck è grande maestro – ha visto l’alternarsi di episodi e ritornello, via via riproposti in tonalità differenti, oltre al riapparire del tema presentato per la prima volta nel terzo tempo così come dell’idea tematica principale, prima della brillante chiusura, animata dai trilli del violoncello. Scrosciati applausi alla fine, placati da un bis: il Largo dalla Sonata per violoncello e pianoforte di Chopin, in cui il violoncello ha sfoggiato una serie di piano a dir poco sublimi.
Mache dich, mein Geist, bereit BWV 115 è la seconda delle tre Cantate bachiane giunte a noi e destinate alla ventiduesima domenica dopo la Trinità. Eseguita per la prima volta a Lipsia il 5 novembre 1724, questa partitura ha alla base l’inno omonimo di Johann Burchard Freystein (1671-1718) un importante esponente della vita sociale di Dresda, consigliere di Corte e di Giustizia. L’inno che costituisce un invito a tenersi sempre pronti ad invocare il soccorso Divino e a respingere le tentazioni di Satana in vista del giudizio finale è costruito in 10 strofe musicate nel 1655, da Johann Rosenmüller (1615-1684) uno dei collaboratori di Tobias Michael (1592-1657) Thomaskantor a Lipsia dal 1647 al 1655. Apparentemente il testo sembra avere rapporti con le letture evangeliche, ma in realtà il lied vuole cogliere il messaggio che punta a voler impetrare il perdono Divino. Su questo stimolante invito, Bach costruisce un altro dei suoi capolavori, l’ennesima vetta in un panorama che pare non conoscere limiti ne pecche. La Fantasia su Corale che apre la partitura, nonostante la sua brevità, è articolata in modo assai complesso, un perfetto esempio di quella concisione, eleganza e ricercatezza che Bach sa profondere a piene mani in ogni momento. Le due arie con “da capo” in un andamento “Adagio” e “Molto Adagio” evitano la monotonia espressiva mediante di precisi colorismi strumentali. La prima aria (nr.2) per contralto impiega l’oboe d’amore e gli archi, in un tempo di “Siciliana”, affiancandosi alla tipologia delle melodrammatiche “arie del sonno”, sostenuta dalle regolari pulsazioni del Continuo, con una particolare attenzione delle differenziazioni dei piani e dei pesi sonori, nonché delle pause che gli interrogativi del testo suggeriscono. La seconda aria (Nr.4) per soprano, impone un impegnativo “tour de force” contrappuntistico al flauto e al violoncello piccolo. La lentezza dell’accompagnamento viene compensata dal fluttuante e fluido dipanarsi del motivo melodico.
Nr.1 – Coro
Preparati, anima mia,
veglia, implora e prega
che il momento del Male non arrivi
su di te all’improvviso;
poiché
l’astuzia di Satana
sa indurre i giusti
in tentazione.
Nr.2 – Aria (Contralto)
O anima addormentata, come? Dormi ancora?
Svegliati subito!
Il giudizio potrebbe coglierti all’improvviso
e, se tu non ti svegli,
potrebbe avvolgerti nel sonno della morte eterna.
Nr.3 – Recitativo (Basso)
Dio, che veglia sulla tua anima,
detesta la notte del peccato;
ti invia la sua luce di grazia
ed in cambio dei suoi doni,
che ti ha abbondantemente promesso,
desidera che tu apra gli occhi dello spirito.
Non c’è limite all’astuzia di Satana
per sedurre i peccatori;
se tu stesso ora spezzi il patto di grazia
non avrai più il soccorso.
Il mondo intero ed i suoi componenti
non sono altro che falsi fratelli;
eppure la tua carne ed il tuo sangue
cercano le loro lusinghe.
Nr.4 – Aria su Corale (Soprano)
Prega allora
finchè sei sveglia!
Per la tua grande colpa implora
la pietà del tuo Giudice,
affinchè ti liberi dal peccato
e ti purifichi!
Nr.5 – Recitativo (Tenore)
Egli si commuove per i tuoi pianti,
volge ad essi le sue orecchie benigne;
se i nemici gioiscono delle nostre sventure,
noi vinceremo grazie al suo potere:
poiché suo Figlio, che noi preghiamo,
crea in noi coraggio e forza
e verrà in nostro soccorso.
Nr.6 – Corale
Allora dobbiamo sempre
vegliare, implorare, pregare,
poiché paura, angoscia, pericolo
si avvicinano sempre di più;
ma non è lontano
il momento in cui
Dio ci giudicherà
distruggendo il mondo.
Traduzione Emanuele Antonacci
Roma, Accademia Nazionale di San Luca
ALIGHIERO E BOETTI. RADDOPPIARE DIMEZZANDO
La mostra Alighiero e Boetti. Raddoppiare dimezzando ha ormai aperto le sue porte al pubblico presso l’Accademia Nazionale di San Luca, offrendo un’occasione unica per esplorare l’opera di uno degli artisti più rivoluzionari del XX secolo. Curata da Marco Tirelli e ideata insieme a Caterina Boetti, la mostra rappresenta non solo un tributo, ma un dialogo intimo e profondo con l’eredità di Alighiero Boetti, nel trentennale della sua scomparsa. Il percorso espositivo si snoda attraverso gli spazi suggestivi di Palazzo Carpegna, con le opere collocate nel Salone d’Onore, nella Sala bianca e sotto il porticato borrominiano. Le scelte curatoriali di Marco Tirelli, noto per la sua capacità di creare atmosfere sospese e meditative, hanno saputo esaltare la complessità dell’opera di Boetti, mettendo in rilievo i temi centrali della sua ricerca: il doppio, la moltiplicazione e la frammentazione. Nelle sale, si percepisce un silenzio denso di significato, che avvolge il visitatore in un dialogo visivo con le opere. Tra i lavori esposti, le famose Mappe di Boetti catturano l’attenzione con la loro maestosità: i confini del mondo sono ridisegnati attraverso ricami colorati, che raccontano non solo una geografia politica, ma una riflessione profonda sull’idea di identità e appartenenza. La moltiplicazione dei segni e delle bandiere diventa simbolo di un mondo frammentato, dove l’individualità si scontra con la globalità. Uno degli aspetti più affascinanti della mostra è la sua capacità di far dialogare le opere con l’architettura del Palazzo. Nel porticato borrominiano, i lavori di Boetti si fondono con la luce naturale, creando un gioco di ombre che amplifica il concetto di raddoppiare dimezzando. La presenza fisica delle opere, che si espande nello spazio, riflette quel senso di crescita organica che caratterizza tutta la produzione dell’artista. Come sottolinea Marco Tirelli, “nessuna opera di Alighiero si esaurisce in sé stessa; apre sempre a un altro senso, a nuove interpretazioni”. La curatela di Tirelli, supportata dalla profonda conoscenza dell’opera del padre da parte di Caterina Boetti, offre al visitatore una lettura sfaccettata e raffinata, dove la potenza concettuale di Boetti è valorizzata attraverso un allestimento che ne esalta la poeticità e la profondità filosofica. La mostra non si limita a esporre opere, ma diventa un’esperienza immersiva, in cui lo spettatore è invitato a riflettere sul rapporto tra l’uno e il molteplice, tra l’ordine e il caos. L’inaugurazione ha segnato un momento di grande partecipazione culturale, con critici e appassionati d’arte che hanno elogiato la coerenza e l’eleganza della mostra. La scelta di esporre opere simboliche come le Mappe, accanto a lavori meno noti ma altrettanto emblematici del percorso di Boetti, dimostra un approccio curatoriale che guarda alla totalità dell’opera dell’artista, senza limitarla a categorie o periodi storici. Con Raddoppiare dimezzando, la mostra non solo celebra la memoria di Alighiero Boetti, ma offre una chiave di lettura contemporanea del suo pensiero, capace di interrogare lo spettatore sulle sfide del presente. Attraverso le opere, emerge la forza innovativa di un artista che ha saputo giocare con i confini dell’arte, della geometria e della filosofia, lasciando un’impronta indelebile nella storia culturale. L’installazione, tra rigore concettuale e vibrante poesia, si presenta così come una delle più significative manifestazioni artistiche dell’anno, un invito a scoprire (o riscoprire) l’universo di Alighiero Boetti con uno sguardo nuovo, capace di cogliere le infinite sfaccettature del suo pensiero.
Roma, Teatro Ambra Jovinelli
SANGHENAPULE
Vita straordinaria di San Gennaro
testo e drammaturgia Roberto Saviano e Mimmo Borrelli
regia Mimmo Borrelli
con Roberto Saviano e Mimmo Borrelli
musiche, esecuzione ed elettronica Gianluca Catuogno e Antonio Della Ragione
scene Luigi Ferrigno
costumi Enzo Pirozzi
luci Salvatore Palladino
sound design Alessio Foglia
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Roma, 25 Ottobre 2024
Roberto Saviano e Mimmo Borrelli presentano “Sanghenapule. Vita straordinaria di San Gennaro”, un’opera densa di pathos che disvela la Napoli più profonda, quella delle periferie marginali e dei segreti sepolti sotto la sua superficie. Il testo, scaturito dalla collaborazione tra Saviano e Borrelli, esplora la città nelle sue intrinseche contraddizioni: un locus di brutalità e speranza, che si dipana sul palcoscenico attraverso una drammaturgia pervasa di tensione e di poesia oscura. Napoli è una città che vive in un equilibrio precario tra il sacro e il profano, un luogo in cui la bellezza coesiste con la tragedia, e la storia si intreccia con il mito. È una polis di fuoco e sangue, ove il Vesuvio si erge come un guardiano silente e minaccioso, emblema della forza primordiale che la contraddistingue. Napoli è un mosaico di storie ataviche, di personaggi che si muovono nei vicoli angusti, di preghiere sussurrate e di grida disperate. La sua anima si alimenta di contrasti: la devozione religiosa si interseca con la violenza della strada, l’opulenza barocca dei suoi edifici storici con la povertà che serpeggia nei suoi quartieri popolari. È un luogo in cui ogni pietra reca il racconto di resistenza e sopravvivenza, in cui il folklore diventa atto di sfida alla sofferenza quotidiana. In questo spettacolo, che intreccia narrazione e poesia, Borrelli e Saviano conducono lo spettatore nel cuore incandescente di Napoli, dove convivono mistero e contraddizione. Attraverso un linguaggio denso di forza espressiva, i due attori ripercorrono le tappe di una storia che si snoda in equilibrio fra il sacro e il profano, tra il mondo celeste e quello sotterraneo. Il tema del sangue diviene il filo conduttore che lega la narrazione, dalle antiche storie di martiri sino al presente, evocando la sofferenza e la resistenza di una città che lotta incessantemente contro l’oppressione. È il sangue che si scioglie ogni anno in segno di speranza; è il sangue dei martiri della fede e dei “martiri laici” della Repubblica Partenopea, che nel tardo Settecento tentò di contrapporsi all’oppressione borbonica; è l’emorragia dei migranti che lasciarono Napoli nei primi decenni del Novecento, in cerca di un futuro migliore; è il sangue degli innocenti falciati dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale e delle vittime della camorra. La regia di Mimmo Borrelli è rigorosa ed essenziale, volta a cogliere la forza primordiale del testo senza concessioni al superfluo. Borrelli modella la scena come un’incudine su cui forgiare l’anima di Napoli, scandendo il ritmo con cambi repentini e pause che divengono respiri profondi, indispensabili per immergersi nell’abisso della città. Ogni dettaglio della regia mira a scuotere lo spettatore, costringendolo a confrontarsi con la crudezza della realtà napoletana, in un percorso che lo conduce nei vicoli bui e senza tregua di una città che ride e sanguina, vive e muore. La trama si dipana attraverso narrazioni intime e confessioni, esplorando una Napoli percorsa da contrasti e popolata da un’umanità dolente. Saviano e Borrelli danno voce a personaggi che si dibattono tra miseria e speranza, con una presenza scenica carismatica e densa di pathos. Saviano, con la sua parola acuminata e tagliente, si fa testimone delle storie di dolore e resistenza; Borrelli, con la sua voce potente e una gestualità evocativa, dà corpo al dolore e alla rabbia di Napoli, in una performance che rasenta il rituale, carica di autenticità e di una forza ancestrale. La scenografia di Luigi Ferrigno è ridotta all’essenziale: pochi elementi suggeriscono una Napoli oscura, fatta di vicoli angusti e di interni modesti, con il Vesuvio che incombe sullo sfondo come un monito perenne. I costumi di Enzo Pirozzi rievocano l’iconografia tradizionale in modo sobrio ed efficace, mentre le luci di Salvatore Palladino creano atmosfere crude e drammatiche, evidenziando la precarietà di una città sospesa fra speranza e dannazione. Le luci fredde, particolarmente nei momenti di violenza, acuiscono il senso di smarrimento e l’urgenza di sopravvivere. La musica, curata ed eseguita da Gianluca Catuogno e Antonio Della Ragione, accompagna la narrazione con un tessuto sonoro che coniuga sonorità elettroniche e ritmi tradizionali napoletani. La colonna sonora si intreccia alla recitazione, creando un dialogo costante tra le voci degli attori e la musica, amplificando la tensione emotiva e rendendo la narrazione ancora più viscerale. Il sound design di Alessio Foglia avvolge lo spettatore in un ambiente sonoro che lo trascina in una Napoli sospesa tra mito e realtà. “Sanghenapule” è uno spettacolo che non può lasciare indifferenti, che invita alla riflessione sulla realtà di Napoli e, per estensione, sull’Italia intera. Saviano e Borrelli, con una onestà disarmante, portano sul palco una città fatta di vicoli oscuri, di esistenze spezzate, e di una speranza che non smette di resistere. Il teatro diviene luogo di denuncia e riflessione, ma anche di possibile rinascita: un altare su cui sacrificare l’indifferenza e accendere una fiamma di consapevolezza. Un’opera di intensa potenza, che si imprime nell’animo come un marchio indelebile, un grido disperato che non può essere ignorato. Il pubblico ha applaudito con entusiasmo e grande partecipazione, dimostrando di aver colto e apprezzato l’intensità e la profondità dello spettacolo. Napoli, con la sua storia di oppressioni e lotte, diviene un simbolo universale di resistenza e di umanità, invitando ciascuno di noi a non arrendersi mai di fronte alle difficoltà e a cercare una redenzione collettiva attraverso la solidarietà e la consapevolezza. Photocredit©LorenzoCevaVall
Pompei, Parco Archeologico
DAGLI SCAVI IN CORSO NELL’INSULA DEI CASTI AMANTI UN NUOVO ESEMPIO DI CASA SENZA ATRIO RICCAMENTE DECORATA
Gli inglesi le chiamerebbero “Tiny House”: piccole case autonome, dalle dimensioni ridotte ma in questo caso, dalle decorazioni estremamente raffinate. È il caso di una tra le più recenti unità abitative emerse nel corso delle indagini in atto nel cantiere dell’Insula dei casti Amanti, nel quartiere centrale della città antica di Pompei, lungo Via dell’Abbondanza. Una casa dallo spazio ristretto, senza il tradizionale atrio. Una particolarità considerato che, nonostante le ridotte dimensioni della dimora, non sarebbe stato impossibile l’inserimento di un piccolo atrio con la classica vasca (impluvio) per la raccolta dell’acqua piovana, tipico nell’architettura delle ricche dimore pompeiane, e che invece in questo caso è assente. Una scelta probabilmente da mettere in relazione con i mutamenti che stavano attraversando la società romana, e pompeiana nello specifico, nel corso del I secolo d.C. e che questo rinvenimento consente di studiare e approfondire. Un primo inquadramento scientifico è riportato nell’ultimo articolo della rivista scientifica digitale del Parco https://pompeiisites.org/e-journal-degli-scavi-di-pompei/. L’abitazione colpisce per l’alto livello delle decorazioni parietali, che non ha nulla da invidiare alla più grande e ricca casa dei Pittori al Lavoro, con la quale confina. Grazie al ritrovamento di un affresco ben conservato, rappresentante il mito di Ippolito e Fedra, la si è denominata provvisoriamente Casa di Fedra. I due ambienti attualmente oggetto di indagini si trovano nella parte retrostante dell’abitazione. Nel primo, oltre al quadretto mitologico con Ippolito e Fedra, le pareti splendidamente decorate in IV stile mostrano altre scene tratte dal repertorio dei miti classici: una rappresentazione di un symplegma (amplesso) tra satiro e ninfa, un quadretto con coppia divina, forse Venere e Adone, nonché una scena, purtroppo danneggiata dalle esplorazioni borboniche, in cui probabilmente si può riconoscere un Giudizio di Paride. Una finestra, a fianco al quadretto con Ippolito e Fedra, si apre su un piccolo cortile, dove al momento dell’eruzione erano in corso lavori edilizi, caratterizzato all’ingresso dalla presenza di un piccolo larario (altare domestico) con una ricca decorazione dipinta a motivi vegetali e animali su fondo bianco. Il cortile è dotato di una zona coperta che precede una grande vasca con le pareti dipinte di rosso. Intorno correva una canaletta, che consentiva di convogliare l’acqua piovana verso l’imbocco di un pozzo collegato con una cisterna sottostante. Nella decorazione del larario campeggia nella parte alta un rapace in volo, probabilmente un’aquila, che regge fra gli artigli un ramo di palma, e nella parte inferiore la scena principale composta da due serpenti affrontati, che incorniciano un altare con fusto circolare e scanalato su cui si dispongono le offerte. Si riconoscono da sinistra: la pigna, un elemento sopraelevato che sostiene un uovo, quelli che sembrerebbero essere un fico e un dattero. A riempire il fondo della scena due arbusti con foglie lanceolate e bacche gialle e rosse su cui si muovono tre passeri. All’interno della nicchia sono statti rinvenuti gli oggetti rituali, lasciati con l’ultima offerta prima dell’eruzione del 79 d.C che distrusse Pompei: un bruciaprofumi in ceramica acroma con lacune antiche e una lucerna, entrambi con evidenti tracce di bruciato. Le analisi di laboratorio hanno consentito di individuare resti di rametti di essenze odorose, mentre due parti di un fico essiccato sono state recuperate alle spalle dei due oggetti. Sul piano dell’altare sono stati ritrovati, inoltre, due listelli in marmi colorati e un terzo elemento, presumibilmente in marmo rosso, con una raffigurazione di un volto riconducibile alla sfera dionisiaca, probabilmente un sileno. Infine, nella parte anteriore dell’altare si sono individuati una base quadrangolare e modanata in marmo, con un alloggio centrale e sulla sinistra un coltello in ferro il cui manico termina con gancio ad occhiello per la sospensione. Il cantiere in corso presso l’Insula dei casti amanti è oggetto di un complesso progetto- diviso in due lotti differenti – che ha previsto diverse fasi, di cui alcune già conclusesi e che hanno permesso di rendere possibile la fruizione al pubblico del complesso, attraverso un sistema di passerelle sopraelevate. Le diverse fasi hanno interessato: la verifica, progettazione e realizzazione della nuova copertura; gli scavi archeologici; la riprofilatura dei fronti di scavo; la messa in sicurezza degli elevati murari; il restauro delle superfici e degli elementi archeologici. Attualmente, gli archeologi del Parco stanno operando nel settore nord-est dell’isolato, all’interno di una serie di ambienti con accesso dal vicolo orientale. L’apporto delle indagini in corso sta permettendo di definire sempre più precisamente la sistemazione planimetrica dell’Insula, tanto da consentire di individuare questa nuova unità abitativa. “È un esempio di archeologia pubblica o, come preferisco chiamarla, archeologia circolare: conservazione, ricerca, gestione, accessibilità e fruizione formano un circuito virtuoso – dichiara il Direttore del Parco, Gabriel Zuchtriegel – Scavare e restaurare sotto gli occhi dei visitatori, ma anche pubblicare i dati online sul nostro e-journal e sulla piattaforma open.pompeiisites.org significa restituire alla società che finanzia le nostre attività tramite biglietti, tasse e sponsorizzazioni la piena trasparenza di ciò che facciamo, non per il bene di una ristretta cerchia di studiosi, ma per tutti. L’archeologia deve essere di tutti perché solo così creeremo comprensione verso gli archeologi che lavorano in tutta Italia sui cantieri nell’ambito della cosiddetta archeologia preventiva. Se il cantiere della metro o di una strada ritarda a causa di rinvenimenti archeologici, visitare Pompei e osservare il lavoro di archeologi e restauratori può aiutarci a capire perché vale la pena documentare e salvaguardare le tracce delle generazioni che hanno vissuto prima di noi.” Poche settimane fa anche Alberto Angela e’ tornato nell’Insula dei Casti Amanti per realizzare un servizio su questi nuovi ambienti. Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, il servizio andrà in onda in versione integrale su Raiuno sabato 26 ottobre alle 15,05 circa nella trasmissione Passaggio a Nord Ovest.
Roma, Sala Umberto
BUONASERA A TUTTI
al 24 Ottobre al 27 Ottobre 2024
al pianoforte il M° Luca Urciuolo
produzione Tradizione e turismo – centro di produzione teatrale | Teatro Sannazaro | Ag Spettacoli
Regia di Francesco Esposito
Roma, 24 Ottobre 2024
Peppe Barra, uno degli interpreti più iconici e rappresentativi del panorama teatrale italiano, incarna in maniera straordinariamente autentica e raffinata la tradizione scenica napoletana, di cui è un emblema vivente. La sua opera è caratterizzata da un costante processo di risemantizzazione e attualizzazione di uno dei patrimoni teatrali più ricchi e complessi del nostro Paese. Nato e cresciuto tra Napoli e Procida, Barra ha dedicato la sua vita all’arte, affermandosi come uno dei massimi esponenti del teatro partenopeo, nel quale elementi popolari e colti si fondono in una sintesi polifonica, dove musica, poesia e drammaturgia si intrecciano in una tessitura drammatica densa e inestricabile. La sua carriera si è sviluppata nel solco della continuità con le radici popolari del teatro napoletano, rievocando le maschere, i miti e le narrazioni che appartengono alla tradizione della sua città, ma rinnovandoli e reinterpretandoli attraverso un approccio sempre personale e innovativo. Peppe Barra è stato una figura chiave nella Nuova Compagnia di Canto Popolare, insieme alla madre Concetta Barra, e ha contribuito a portare la cultura napoletana ben oltre i confini regionali, facendosi ambasciatore di un linguaggio artistico capace di parlare al pubblico nazionale e internazionale, rendendo tangibile la potenza evocativa di una tradizione secolare. Il disordine e la follia sono caratteristiche fondanti dell’arte di Peppe Barra, ma si tratta di un disordine sapientemente orchestrato, una follia consapevole che rivela la sua maestria artistica e la capacità di trasmettere emozioni profonde e poliedriche. Nel suo teatro, la dimensione biografica si intreccia indissolubilmente con quella dell’opera: i ricordi dell’infanzia si fondono con le prime cantate, le prime adesioni a quel mondo fiabesco che rappresenta il clima ideale per Barra, tingendo ogni avvenimento di una qualità affabulatoria e mitopoietica. Dalle lezioni di dizione della maestra, ai momenti di struggente lirismo delle canzoni napoletane, Peppe Barra ha saputo navigare tra il dolore e l’allegria, dalla sofferenza più profonda alla risata più sfrenata. Questo universo artistico, appreso dalla madre Concetta Barra, con la quale ha condiviso per anni la scena, si è arricchito ulteriormente nel momento in cui è diventato l’unico responsabile della propria arte, facendone un percorso unico e inimitabile. In “Buonasera a tutti“, lo spettacolo in scena al Teatro Sala Umberto Peppe Barra si trasfigura in una pluralità di creature magiche, ciascuna caratterizzata da una cifra interpretativa unica, con costumi che spaziano tra il fulgore scintillante e l’austerità delle vesti nere, offrendo allo spettatore un’esperienza caleidoscopica di significati e sensazioni. Il canto è spesso enigmatico, rifacendosi a un napoletano arcaico, fino a giungere a Giambattista Basile, di cui Barra racconta la favola de “La scortecata“. Qui, egli assume i toni del narratore fiabesco, capace di riportare lo spettatore in un’atmosfera di meraviglia e stupore continuo. La maschera di Pulcinella, a cui Barra è particolarmente legato, fa capolino con la sua voce profonda e misteriosa, evocando l’essenza stessa della Commedia dell’Arte. Con la regia di Francesco Esposito e l’accompagnamento musicale del Maestro Luca Urciuolo, il recital si presenta come una profonda meditazione sulla carriera di sessant’anni di Peppe Barra che con la sua esperienza e raffinatezza interpretativa, riesce a instaurare un rapporto di complicità e partecipazione con gli spettatori, facendosi interprete di un vissuto artistico che si intreccia intimamente con il patrimonio culturale partenopeo. Alterna momenti di esilarante comicità a passaggi di intensa introspezione, utilizzando una gamma espressiva che si estende dal grottesco al lirico, dal comico al tragico, in una policromia di registri e tonalità. L’atmosfera generata tra il palco e la platea è intenzionalmente intima e informale, eppure intrisa di una ritualità teatrale che rende il rapporto con il pubblico un elemento costitutivo dell’azione scenica. Barra dà vita a uno scambio vivace e affettuoso, un dialogo che attinge a riferimenti culturali e simbolici profondi, capace di coinvolgere e divertire grazie alla capacità di alternare, con maestria, toni leggeri e momenti di profondo lirismo. La sua voce – che spazia dai registri più gravi a quelli più acuti – diviene uno strumento duttile, un mezzo per esplorare le molteplici sfumature della cultura napoletana, in cui il colto e il popolare si fondono in una continua osmosi. L’approccio teatrale di Barra è stato spesso definito come “le mille e una resurrezione dell’animo partenopeo“, per la capacità di combinare tradizione e innovazione, attraversando generi e stili diversi, dalla musica barocca alla tradizione popolare, passando per il cabaret, il varietà e la poesia di autori come Basile, Petito e Viviani. Ma è soprattutto nel condurre gli spettatori al delirio collettivo che Peppe Barra eccelle: un canto che si fa disperato e beffardo, allegro e tragico, in cui il coinvolgimento del pubblico diventa parte integrante della performance, e la risposta è sempre entusiasta. L’essenza delle sue interpretazioni non risiede tanto nel significato delle parole, quanto nel modo in cui esse vengono pronunciate: l’espressione dei sentimenti si manifesta attraverso diverse modalità vocali che, oltre al significato letterale, trasmettono un senso profondo del dire, la propria vocazione artistica, passando dal gioco infantile alla risata grottesca, dal canto romantico alla violenza di un personaggio improvvisamente evocato per scacciare quelli più lacrimevoli. Il Maestro Luca Urciuolo accompagna con sensibilità i capricci vocali e scenici di Peppe Barra, che passa agilmente da un registro all’altro, manifestando non solo la propria abilità ma anche quella del Maestro, capace di trasformare il pianoforte in un vero e proprio co- protagonista della scena. Tra i due si instaura una complicità profonda, che soddisfa il gusto dell’improvvisazione e del concertare in base alla risposta di un pubblico entusiasta. Alla fine dello spettacolo, gli spettatori si alzano in piedi in un tripudio di applausi, eliminando quella barriera tra platea e palcoscenico che si dissolve quando il successo è totale.
Roma, Parco Archeologico del Colosseo
GOBEKLITEPE: L’ENIGMA DI UN LUOGO SACRO
Roma, 24 Ottobre 2024
L’installazione “Göbeklitepe: L’enigma di un luogo sacro”, attualmente ospitata nelle maestose arcate del Colosseo, si propone di offrire al pubblico una rappresentazione del celebre sito anatolico, uno dei più antichi e affascinanti testimoni delle origini della civiltà umana. Malgrado l’intento dichiarato sia quello di creare un’esperienza immersiva e accessibile, l’iniziativa evidenzia alcuni limiti che, dal punto di vista tecnico e archeologico, ne attenuano la capacità di trasmettere appieno la complessità e il valore storico del luogo originario. Le riproduzioni in truciolare sagomato delle iconiche colonne monolitiche e le tre sculture, anch’esse in copia, pur risultando evocative, non riescono a restituire integralmente la potenza simbolica e la maestosità delle strutture originarie. La mancanza di una ricostruzione in scala o di una rappresentazione fedele dell’intero complesso conferisce all’allestimento un carattere frammentario, che finisce per limitare la comprensione della vera grandiosità del sito archeologico di Göbeklitepe. L’esposizione si articola attraverso una serie di pannelli didattici, fotografie ad alta risoluzione e la proiezione di un documentario realizzato da National Geographic. Questa combinazione di elementi multimediali genera un’esperienza visivamente suggestiva, ma priva di quel contatto diretto con i manufatti storici che è imprescindibile per una fruizione museale di profondo valore culturale e scientifico. Il visitatore è guidato lungo un percorso narrativo ricco di dettagli, ma che risente inevitabilmente dell’assenza della materia originaria, dell’autenticità tangibile che solo il contatto diretto con gli artefatti può garantire. La potenza evocativa delle riproduzioni non è sufficiente a trasmettere la dimensione spirituale e culturale di un sito come Göbeklitepe, la cui straordinarietà risiede non soltanto nella sua antichità, ma nella capacità di suscitare domande sul senso del sacro nelle comunità umane primordiali. Oggi, grazie alle tecnologie digitali più avanzate, è possibile esplorare virtualmente siti archeologici con un livello di dettaglio e interattività straordinario. Questo pone un interrogativo sulla reale necessità di un’installazione come questa per avvicinarsi al significato profondo di Göbeklitepe. Le esperienze immersive offerte dalla realtà virtuale e aumentata, facilmente fruibili da casa, consentono di scoprire i tesori dell’archeologia in modi che erano impensabili fino a pochi anni fa. Di fronte a tali possibilità, un allestimento che non prevede il contatto diretto con la materia originale e si basa esclusivamente su riproduzioni e materiali multimediali rischia di risultare superfluo o, per lo meno, non all’altezza delle aspettative di un pubblico più esigente e desideroso di autenticità. L’accostamento tra la monumentalità del Colosseo e l’importanza archeologica di Göbeklitepe aggiunge indubbiamente fascino all’iniziativa, creando un dialogo simbolico tra due epoche lontane ma fondamentali per la storia umana. Tuttavia, tale parallelo rischia di apparire forzato se non supportato da un’esperienza espositiva più approfondita e scientificamente rigorosa. Mentre il Colosseo offre una testimonianza tangibile e imponente della grandezza dell’Impero Romano, l’installazione di Göbeklitepe, priva di reperti originali e di una ricostruzione fedele, non riesce a trasmettere con la stessa efficacia la maestosità e il mistero del sito anatolico. Le riproduzioni, pur accuratamente realizzate, non possiedono quella patina del tempo che conferisce ai reperti archeologici una dimensione emozionale e una profondità storica uniche. Questo progetto potrebbe essere interpretato forse come un gesto di avvicinamento politico e culturale tra Italia e Turchia, volto a rafforzare i legami diplomatici attraverso la valorizzazione reciproca dei rispettivi patrimoni storici, ma non altro. L’orientamento verso il marketing culturale e la spettacolarizzazione sembra prevalere sull’approfondimento scientifico e archeologico, limitando l’efficacia dell’iniziativa nel trasmettere la vera essenza di Göbeklitepe. In un contesto così ricco di significati e suggestioni, sarebbe stato auspicabile un approccio più rispettoso della complessità e della specificità del sito, capace di valorizzarne l’unicità senza ricorrere a semplificazioni o scorciatoie scenografiche. L’iniziativa, pur animata da intenti nobili, risente della mancanza di un contatto diretto con i reperti originali e di una ricostruzione accurata del sito, limitando così la sua capacità di trasmettere la complessità e il fascino di Göbeklitepe. L’effetto complessivo è quello di un’operazione più orientata alla spettacolarizzazione che alla vera comprensione del contesto archeologico, un’occasione mancata per raccontare con rigore e profondità uno dei luoghi più enigmatici e affascinanti della storia dell’umanità.
Pavia, Teatro Fraschini, Stagione 2024/25
“LA BOHÈME”
Opera lirica in quattro quadri su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini
Mimì MARIA NOVELLA MALFATTI
Musetta FAN ZHOU
Rodolfo VINCENZO SPINELLI
Marcello JUNHYEOK PARK
Schaunard DAVIDE PERONI
Colline GABRIELE VALSECCHI
Benoît/Alcindoro ALFONSO CIULLA
Parpignol ERMES NIZZARDO
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Coro di OperaLombardia
Coro delle Voci Bianche del Teatro Sociale di Como
Direttore Riccardo Bisatti
Maestro del Coro e del Coro delle Voci Bianche Massimo Fiocchi Malaspina
Regia e costumi Marialuisa Bafunno
Scene Eleonora Peronetti
Coreografie Emanuele Rosa
Luci Gianni Bertoli
Nuovo allestimento in coproduzione Teatri di OperaLombardia, Fondazione Teatro Regio di Parma e Fondazione I Teatri di Reggio Emilia
Pavia, 20 ottobre 2024
La stagione di OperaLombardia 2024/25 non poteva aprirsi che con un’opera di Puccini, visto il centenario in corso: la scelta è caduta su un grande classico, “La Bohème“, per la messa in scena del quale si è ricorsi a una selezione tra progetti under 35, e probabilmente qui risiede l’origine dei limiti di questa stessa produzione. È chiaro, infatti, che questa “Bohème“ presenti alcuni problemi strutturali; il primo di essi è proprio quel tipo di regia che siamo soliti definire “delle trovate“, cioè una sequela di situazioni e siparietti di per sé non legati a un chiaro progetto generale, né necessari a una migliore ricezione dell’opera. Si è voluta mettere in scena una “Bohème“ contemporanea, e per questo si è pensato di trasformare Colline in un militante ambientalista, Schaunard in un performer omosessuale, Marcello in un creatore di urban stencil, e Rodolfo? Non si capisce, giacché i fogli del dramma iniziale che brucerà piovono dal cielo, e quando all’inizio del quarto quadro dovrebbe scrivere, in realtà raccoglie spazzatura, così noi non vediamo mai il giovane scrittore, ma solo uno che vivacchia in una soffitta con i suoi amici; questa scelta sarebbe interessante qualora la regia avesse voluto indagare i simboli del contemporaneo portando in scena i loro significati, invece Marialuisa Bafunno preferisce lasciare tutto in superficie, un po’ come la scelta di porre all’inizio e durante tutto il dramma il personaggio del vecchio Rodolfo che ricorda la vicenda (perché, se poi non interviene, non scrive, non apporta nulla all’opera?), o quella di trasformare il momento del Tamburo maggiore in una coreografia di gruppo stile TikTok, senza una ragione, senza un legame col resto, solo per perseguire un’estetica – che, peraltro, nemmeno appaga lo sguardo, poiché se le scene di Eleonora Peronetti sono perlomeno interessanti nella costruzione degli spazi, i costumi della stessa Bafunno sono alquanto banali, un po’ anni 90, un po’ anni 70, con un abuso evidente di paillettes e, anch’essi, senza alcuna visione d’insieme. Eppure, la parte peggiore di questa produzione non è la regia in quanto tale, che presenta perlomeno nel lavoro sui personaggi e i cantanti alcune scenette anche godibili (soprattutto grazie alle coreografie di Emanuele Rosa nel secondo atto), ma il disegno delle luci, a cura di Gianni Bertoli: alla ricerca di effetti arditi, suggestioni interiori e forse innovazioni, le luci sono perlopiù date a caso, lasciando spesso i cantanti in piena ombra nel cantare i loro pezzi iconici, mentre inquadrano angoli vuoti, parti del coro inattive in quel momento, altri interpreti che stanno in silenzio (ci riferiamo perlomeno alla romanza di Mimì del primo quadro, al valzer di Musetta del secondo, al duetto del terzo): questa “sperimentazione“ ci è parsa incomprensibile, oltre che irrispettosa sia del pubblico che dell’artista in scena. Per fortuna, l’apparato musicale ci ha regalato performance complessivamente positive, a cominciare dalla direzione di Riccardo Bisatti che ha saputo in tutti i momenti dell’opera, anche i più complessi, mantenere una bella armonia tra cavea e scena, oltreché mettere in luce con prudenza tutti i leitmotiv presenti, rendendo giustizia alla partitura con una concertazione partecipe sul piano espressivo. Vincenzo Spinelli è un Rodolfo corretto, forse un po’ leggero, ma almeno ci è parso sicuro nell’intonazione e nel registro acuto e con un fraseggio particolarmente efficace nei passi più squisitamente sentimentali; accanto a lui brilla Maria Novella Malfatti, soprano lirico pieno, dalla vocalità ben proiettata, con suoni tondi e piacevolmente pastosi; unico aspetto non del tutto convincente della sua prova, la cantante ci è parsa un po’ troppo “vigorosa”, faticando a cesellare un fraseggio adeguato al momento drammatico. Spicca anche la bella vocalità autenticamente baritonale del giovane Junhyeok Park, dal suono caldo, avvolgente, omogeneo nell’emissione rendendo così il suo Marcello un vero secondo protagonista (come in effetti era nelle “Scènes de la Vie de Bohème” di Henry Murger). Corretta, ma davvero “leggera” nel registro, e piuttosto generica nel fraseggio, la prova di Fan Zhou (Musetta); rutilante, sonoro e molto coinvolto scenicamente lo Schaunard di Davide Peroni, mentre forse ancora acerbo il Colline di Gabriele Valsecchi, che compensa con buona propensione scenica un’interpretazione tutto sommato bidimensionale, anche nell’arioso della “vecchia zimarra“. Infine, inaspettatamente piacevole, ben scandito e fraseggiato il Benoît di Alfonso Ciulla. Certamente soddisfacente la performance del Coro di OperaLombardia, coeso e presente alla scena, e anche le Voci Bianche del Teatro Sociale di Como si sono distinte per chiarezza dell’eloquio e omogeneità del suono (un plauso al maestro Massimo Fiocchi Malaspina, istruttore di entrambe le compagini). Crediamo tuttavia che un simile giovane cast, che ha fornito una prova complessiva tanto buona, avrebbe meritato una messa in scena che partecipasse della grande bellezza di questa musica, e non tentasse di sabotarla nel nome di una ridicola pretesa di modernità. Foto Andrea Butti
Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera 2024-2025 ‒ Manon Manon Manon
MANON
Opera in cinque atti e sei quadri. Libretto di Henry Meilhac e Philippe Gille dal romanzo Histoire du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut di Antoine François Prévost
Musica di Jules Massenet
Manon Lescaut EKATERINA BAKANOVA
Lescaut BJŐRN BŰRGER
Il Cavaliere Des Grieux ATALLA AYAN
Il Conte Des Grieux ROBERTO SCANDIUZZI
Guillot de Morfontaine THOMAS MORRIS
Monsieur de Brétigny ALLEN BOXER
L’Oste YOANN DUBRUQUE
Poussette OLIVIA DORAY Javotte MARIE KALININE
Rosette LILIA ISTRATII Il Locandiere YOANN DUBRUQUE Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Evelino Pidò
Maestro del Coro Ulisse Trabacchin
Regia Arnaud Bernard
Scene Alessandro Camera
Costumi Carla Ricotti
Luci Fiammetta Baldiserri
Assistente di Regia Stephen Taylor
Nuovo allestimento Teatro Regio Torino
Torino, 20 ottobre 2024
Il trittico Manon, messo in scena in quest’Ottobre 2024 dal Teatro Regio di Torino, si esalta e, forse, pure si danna nel bianco-grigio-nero delle scene e dei costumi, rispettivamente di Alessandro Camera e di Carla Ricotti e nelle inserzioni di pellicole d’antan, volute dal Regista Arnaud Bernard. Questa volta è a una pellicola con la bellissima, impudica e non proprio signorile Bardot, BiBi per il volgo, ad essere intercalata, con relativi dialoghi francesi, all’opera. Bianca-bianca la chioma della diva, bionda-bionda la fluente ed esagerata parrucca imposta all’incolpevole, come si dice per il portiere che si becca un gol, Ekaterina Bakanova. Fortunatamente le calcolatissime inserzioni degli spezzoni di pellicola non giungono fino al deprecabile annullamento della musica che abbiamo dovuto subire nel finale della Lescaut di Puccini. Inutili sempre, ma esenti da killeraggio. Le luci di Fiammetta Baldisseri sono eccellenti nel dar corpo alla bella scenografia, bipartita in orizzontale, che campeggia in tutta la recita. Si coglie poi l’indubbio pregio della scena che, chiudendo verso il fondo, riflette verso la platea le voci che possono così godere dell’apprezzabile positivo sostegno purtroppo mancato nell’opera di Puccini. I primi tre atti, fino al duetto di Saint Sulpice, scorrono meravigliosamente. Il Coro del Teatro Regio, guidato da Ulisse Tabacchin, a tratti, nella confusione della scena, risulta vociante, forse per tema che, per gli scalpiccii dell’andirivieni, non venga ben sentito. La festa e il passeggio di Cours la Reine, a confermare l’ambientazione anni’60-70 della Bardot, sono stati metamorfizzati, assai positivamente, in un defilé di toilettes Balenciaga. Begli abiti, bellissime indossatrici per l’entusiasmo del pubblico, non solo femminile. Massenet mantiene nel quarto atto, in cui l’afflato poetico ha una parentesi, una sua specificità descrittiva che il regista realizza ambientandolo in un bar di stazione tra convenuti forse eccezionalmente eleganti per il luogo e l’occasione. Atto finale, in ospedale, trespolo da fleboclisi, lettino e suora infermiera. È il logico seguito della scena del film in cui BB, in carcere, coi polsi sanguinati, muore dissanguata. Massenet sopperisce a una certa stanchezza musicale con l’aiuto di “temi conduttori” alla Wagner. Ci risentiamo tutte le melodie strappalacrime dell’opera e la malanconia e il rimpianto si prendono gradatamente e poeticamente il sopravvento. Con una lettura consapevole e mai smancerosa, controllata ed efficace, attenta alle esigenze del canto e della scena, il Maestro Evelino Pidò sigla il successo della produzione. Ekaterina Bakanova, la protagonista, sopperisce a qualche limite negli acuti e nella coloratura, con un timbro che ben rispecchia il carattere anche umbratile del personaggio, come nell’iniziale “Je suis encor tuot étourdie…” che testimonia lo sgomento del primo viaggio. Anche la Petite table si fa apprezzare per il perfetto taglio da parigine feuilles mortes. Non forza ed è assai elegante nella Gavotte dell’atto 3°. Altrettanto efficace nella seduzione della mano nel duetto di Saint Sulpice. Il tenore brasiliano Atalla Ayan ha voce che forse più si adatterebbe al Des Grieux di Puccini che a questo, poco eroico, di Massenet. I centri son robusti e ben timbrati, non pervenute le mezze-voci e velocemente sfiorati gli acuti. Il Sogno, forse perché l’artista vi ha messo molto studio e moltissimo impegno è risultato apprezzabile ed esente da gravi mancanze. Certo i colori sono pochi e così il fascino scarseggia. Björn Bürger disbriga con buona professionalità la parte di Lescaut; formidabile per capacità attoriali e querulo al giusto con la voce il Guillot de Morfontaine di Thomas Morris, freddato dal colpo di pistola da una Manon esasperata e vendicativa. Con esiti vocalmente alterni sia il Monsieur de Brétigny di Allen Boxer che il Conte Des Grieux di Roberto Scandiuzzi, ambedue con formidabili doti attoriali e di tenuta della scena. Yoann Dubruque, l’Oste e Locandiere e le meravigliose Poussette Olivia Doray, Javotte Marie Kalinine e Rosette Lilia Istratii completano felicemente la locandina. Come per tutte le altre recite di questo “Trittico Manon” a cui abbiamo assistito, il pubblico, pur intervenuto con molta moderazione, ha sonoramente apprezzato la recita e gli interpreti. Grandissimi gli applausi poi, per la Signora Bakanova e per il Maestro Pidò.
Parma, Teatro Regio, Festival Verdi 2024
“LA BATTAGLIA DI LEGNANO”
Opera in quattro atti su libretto di Salvadore Cammarano da La Bataille de Toulouse di Joseph Méry
Musica di Giuseppe Verdi
Federico Barbarossa RICCARDO FASSI
Lida MARINA REBEKA
Arrigo ANTONIO POLI
Rolando VLADIMIR STOYANOV
Marcovaldo ALESSIO VERNA
Il Podestà di Como / I Console di Milano EMIL ABDULLAIEV*
II Console BO YANG*
Imelda ARLENE MIATTO ALBELDAS*
Uno Scudiero di Arrigo/ Un Araldo ANZOR PILIA*
*Allievi e già allievi dell’Accademia Verdiana
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Diego Ceretta
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Valentina Carrasco
Scene Margherita Palli
Costumi Silvia Aymonino
Luci Marco Filibeck
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma in coproduzione con Teatro Comunale di Bologna
Parma, 20 ottobre 2024
“…sprona il suo possente cavallo fiammingo, il quale nitrendo, lacerato nei fianchi si rizza sulle coscie e batte colle ferrate zampe del davanti sul tavolato del Carroccio”: il soggetto è Federico, il Barbarossa, e l’autore è Felice Govean, patriota torinese ideatore della fortunata raccolta “Libri per il popolo”, che come forse si può dedurre dal frammento citato consiste di narrazioni piuttosto melodrammatiche e, ovviamente, in chiave propagandistica risorgimentale di gloriosi episodî dalla storia patria. E magari, chi sa?, proprio da qui è guizzata l’intuizione di Valentina Carrasco che ha voluto centrare la sua Battaglia di Legnano sul cavallo, da sempre simbolo e vittima di ogni battaglia che si rispetti. L’onesto patriota piemontese non rientra tuttavia fra le letture del grande Cammarano. Che riesce, da Napoli, a convincere un Verdi tutto ubriacato dell’aria di Parigi e ormai quasi seccato dalla storia del contratto col San Carlo, ad accettare un intreccio tratto della pièce di Méry (sì, uno dei futuri librettisti del Don Carlos) La bataille de Toulouse, ou Un amour espagnol; intreccio che già gli era servito per il donizettiano Poliuto (ma che ai napoletani era nuovo, essendo stato il Poliuto affondato dalla censura borbonica). Quindi siamo alla consueta ricetta: l’intreccio sentimentale, da condirsi poi con uno sfondo storico. Ma Verdi ha in mente uno spettacolo di parigine proporzioni, a lui pare che “se non vi è qualche cosa di grandioso, di spettacoloso manchi sempre qualche cosa” e poi, per carità, senza l’amore: “perché sempre far l’amore come perno di tutti i drammi?”. Cammarano ci resta male: “ed io credeva che l’introduzione, il giuramento dei cavalieri della morte, e tutto l’intiero ultimo atto, da me aggiunto, potessero essere a quelle passioni ciò ch’è un bel fondo alle figure d’un quadro”. Illuso: Verdi vuole le figure sullo sfondo e lo sfondo in primo piano. Quindi piuttosto parigina e sperimentale come opera di propaganda risorgimentale italiana. E tutto questo per arrivare a dire: ma perché questo titolo così ricco, così carico d’idee non ci piace, né è piaciuto granché dopo le primissime esecuzioni (in cui l’entusiasmo era tale che il quarto atto veniva replicato per intero)? Difficile trovare una risposta razionale. Soprattutto se si esce dal Teatro Regio dopo averlo ascoltato nella splendida, consapevole, cesellata (aggettivo normalmente rifuggito, ma qui è il caso di farvi ricorso) direzione di Diego Ceretta. Tanto per citare un momento solo: che cosa vien su dalla buca, dove a sedere è l’ottima orchestra del Teatro Comunale di Bologna, mentre Arrigo si appresta a scrivere alla madre! E come non pensare, di poi, alla Luisa, alla Violetta, alle loro lettere? Protagonista assoluto è il Coro, il sempre sia lodato Coro del Comunale di Bologna diretto da Gea Garatti Ansini che stupisce ogni volta per compattezza, volume, rotondità, bellezza del suono. E poi l’ovazionata Marina Rebeka, con quello strumento avvolgente, brillante, sensuale, carnoso, voce che corre: corre, raggiunge e conquista. Bizzarramente orbato dell’applauso alla sua prima aria, invece, ma ben ricompensato dopo, l’Arrigo di Antonio Poli: vocalmente centrato, saldo e sicuro, dalla voce robusta e piena, tratteggia un eroe sensibile e umano. Vladimir Stoyanov è una vecchia certezza che con Parma e con il Festival ha una consuetudine particolarmente affettuosa, e sembra prendere molto sul serio la pacata raffinatezza di Ceretta che nel suo cantabile vede il germe del Di Provenza: sicché di gran trasporti guerrieri non se ne sentono. In generale, la recita non è attraversata da un gran turbine d’energia, di vitalità. Come invece ce ne mette Riccardo Fassi nel suo ahinoi troppo breve intervento come Barbarossa: voce più unica che rara di autentico basso, e gloriosa per volume, timbro, morbidezza, vigoria, una delizia che lascia appagati. A completare dignitosamente il cast l’affidabile Alessio Verna nel ruolo del delatore Marcovaldo e la squillante Imelda di Arlene Miatto Albeldas. Ancora, nei ruoli di fianco, i bravi Allievi e già dell’Accademia Verdiana. Dell’allestimento si accennava all’inizio. È sicuramente condivisibile l’idea del cavallo: se non altro perché serve su un piatto d’argento materiale di prima teatralità a Margherita Palli, che difatti riesce, complici anche le luci di Marco Filibeck, a trarne un intero spettacolo. Del resto il cavallo, e una ronconiana come lei lo sa meglio di chiunque altro, è sempre portentoso a teatro. Poi però, andando oltre il cavallo, la regia sembra abbandonare i cantanti ai tipici tic attoriali da cantante lirico. E, forse, anche la povera Silvia Aymonino, che per le divise militari in particolare è imbattibile, è stata lasciata nella difficoltà di non poter sciogliere l’imbarazzo temporale voluto dalla regia. Foto Roberto Ricci
Savona, Teatro Chiabrera – Opera Giocosa, Stagione Lirica 2024
“MADAMA BUTTERFLY”
Opera in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini
Cio-Cio-San CLARISSA COSTANZO
Pinkerton DAVID ESTEBAN
Sharpless PAOLO INGRASCIOTTA
Goro RAFFAELE FEO
Suzuki CARLOTTA VICHI
Lo zio Bonzo YONGHENG DONG
Il principe Yamadori WOOSEOK CHOI
Kate Pinkerton VALENTINA DELL’AVERSANA
Il Commissario Imperiale RZA KHOSROVZADE
L’Ufficiale del Registro RICCARDO MONTEMEZZI
Orchestra Sinfonica di Savona
Coro del Teatro dell’Opera Giocosa
Direttore Cesare Della Sciucca
Maestro del coro Gianluca Ascheri
Regia Renata Scotto ripresa da Renato Bonajuto
Scene Laura Marocchino
Costumi Artemio Cabassi
Luci Andrea Tocchio
Coproduzione con la Fondazione Teatro delle Muse di Ancona e con la Fondazione Rete Lirica delle Marche
Savona, 18 ottobre 2024
Molto saggiamente l’Opera Giocosa di Savona ripropone nel centenario pucciniano la messa in scena che Renata Scotto aveva realizzato nel 2017, con l’assistenza di Renato Bonajuto: si tratta infatti di una produzione piuttosto tradizionale, ma che nelle sue linee pulite, nella sua semplicità funziona sempre e non sembra avvertire i segni del tempo. Le scene di Laura Marocchino ricreano davvero una casa dalle pareti di carta di riso, ove pochi mobili semplicissimi rimangono ai margini di uno spazio vuoto, in cui la dimensione decorativa è più importante di quella d’uso; i costumi di Artemio Cabassi, per quanto tradizionali, non soggiacciono al peso di una ricostruzione filologica, ma trovano le linee sinuose e tinte unite di un oriente forse immaginario, trasognato; le luci sono saggiamente governate da Andrea Tocchio, che gioca con elementi interni (la luna, la luce del cielo, la cornice decorata che inquadra il boccascena) e illuminazione esterna, ricreando atmosfere rarefatte spesso cariche di sentimento. La regia in quanto tale è molto rispettosa del libretto, e si prende solo qualche piccola, innocente libertà: nessun dramaturg vi ha messo mano, ed è così tranquillizzante sapere che nessuna trovata dell’ultimo minuto interferirà nella parabola di amore, abbandono e morte di Cho-Cho-San; una regia che è evidentemente frutto della mente di una cantante, ma che non per questo si rivela noiosa, anzi: è quasi consolatorio riscoprire il leggero brivido di sapere già cosa avverrà e come. Sul piano musicale, invece, le sorprese non mancano, a partire dalla direzione del giovane Cesare della Sciucca: dotato di un gesto morigerato e di una singolare visione d’insieme, mette in luce soprattutto i momenti più patetici, senza per questo sottrarre energia e slanci epici all’orchestra. Altra piacevole sorpresa è David Esteban (Pinkerton): sebbene forse più adatto a ruoli meno drammatici, il tenore ha sfoggiato acuti efficaci e buona tecnica anche nel sostegno dei centri; belli anche il fraseggio, ben cesellato, e la padronanza della linea di canto. Decisamente riuscito anche il Goro di Raffaele Feo, che sorprende per la naturalezza del suo canto ma anche la resa scenica è attenta e partecipe, distante da certi Goro macchiettistici. Carlotta Vichi è una navigata Suzuki, e fa proprio della consapevolezza del ruolo la sua cifra interpretativa, ponderata, ben sonora senza essere esagerata: una prova, la sua, ricca di dignità e nobiltà nel porgere. Complimenti anche a Paolo Ingrasciotta, che debutta qui uno Sharpless elegantissimo, intenso, in cui sfoggia tutte le mezzetinte del suo importante mezzo vocale – sua, senza dubbio, la performance migliore. Abbiamo lasciato per ultima la protagonista perchè ci ha lasciati un po’ perplessi. Clarissa Costanzo, una Cio-Cio-San per lo meno opinabile: il primo atto è del tutto frainteso nell’emissione e nel fraseggio, e talvolta anche nell’intonazione; dal secondo si profila una Butterfly certamente pregevole, ma spesso più voluminosa che piacevole; “Un bel dì” è interpretato con qualche impaccio, molto meglio “Tu piccolo iddio” e il duetto con Suzuki, ove il fraseggio si plasma sulla linea di canto con l’abilità che la Costanzo ha saputo mostrare in altri ruoli; la sensazione è che il soprano napoletano sia un po’ troppo “spinto” per questo ruolo, considerata anche la natura spiccatamente “Falcon” del suo registro vocale. Infine non possiamo non citare la puntuale prova del coro del Teatro dell’Opera Giocosa, diretto da Gianluca Ascheri, che sia dalla scena (nel primo atto), che dalle quinte (nel celebre “A bocca chiusa” fra secondo e terzo) ha saputo creare una sensibile cornice alla vicenda, contribuendo in modo determinante alla riuscita della serata. Foto Luigi Cerati
Ancona, Teatro delle Muse “Franco Corelli”
NABUCCO
La Stagione Lirica di Ancona 2024 al Teatro delle Muse “Franco Corelli” si apre venerdì 25 ottobre alle ore 20.30 con replica domenica 27 ottobre alle ore 16.30 con Nabucco dramma lirico in quattro parti di Temistocle Solera, musica di Giuseppe Verdi, direttore György Győriványi Ráth, regia Mariano Bauduin, scene e luci Lucio Diana, costumi Stefania Cempini. Il cast include alcuni tra gli artisti più interessanti della nuova generazione di cantanti verdiani: protagonista è il baritono Ernesto Petti che interpreta Nabucco – appena reduce dal successo di Macbeth al Festival Verdi al Regio Parma -, Abigaille è interpretata da Rebeka Lokar, Zaccaria Nicola Ulivieri, Ismaele Alessandro Scotto Di Luzio, Fenena Irene Savignano, Gran Sacerdote è Andrea Tabili, Antonella Granata è Anna, Abdallo è Luigi Morassi. Sul podio della FORM-Orchestra Filarmonica Marchigiana sarà il maestro György Győriványi Ráth – già Sovrintendente e Direttore musicale dell’Opera di Stato Ungherese di Budapest – uno dei più autorevoli interpreti dell’opera italiana nei teatri internazionali. Il Coro Lirico “Vincenzo Bellini” di Ancona è diretto dal Maestro Francesco Calzolaro. Presente in palcoscenico l’Orchestra di Fiati di Ancona. La produzione è un nuovo allestimento della Fondazione Teatro delle Muse. Una serie di incontri con il pubblico e con le scuole farà da introduzione ai titoli in programma. Per Nabucco è prevista l’anteprima giovani mercoledì 23 ottobre alle ore 18.00 per le scuole secondarie e gli studenti dell’Università Politecnica delle Marche preceduta venerdì 18 ottobre da un incontro con il direttore artistico della Stagione Lirica Vincenzo De Vivo alle ore 15.00 al Ridotto del Teatro delle Muse seguito da una visione delle prove. Le anteprime giovani sono nate in collaborazione con L’Ufficio Regionale Scolastico e l’Università Politecnica delle Marche. Come di consueto la domenica precedente il debutto, quindi domenica 20 ottobre alle ore 11.00 al Ridotto del Teatro ci sarà la guida all’opera, gratuita, aperta alla città, a cura del critico musicale Fabio Brisighelli. Info: biglietteria Teatro delle Muse 071 52525 biglietteria@teatrodellemuse.org Vendita on line su www.vivaticket.com La Fondazione Teatro delle Muse è sostenuta da: Socio Fondatore: Comune di Ancona / Con il contributo di: Ministero della Cultura, Regione Marche, Fondazione Cariverona / Con il sostegno di: Associazione Palchettisti del Teatro delle Muse, Gli Amici del Teatro delle Muse / In collaborazione con Marche Teatro. Art Bonus: Luciana Mosconi / Con il patrocinio di Rai Marche.
Roma, Scuderie del Quirinale
GUERCINO. L’ERA LUDOVISI A ROMA
Guercino torna a Roma in una celebrazione trionfale dell’arte del Seicento, con la mostra “Guercino. L’era Ludovisi a Roma”, alle Scuderie del Quirinale dal 31 ottobre 2024 al 26 gennaio 2025. Un appuntamento imperdibile che vede protagonisti due giganti della storia dell’arte e del potere romano: Giovanni Francesco Barbieri, meglio noto come Guercino, e la dinastia Ludovisi, personificata dal cardinal Ludovico e dal suo influente zio Alessandro Ludovisi, Papa Gregorio XV. Il percorso espositivo si sviluppa come un racconto avvincente del breve ma significativo papato Ludovisi (1621-1623), una parentesi luminosa tra le grandi dinastie dei Borghese e dei Barberini, spesso trascurata dagli studiosi ma cruciale per la storia dell’arte romana. Proprio in questi anni, il giovane Guercino trovò a Roma un’opportunità unica per affermarsi, accendendo la sua ispirazione grazie alla raffinata committenza di Papa Gregorio XV. In mostra emergono i segni distintivi di un’epoca che ha gettato le basi per i successivi sviluppi artistici del Barocco. L’esposizione offre una visione d’insieme di un periodo storico in cui l’arte e la politica erano profondamente intrecciate. I Ludovisi, sulla scia delle altre potenti famiglie romane, crearono la loro villa emblematica, Villa Ludovisi, e collezionarono opere che spaziavano dall’antichità all’arte contemporanea del Cinquecento, arricchendo Roma con pezzi straordinari e con una visione artistica innovativa. La comunità artistica che ruotava attorno alla corte Ludovisi comprendeva nomi come Guido Reni, Domenichino, Lanfranco, i Carracci, Pietro da Cortona, Van Dyck, Poussin e persino Bernini. La mostra alle Scuderie mette in luce queste interazioni, presentando capolavori che dialogano tra loro, evocando le rivalità e le influenze reciproche. Il cuore dell’esposizione resta Guercino, il preferito del Papa, con la sua ricerca cromatica e il suo tratto inconfondibile che divennero simbolo dell’ascesa dei Ludovisi. Il suo stile, sensibile e vibrante, emerge come punto di equilibrio perfetto tra l’eredità classica e la sperimentazione barocca, rappresentando la cultura raffinata e la potenza politica della famiglia Ludovisi. Organizzata in collaborazione con prestigiose istituzioni come le Gallerie degli Uffizi, il Museo Nazionale Romano e i Musei Capitolini, la mostra conta 121 opere, provenienti da 68 musei e collezioni di rilievo. Un’occasione unica per immergersi in un periodo affascinante della storia romana, che, per la prima volta, offre anche l’opportunità esclusiva di visitare alcune sale del Casino di Villa Ludovisi, tra cui la Sala dell’Aurora, dove campeggia il celebre affresco del Guercino. Le visite, disponibili dal 9 novembre, saranno aperte soltanto nel weekend e previa prenotazione. La mostra non è soltanto un’esposizione di capolavori, ma un viaggio nell’essenza stessa dell’arte del Seicento: una celebrazione della bellezza e della potenza di un’epoca irripetibile, un’occasione per scoprire il breve, ma intensissimo, splendore della Roma Ludovisi, il cui riverbero risuona ancora oggi nelle sale delle Scuderie del Quirinale. Qui per tutte le informazioni.
Johann Sebastian Bach (1685-1750): Harpsichord Concerto in A major BWV 1055; Harpsichord Concerto in E major BWV 1053; Violin Concerto in A minor BWV 1041; Concerto for 2 Harpsichords in C minor BWV 1062. Mario Sarrechia (clavicembalo). Bart Naessens (clavicembalo, 1° nel BWV 1062). Sara Kuijken (violino). La Petite Bande. Sigiswald Kuijken (direttore). Registrazione: 2-5 Ottobre 2021, Paterskerk, Tielt (Belgio). T. Time: 61′ 02″. 1 CD Accent ACC24385
La produzione di concerti per clavicembalo di Johann Sebastian Bach si concentra nel decennio che va dal 1725 al 1735, quando i figli del compositore, diventati ormai dei virtuosi di questo strumento, avevano bisogno di nuove composizioni per potersi esibire nel «Collegium Musicum» della città di Lipsia, dove il padre ricopriva la carica di Thomaskantor e Direktor musices. Molti di questi concerti sono rielaborazioni di precedenti, andati perduti, per altri strumenti. In questo CD pubblicato dell’etichetta Accent che corrisponde al primo di tre volumi con cui sarà proposto l’integrale della produzione di concerti di Bach, comprendente non solo quelli per clavicembalo e per due clavicembali, ma anche quelli per violino e per due violini, è possibile ascoltare: il Concerto in la maggiore per clavicembalo, archi e basso continuo BWV 1055, che, corrispondente alla trascrizione di un suo concerto per oboe d’amore, composto nel periodo di Köthen, si inserisce nella solida tradizione italiana di Vivaldi e Corelli; il Concerto in mi maggiore per clavicembalo, archi e basso continuo BWV 1053, anch’esso una trascrizione per clavicembalo di un precedente lavoro di Bach per oboe o oboe d’amore e orchestra in fa maggiore; il Concerto in la minore per violino BWV 1041, risalente al felice periodo che va dal 1717 al 1723, trascorso da Bach a Köthen alle dipendenze del principe Leopold di Anhalt-Köthen dal quale era stato nominato Kappelmeister, nel cui primo movimento, che si snoda nella classica alternanza, qui resa in modo estremamente simmetrico, fra il tutti e il solista, il compositore anticipò alcuni principi della forma-sonata, e il Concerto in do minore per due clavicembali, archi e basso continuo BWV 1062, che è, infine, la trascrizione realizzata nel 1736 del Concerto BVW 1043 per due violini, le cui parti vengono riprodotte nel rigo della mano destra di ogni strumento solista. Di ottimo livello e storicamente informata è l’esecuzione di questi lavori da parte della Petite Bande, diretta da Sigiswald Kuijken, che mette ben in evidenza il carattere cameristico di queste pagine e lascia il giusto spazio agli ottimi solisti, i clavicembalisti Mario Sarrechia e Bart Naessens (al quale è affidata la parte del 1° nel BWV 1062) e la violinista Sara Kuijken, che esibisce un’espressiva cavata nel secondo movimento del Concerto per violino. Ascoltando questo primo album, non si può non auspicare la pubblicazione in tempi brevissimi degli altri due.
“Stiffelio”, Il tesoro nascosto fra i titoli di Verdi, debutta finalmente al Teatro Filarmonico di Verona. Domenica 27 ottobre, alle ore 15.30, a 174 anni dalla prima triestina del 1850. Dramma intimista avvincente e attualissimo, fu innovativo e coraggioso per la sua epoca. Considerato da molti la prova generale della Traviata, tratta di tradimento e perdono, introducendo il tema del divorzio nell’opera italiana, con originale profondità nella struttura e nella psicologia dei personaggi principali. L’Orchestra e Coro di Fondazione Arena diretti da Leonardo Sini, la regia e luci di Guy Montavon e scene e costumi di Francesco Calcagnini. Come Stiffelio troviamo in scena Luciano Ganci (27 e 31/10) e Stefano Secco (29/10 e 3/11) accanto ai soprani Caterina Marchesini (27 e 31/10) e Daniela Schillaci(29/10 e 3/11) che vestiranno i panni di Lina. Stankar sarà il baritono Vladimir Stoyanov, l’anziano confratello Jorg al basso Gabriele Sagona. I cugini di Lina saranno Francesco Pittari (Federico) e Sara Rossini (Dorotea) mentre Raffaele il tenore Carlo Raffaelli. Il Coro della Fondazione Arena sarà preparato da Roberto Gabbiani.
Repliche martedì 29 ottobre alle ore 19, giovedì 31 ottobre alle ore 20 e domenica 3 novembre alle ore 15.30.
Napoli, Teatro Bellini, Inaugurazione Stagione 2024/2025
“LA GRANDE MAGIA”
Commedia in tre atti di Eduardo De Filippo
Calogero Di Spelta NATALINO BALASSO
Otto Marvuglia MICHELE DI MAURO
Amelia Recchia VERONICA D’ELIA
Mariano D’Albino e Brigadiere di P. S. GENNARO DI BIASE
Arturo Recchia e Gregorio Di Spelta CHRISTIAN DI DOMENICO
Signora Marino e Rosa Di Spelta MARIA LAILA FERNANDEZ
Gervasio e Oreste Intrugli ALESSIO PIAZZA
Cameriere dell’albergo Metropole e Gennaro Fucecchia MANUEL SEVERINO
Zaira, moglie di Marvuglia SABRINA SCUCCIMARRA
Marta Di Spelta e Roberto Magliano ALICE SPISA
Signora Zampa e Matilde, madre di Di Spelta ANNA RITA VITOLO
Regia Gabriele Russo
Scene Roberto Crea
Luci Pasquale Mari
Costumi Giuseppe Avallone
Musiche e Progetto Sonoro Antonio Della Ragione
Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Biondo Palermo, Emilia Romagna Teatro ERT/ Teatro Nazionale
Napoli, 18 ottobre 2024
Eduardo De Filippo, nel 1948, scandalizza il mondo teatrale, proponendo un testo dal carattere vistosamente «rivoluzionario»: La grande magia – attraverso cui sconvolge le convenzioni stilistiche e formali della consueta letteratura drammatica, ponendo così se stesso «al di là» anche della sua produzione drammaturgica. Un testo, dunque, che potremmo definire come «poeticamente realistico»: una definizione, almeno nominalmente, inafferrabile e «contraddittoria» – ma, per dirla con Pasolini, le «contraddizioni» sono necessarie, soprattutto se «strutturali»: La grande magia è una macchina narrativa inarrestabile, una commedia strutturalmente frammentaria, un sistema di simbolistiche «contraddizioni», regolamentate – però – attraverso una scrittura netta e poetica, schematicamente espressiva: Eduardo, dunque, innesta in un quadro fortemente realistico – «neorealistico», se vogliamo – e popolare la tematica del «soprannaturale», rappresentata dalla figura del mago Otto Marvuglia. Un’operazione che potremmo definire «shakespeariana», non nuova per Eduardo (già nel ’46, con Questi fantasmi!, il drammaturgo confonde uomini e spettri, frammenti di vita effettiva e fatti favolistici), ma questa volta conduce l’escamotage a estreme conseguenze: il mago Marvuglia consegna all’affranto e dispotico marito, Calogero Di Spelta (moralistico portavoce del mitizzato, ma feroce, decoro borghese), una scatola entro cui afferma d’aver sigillato la moglie, Marta, scappata invece con l’amante. Un trucco di magia parossisticamente comico, a cui l’uomo è «costretto» fermamente a credere, rifiutando aprioristicamente l’eventuale esistenza d’una realtà «altra da sé» o l’eventuale elemento scandaloso (il tradimento, in questo caso) che andrebbe a «rivoluzionare» la perfezione formale della «norma» borghese. L’evento magico, al Bellini, viene inquadrato entro un progetto registico potentemente «espressivo», curato da Gabriele Russo; una «vivacità» narrativa che conduce a conseguenze estreme gli elementi narrativi e i dati, prevalentemente pirandelliani, che determinano contenutisticamente non soltanto questa commedia, ma tutta la produzione drammaturgica eduardiana: la frantumazione dell’istituzione della famiglia, l’alienante mediocrità borghese e la frustrante repressione d’impulsi e inclinazioni. La messinscena, almeno esteriormente, presenta una forma narrativa preminentemente unitaria e continua – nonostante la presenza d’inevitabili transizioni da un atto all’altro, perfettamente innestate entro la cornice narrativa, perché investite d’una funzione altamente «poetica»: assumono la forma di brevi momenti d’irrazionalistica e tragica sospensione; brevi incisi dal carattere fortemente onirico e sognante – determinati dalle suggestive atmosfere sonore di Antonio Della Ragione. Ma la forma unitaria esteriore pone se stessa in netta «contraddizione» con la struttura interna potentemente frammentaria: scene di vita realistica interrotte da momenti surrealistici, caratterizzati da parossistiche connotazioni linguistiche. Ciò riguarda, però, soprattutto i personaggi «secondari», perché i due protagonisti Otto Marvuglia e Calogero Di Spelta (interpretati, rispettivamente, da Michele Di Mauro e Natalino Balasso) incarnano metaforicamente la drammaticità della vita. La povertà è il dato in cui risiede la disperazione, sia pure coscientemente comica, del mago Marvuglia, interpretato da Di Mauro in un modo graziosamente «vignettistico» e «fumettistico». Attraverso un tono scherzoso (soprattutto nelle frasi in lingua napoletana), un’astuta galanteria e un atteggiamento graziosamente «vanitoso», l’attore garantisce al mago una balenante allegria e una concreta inventiva linguistica, determinata da stabilità espressiva e da immediate, ma realistiche, variazioni tonali. Natalino Balasso, invece, offre un ritratto del suo Calogero Di Spelta drammaticamente «veristico»: improvvise variazioni d’intonazione e un linguaggio infantilmente «esitante» rappresentano i sintomi di una condizione emotiva autopunitiva e amara, in cui l’affranto marito è costretto; uno stato irrimediabilmente nevrotico, determinato da un degradante sentimento d’impotenza e da un nostalgico sentimentalismo. I personaggi «secondari» (la definizione è puramente convenzionale) assumono coralmente un linguaggio umoristicamente «artefatto»; un linguaggio che procede speditamente, accompagnato e sostenuto da un altro linguaggio, quello gestuale, determinato da un’espressività estrema, ritmicamente irrealistica: paiono figure provenienti da un mondo «altro», impalpabile e irrisolto: il mondo interiore dei due protagonisti. Ottimi, dunque, tutti gli attori – avvolti, peraltro, negli appropriati costumi di Giuseppe Avallone: Veronica D’Elia (Amelia Recchia), Gennaro Di Biase (Mariano D’Albino e Brigadiere), Christian di Domenico (Arturo Recchia e Gregorio Di Spelta), Maria Laila Fernandez (Signora Marino e Rosa Di Spelta), Alessio Piazza (Gervasio e Oreste Intrugli), Manuel Severino (Cameriere dell’albergo Metropole e Gennaro Fucecchia), Sabrina Scuccimarra (Zaira, moglie di Marvuglia), Alice Spisa (Marta Di Spelta e Roberto Magliano), Anna Rita Vitolo (Signora Zampa e Matilde, madre di Di Spelta). Anche la struttura scenica, progettata da Roberto Crea, esprime – attraverso la potenza comunicativa delle cose e degli oggetti – la tragica e comica vitalità tipica della scrittura eduardiana: riproduce, in modo poeticamente «stilizzato» e colorato, gli spazi entro cui accadono i fatti, romanticamente illuminati da Pasquale Mari: un giardino (quello dell’albergo Metropole), le stanze dell’estrosa casa del mago Marvuglia e del freddo appartamento di Di Spelta. Un pubblico, particolarmente numeroso ed entusiasta, ha positivamente accolto l’opera che, forse, stava – e sta – più a cuore al suo grande ed eterno papà, Eduardo De Filippo. Foto Flavia Tartaglia