Madrid, Teatro Real, Temporada 2024-2025
“ADRIANA LECOUVREUR”
Opera in quattro atti su libretto di Arturo Colautti, basato sull’opera teatrale omonima di Eugène Scribe ed Ernest Legouvé
Musica di Francesco Cilea
Adriana Lecouvreur ERMONELA JAHO
Maurizio di Sassonia BRIAN JADGE
Principe di Bouillon MAURIZIO MURARO
Principessa di Bouillon Elīna Garanča
Michonnet NICOLA ALAIMO
Quinault DAVID LAGARES
Poisson VICENÇ ESTEVE
Mademoiselle Jouvenot SYLVIA SCHWARTZ
Mademoiselle Dangeville MONICA BACELLI
Abate di Chazeuil MIKELDI ATXANLANDABASO
Coro y Orquesta Titulares del Teatro Real
Direttore Nicola Luisotti
Maestro del Coro José Luis Basso
Regia David McVicar
Scene Charles Edwards
Costumi Brigitte Reiffenstuel
Luci Adam Silverman
Coreografia Andrew George
Coproduzione Royal Opera House, Gran Teatre del Liceu de Barcelona, Wiener Staatsoper, Opèra national de Paris e San Francisco Opera
Madrid, 29 settembre 2024
Adriana Lecouvreur non è mai stata rappresentata prima d’ora al Teatro Real di Madrid. Eppure, esattamente cinquant’anni fa, il Teatro de la Zarzuela propose due recite di un allestimento diventato leggendario, con Montserrat Caballé e José Carreras. Appunto al tenore catalano, che tra poco compirà 78 anni, è dedicata la sontuosa coproduzione che inaugura la stagione del massimo teatro madrileno. Lo spettacolo di David McVicar e Nicola Luisotti, che firmano rispettivamente regia e direzione musicale, è molto riuscito e coerente perché si basa su di una buona interazione tra idea scenica e idea musicale. Uno studio attento del libretto permette al regista di ricavare le implicazioni spaziali della narrazione, fisiche o simboliche, grazie a una scena costantemente formata da un palcoscenico, un boccascena mobile, visto ora dal davanti ora dal di dietro, con prospettive variabili. Oltre ad enfatizzare la dimensione “teatrale”, McVicar evita qualunque facile applicazione del metateatro; al contrario, l’eleganza neoclassica delle scene di Charles Edwards fa stridere ancor di più il contrasto con l’infelicità dei personaggi, che oscillano tra la commedia galante e la tragedia. Il momento scenico musicalmente più riuscito è quindi il III atto, in cui McVicar si concentra su quello che qualunque altro regista di oggi trascurerebbe: un allestimento coreografico perfettamente fedele alle indicazioni di Colautti, con Il giudizio di Paride intonato dai deliziosi numeretti musicali di Cilea, un’estetica da Indes galantes sul palcoscenico interno (tutti magnifici i costumi di Brigitte Reiffenstuel), mentre il chiacchiericcio di casa Bouillon prende poco a poco il sopravvento … I tersicorei reclamano invano l’attenzione del loro pubblico, che torna a osservare la scatoletta teatrale soltanto quando vi entra Adriana, per vendicarsi della rivale seduta in platea, e con un vettore linguistico antico (per non dire desueto: Racine al servizio di un melodramma). Ma tutto questo – si potrebbe domandare – è davvero degno della massima serietà, come lo tratta McVicar? Altri coglierebbe lo spunto fatuo o ridicolo della situazione, insistendo sulla frivolezza della commedia; in tal modo, però, si tradirebbe l’orientamento narrativo dell’opera, che va verso la tragedia (come conferma il tema di apertura del IV atto, autentica disperazione in musica). È un peccato che la complessità dell’idea registica sia condivisa soltanto in parte dagli interpreti musicali. La stessa direzione di Luisotti, pur molto attenta alle dinamiche e ai contrasti timbrici, si compiace più che altro dell’enfasi drammatica, senza accorgersi di trasformare a volte la partitura in una sinfonia un po’ troppo fragorosa. Nel ruolo della protagonista, Ermonela Jaho è invece impegnata a presentare un’Adriana coraggiosa e fragile al tempo stesso, complessa e assai poco “primadonna”: è certamente espressiva e convincente, in particolare nei momenti elegiaci (Poveri fiori nell’ultimo atto), anche se la dimensione dell’attrice tragica risente di qualche difficoltà nella pronuncia e nel fraseggio. A un registro basso debole e difforme, corrisponde per antifrasi la ricerca di filature e pianissimo nelle note acute (il genius loci della Caballé continua a sortire effetto), che al pubblico di Madrid piace senz’altro. Elīna Garanča è magnifica come Principessa di Bouillon: dopo lo scoglio “a freddo” di Acerba voluttà la voce si riscalda nel corso dei duetti, raggiungendo la consueta coerenza di timbro e varietà di colori. Il tenore Brian Jadge tende ad affidare la riuscita della sua prestazione al volume della voce, anche a costo di evidenti forzature: il suo Maurizio assomiglia troppo a un Canio o un Turiddu (i modelli vocali da cui Cilea rifuggiva); fraseggio, vibrato, capacità di alleggerire il suono, sono sostituiti in Jadge da una costante pressione del diaframma, con l’obbiettivo di esibire cavata imponente e messe di voce prolungate (che effettivamente impressionano il pubblico, suscitando anche applausi a scena aperta). Lo aiuta una tecnica apprezzabile, anche se applicata a un timbro vocale privo di qualunque attrattivo o elemento originale. Nicola Alaimo è un Michonnet molto efficace, di cui si apprezza soprattutto la dizione sgranata e chiarissima. Il basso Maurizio Muraro e il tenore Mikeldi Atxanlandabaso danno voce rispettivamente al Principe di Bouillon e all’abate di Chazeuil, entrambi con un porgere garbato e discreto. Se Michonnet dice che alle disgrazie della vita, in fondo, ci si abitua, continuando a campare, il messaggio di Adriana è un altro: tentare di elevarsi al di sopra di tutte le miserie grazie all’arte e alla sua ebbrezza. Per questo, nella scena ormai buia, i personaggi del Bajazet tornano ad affacciarsi dall’alto del palcoscenico, per inchinarsi di fronte all’artista spirata. Ars longa, vita brevis, imparavano gli attori della Cómedie Française. Foto Javier del Real © Teatro Real de Madrid
Nell’ampio ingresso del Teatro Regio, circondati dalle enormi vetrate con cui l’architetto Mollino ha portato la città dentro al Teatro, seduti amichevolmente sui divanetti della hall e che con il soffice pavimento cremisi attenuano brusii e scalpiccii, nell’intervallo del recente Trittico torinese, dopo la sua fatica in Tabarro, rubiamo quattro chiacchiere veloci ed amichevoli al tenore senese Samuele Simoncini.
Benvenuto a Torino, Samuele per questo ritorno nel Tabarro. Hai conquistato il pubblico torinese. È stata assai lunga la tua assenza, dopo l’exploit in Manrico del Trovatore nel 2018.
Si, ricordo che fui chiamato 9 giorni prima di iniziare le prove, mentre ero in Giappone a cantare Tosca. Mai cantato il ruolo di Manrico prima. Studiai tutta la parte in quei pochi giorni. Sfruttavo i tempi morti della produzione, fu certamente un bel debutto!
Di te ignoravamo tutto. Cosa c’era stato prima?
Avevo già debuttato Chénier, Iris e Cavalleria di Mascagni. Con questi ruoli e Cavaradossi ero già entrato di forza nel grande repertorio del tenore lirico spinto e, se vuoi, drammatico.
Maestri?
Ho studiato per lo più con Angelo Bertacchi dal quale ho imparato una tecnica formidabile, che purtroppo non insegna più nessuno e che mi ha anche consentito di affrontare l’eroismo giovanile di Manrico. Poi con Laura Brioli, ho consolidato la vocalità drammatica.
Ma gli inizi?
Fin dai banchi delle secondarie avevo la passione del canto e mi ero dato al pop. Finito il liceo, mi sono presentato per una selezione a Sanremo dove mi è stato consigliato di studiare canto seriamente e di provare col repertorio tenorile. E così ho fatto.
E poi?
Nel 2010 dopo molta provincia, come Ernesto, (non stupirti!), del Don Pasquale, mi ritrovai con qualche problema tecnico, sentivo che la voce era come costretta, non libera di fluire nel modo giusto, per cui decisi di prendermi una pausa. Mi capitò l’opportunità di portare un One Man Show in giro per il mondo, sulle grandi navi da crociera. Mi sono così esibito per cinque anni, come una popstar, di fronte a decine di migliaia di persone. In quegli anni, anche per me, se mi posso permettere l’espressione verdiana, “di galera” ho risistemato la tecnica. Un duro sforzo fisico e psicologico in uno studio quotidiano per poter affrontare con sicurezza il repertorio che mi ero prefissato.
Quali erano i ruoli a cui miravi e, se c’erano, i modelli a cui guardavi?
Ho debuttato ormai quasi tutto il grande repertorio drammatico. Ancora mi aspettano Dick Johnson e Des Grieux e poi Otello. Questo è il ruolo a cui ho sempre guardato con grande rispetto e timore e credo che continui a rappresentare l’aspirazione massima di ogni Tenore Drammatico. È difficile e pericoloso attenersi a dei modelli, visto che ognuno di noi è particolare sia psicologicamente che fisicamente, ho comunque sempre molto ammirato il canto e le interpretazioni di Giuseppe Giacomini.
Torniamo all’oggi e al Teatro Regio. Azzardato il salto dal Manrico del ’18 al Luigi del ’24?
Forse! Ma per me è stato naturale continuare e perseverare nel mio lavoro costante nella respirazione che ritengo essere il vero fulcro della mia tecnica. Con queste premesse posso affrontare senza affanni molti ruoli ritenuti pesanti e borderline.
Le esperienze all’estero?
Lo scorso anno ho cantato molte recite di Aida a Copenhagen e poi Tosca in alcuni teatri francesi. All’estero ho sempre trovato molta serietà e puntualità, l’artista viene tenuto sempre in grande considerazione. Prossimamente tornerò nei teatri di Angers e Nantes col Piccolo Marat di Mascagni.
In Wagner, Mussorgskij, Tchajkovski c’è molto per un tenore dalle tue caratteristiche. Non hai mai pensato di poterli affrontare?
Chi mi pone questa domanda, e non è stato il solo, mi ha incitato più volte a provare anche col repertorio tedesco. E’ un repertorio che, per la lingua, ho sempre guardato con timore. Non l’ho mai praticato nemmeno come ascoltatore ma vedrò di provarci a rendermelo più famigliare. Per me finora solo due ruoli in lingua straniera; Tamino nel Flauto di Mozart e Don José in Carmen. Considero la cura della dizione un passaggio fondamentale dello studio: anche coi miei allievi ne accentuo l’importanza. Soffro assai quando sono in scena con colleghi stranieri che hanno un italiano approssimato, con accenti e vocali eterodosse. Probabilmente è anche questa sensazione di malessere che mi tiene lontano dal repertorio straniero, non vorrei fornire occasioni di critica ed imbarazzo.
Hai forse in vista anche una ripresa di un repertorio più lirico che ti porti, ad esempio per il Trittico, non solo a Luigi ma anche a Rinuccio?
In passato ho cantato diverse volte il Rinuccio dello Schicchi ma finora mai nella stessa sera con Luigi. Nell’autunno prossimo, il mio amico Luca Canonici debutterà nella regia del Trittico e mi ha proposto di cantare entrambi i ruoli (come nella storica prima del Trittico al Met). Potrei cantare tranquillamente anche ruoli più lirici ma quando uno entra in un cliché difficilmente ne esce, o meglio: gli permettono di uscirne. Ernani, Gabriele Adorno e Idomeneo li vorrei proprio portare in palcoscenico, spero che me li propongano.
Gli impegni della carriera: studio, viaggi e permanenze fuori casa, ti son d’affanno o va bene così ?
È innegabile che si soffra la lontananza delle persone care dovendo rimanere fuori per lavoro… ma fa parte della professione e chi ci sta accanto si deve abituare alle nostre assenze. La mia Aida ( favoloso bracco weimaraner ) ogni tanto mi segue negli spostamenti ma, raramente per fortuna, i cani non vengono sempre accettati negli appartamenti che si affittano e deve rimanere a far compagnia alla mia mamma e scorrazzare in terra toscana.
Terra Senese! Samuele sei anche un appassionato contradaiolo?
Certamente! Porto il mio Nicchio nel cuore. Nei cinque minuti dei della corsa non respiro.
GBopera ti ringrazia molto per questo incontro ed io mi auguro di rivederti prossimamente anche in questo teatro, magari con Ernani e Idomeneo. Intanto, in bocca al lupo per il prossimo Piccolo Marat a Nantes e Angers (il 2 e 3 ottobre a Nantes e il 5 ottobre a Angers)
Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2023-2024
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Alfonso Caiani
Voce narrante Laura Marinoni
Soprani Anna Malvasio, Mi Jung Won
Contralti Claudia De Pian, Mariaelena Fincato
Tenori Salvatore De Benedetto, Safa Korkmaz
Arthur Honneger: “Le Roi David”, Psaume symphonique in tre parti su libretto di René Morax. Versione originale 1921
Venezia, 28 settembre 2024
Penultimo appuntamento della Stagione Sinfonica 2023-2024 della Fenice. Sul podio dell’Orchestra e del Coro del teatro, il maestro Alfonso Caiani, che dall’ottobre 2021 lavora stabilmente nel tempio della lirica veneziano come direttore della compagine corale. In programma un titolo non molto frequentato, almeno in Italia: Le roi David di Arthur Honegger, indicato come “Psaume symphonique” e particolarmente rappresentativo di quella che il compositore stesso considerava la “componente biblica” della sua natura. Del resto l’interesse per il Vecchio Testamento e, più in generale, per gli argomenti religiosi – come testimoniano i vari oratori da lui composti – costituisce un’importante cifra distintiva dell’autore svizzero-francese, per quanto la sua multiforme produzione ci riveli anche un Honegger meno spirituale, come testimonia Pacific 231, un mouvement symphonique, composto nel 1923, dedicato a una locomotiva a vapore di allora – la Pacific 231, appunto –, di cui imita il rumore; un lavoro frequentemente eseguito in passato, composto sull’onda della sua grande passione per i treni.
Scritte in soli due mesi nel 1921, le musiche di scena per il dramma biblico, Le roi David, di René Morax erano divise, nella versione originale, in ventisette numeri, che dovevano avvicendarsi all’interno di uno spettacolo di circa quattro ore, basato sull’alternanza di musica, danza e dialogo parlato, con l’apporto di un organico formato da voci soliste, coro e piccolo ensemble strumentale. Il successo ottenuto da tale mise-en-scène – che fu rappresentata presso il teatro di Jorat nel piccolo paese di Mezières, l’11 giugno 1921 – indusse il musicista e il drammaturgo a trarne una versione da concerto, collegando i 27 numeri musicali con dei testi affidati a una voce recitante, senza modificare l’organico di partenza. Questa seconda versione fu eseguita per la prima volta a Lione il 21 gennaio 1923.
Honegger fu uno dei più autorevoli componenti de “Groupe des Six”, insieme a Milhaud, Poulenc, Auric, Tailleferre e Durey: un sodalizio artistico tra musicisti con personalità profondamente diverse, ma accomunati dall’avversione alle tendenze dominanti – l’Impressionismo di Debussy e il wagnerismo – e dall’aspirazione a rifondare la musica francese nel nome della semplicità – e sovente dell’ironia – sull’esempio di Satie. Un movimento antiromantico e per certi versi d’avanguardia, quello dei “Sei”, al cui interno, peraltro, Honegger si distingueva per un certo suo attaccamento alla musica del passato, convinto che si dovesse “giocare sempre di nuovo il gioco antico, perché cambiarne le regole significa distruggere il gioco stesso”. In particolare, pur intrecciando nella sua vasta produzione elementi del linguaggio musicale novecentesco – tra cui politonalismo e financo atonalità – con apporti stilistici eterogenei – dalla musica popolare al jazz –, rimase sempre legato al supremo esempio di Bach. Un’originale miscela di arcaismo e modernità caratterizza anche Le Roi David – che in una varietà di colori, melodie, ritmi e armonie, connota i vari episodi della drammatica storia del secondo re d’Israele – costituendo uno dei motivi del suo fascino.
Fondamentale nel corso dell’esecuzione del capolavoro honneggeriano – avvenuta alla Fenice in memoria di Giampaolo Vianello, Sovrintendente del teatro dal 2001 al 2010, nel quinto anniversario della scomparsa – l’apporto dell’attrice Laura Marinoni, quale voce narrante, che ha saputo trovare nei suoi vari interventi l’accento di volta in volta più adatto ad introdurre o commentare questo o quell’episodio: una recitazione epicamente solenne, ma sempre credibile ed equilibrata, pur ricorrendo a una dinamica piuttosto ampia.
Esemplare davvero la prestazione offerta dal piccolo ensemble di componenti dell’Orchestra del Teatro La Fenice, che hanno saputo trarre dai loro strumenti una ricca tavolozza di colori vividi e puri, mettendo in valore il raffinato eclettismo di Honegger che, pur con parsimonia di mezzi costruisce un variopinto mosaico sonoro, dove la tinta di fondo arcaica – per non dire biblica – convive con il linguaggio musicale novecentesco e le reminiscenze bachiane con quelle dell’opera dell’Ottocento. Determinanti per la piena riuscita del concerto la sensibilità e la preparazione del maestro Caiani, che ha guidato con gesto tanto autorevole quanto chiaro l’ensemble strumentale, il coro e le voci soliste; un gesto particolarmente efficace nei passaggi, nei quali il compositore dispiega tutto il suo magistero polifonico. Pagine mirabili in cui il Coro – segnalatosi positivamente in tutto il corso dell’esecuzione – ha sfoggiato, nell’intonare il testo francese, un fraseggio nitido ed espressivo, seguendo con disciplinata partecipazione le indicazioni del direttore. Analogamente convincente la prestazione dei solisti – attinti dal Coro stesso: Anna Malvasio e Mi Jung Won (soprani), Claudia De Pian e Mariaelena Fincato (contralti), Salvatore De Benedetto e Safa Korkmaz (tenori) –, che hanno dimostrato un buon controllo della voce, evitando enfatizzazioni “melodrammatiche” e nel contempo risultando adeguatamente incisivi nei loro interventi ora mesti ora pieni di fervore. Successo pieno per tutti.
TANTI SORDI
Polvere di Alberto
Un progetto di Frosini / Timpano e Lorenzo Pavolini
Testo Elvira Frosini, Daniele Timpano, Lorenzo Pavolini
Musiche e progetto sonoro Ivan Talarico
Disegno luci Omar Scala
Scene e costumi: Marta Montevecchi
Realizzazione scenografie Officina Scenotecnica Gli Scarti
Collaborazione alla regia Francesca Blancato
Organizzazione e distribuzione Laura Belloni
Progetto grafico Valentina Pastorino
Foto Piero Tauro
Produzione: Scarti – Centro di produzione teatrale di innovazione | Viola Produzioni – Centro di Produzione teatrale | Romaeuropa Festival
Regia di Elvira Frosini e Daniele Timpano
In TANTI SORDI ci interessa toccare e intrecciare tre discorsi:
Uno. La Storia: 70 anni di storia italiana passano attraverso questi materiali trans-mediali rifiltrati e riletti da/attraverso Sordi (ed i suoi registi), insomma la storia, l’Italia, la ricostruzione storica orientata che si è fatta dell’Italia dal dopoguerra ad oggi.
Due. Il dato biografico: i nostri nonni, i nostri genitori giovani di allora – il dopoguerra, il boom economico, il progresso, le speranze – mentre adesso ci siamo solo noi, miseri, senza futuro, con l’apocalisse invece del progresso come unico, mitico orizzonte.
Tre. Il nostro lavoro, il teatro: Sordi fa il nostro lavoro, parla del nostro lavoro. Epoca diversa, percorso diverso, scelte diverse, mainstream e successo contro avanguardia, noi avanguardisti finto-pentiti che stringendo il nazional-popolare in un abbraccio mortale rivendichiamo una diversa identità e la nostra storia. In continuità con i lavori precedenti, in cui abbiamo affrontato temi che riguardano la storia e l’identità italiana, attraversandola e soffermandoci sul suo cadavere politico con testi come Dux in scatola, Risorgimento Pop e Aldo morto (che compongono la trilogia Storia cadaverica d’Italia), il colonialismo italiano e la sua eredità di razzismo nel pensiero occidentale in Acqua di colonia, la rivoluzione francese e la crisi attuale della democrazia in Ottantanove, il futurismo italiano tra misoginia e proto-femminismo in Disprezzo della donna, continuiamo la ricerca sui miti e le retoriche del nostro paese e del nostro presente e ci immergiamo adesso – in collaborazione con lo scrittore Lorenzo Pavolini – in questo materiale culturale e storico, in questa mitologia su Roma e “romanità” ma soprattutto “italianità” che è Alberto Sordi. Il mito dell’uomo medio, tutti i miti passati attraverso lui, italica spugna e italico modello che ha attraversato i decenni. Lo attraversiamo cercando le sue tracce sepolte in noi, nei nostri corpi e nel nostro lavoro, le sue stratificazioni disseminate nella nostra vita e nella vita del nostro paese. Un discorso che tenta di far esplodere le nostre retoriche e i nostri modelli culturali, un discorso sull’arte e sul teatro. Elvira Frosini e Daniele Timpano
Cantata profana su testo di Christian Friedrich Henrici (Picander). Prima esecuzione: Lipsia, probabilmente alla Casa del Caffè Zimmermann’ tra il 1734 e il 1735.
La storia narra i tentativi di Schlendrian (basso) di frenare l’amore della figlia Lieschen (soprano) per il caffè. La minaccia di ritirarle i privilegi, ai quali lei rinuncia volentieri a favore del caffè, poi Schlendrian alza la posta in gioco e le dice che non troverà mai un marito se non rinuncia alla sua dipendenza. Lei sembra cedere, ma il narratore (tenore) ci dice che ogni suo pretendente dovrà promettere a Lieschen di permetterle di bere la sua bevanda preferita. La vivace Lieschen riesce così a superare il padre, che è un po’ lento di comprendonio, e il terzetto finale afferma che alcune menti non potranno mai essere cambiate. Certamente non è politicamente corretto al giorno d’oggi (a meno che non si identifichi il caffè con cose più potenti!) ma, come è stato affermato più volte, è questa più vicina incursione di Bach nell’opera.
Vista la maestria con cui crea musicalmente i personaggi, viene da chiedersi cosa sarebbe successo se Bach si fosse addentrato maggiormente in questo campo!
L’opera si apre con un recitativo del narratore che introduce Schlendrian e Lieschen e la prima aria (Nr.2), tratteggia brillantemente tutta la pedante severità di Schlendrian che si lamenta della disobbedienza della figlia. Segue la pagina più famosa della partitura, l’aria Lieschen (Nr.4): “Mm, com’è dolce l’odore del caffè”, accompagnata da uno straordinario flauto concertante. Sicuramente una tra le più belle arie bachiane. Seguono altre minacce e l’aria successiva di Schlendrian (Nr.6) lo mostra più fiducioso nella sua capacità di conquistare la figlia di quanto gli eventi successivi suggeriscano. La seconda aria di Lieschen, ancora una volta bellissima, in un cullante e rassicurante movimenti di danza la mostra apparentemente sottomessa al pensiero del matrimonio, ma il recitativo finale svela il gioco della ragazza. Il terzetto finale vuole aggiungere un pizzico di moralità alla Cantata, in contrasto con un brillante accompagnamento orchestrale che vede nuovamente protagonista il flauto concertante.
1 Ottobre – Giornata internazionale del caffè
Novara, Teatro Carlo Coccias, stagione lirica 2024
“LA RONDINE”
Commedia lirica in tre atti su libretto di Giuseppe Adami
Musica di Giacomo Puccini
Magda VALENTINA VARRIALE
Lisette NOFAR YACOBI
Ruggero GALEANO SALAS
Prunier ENRICO CASARI
Rambaldo MARCELLO ROSIELLO
Périchaud/Un maggiordomo DANIELE CUSARI
Gobin SEBASTIANO CICCIARELLA
Crébillon/Rabbonie GIUSEPPE SERRELI
Ivette/Georgette VITTORIA LICOSTINI
Bianca/Lolette FRANCESCA MERCURIALI
Suzy/Gabrielle CATERINA DALLAERRE
Orchestra Filarmonica Italiana
Coro Sinfonico di Milano
Direttore Jordi Bernàcer
Regia Stefano Vizioli
Coreografie Pierluigi Vanelli
Scene Cristian Taraborrelli
Costumi Angela Buscemi
Light designer Vincenzo Raponi
Novara, Teatro Coccia, 29 settembre 2024
Prima rappresentazione novarese per “La rondine” di Puccini che in oltre un secolo di vita non era mai giunta sul palcoscenico del Coccia. Un clima di debutti che riguardava quasi totalmente anche il cast con la sola eccezione del Ruggero di Galeano Salas già interprete del ruolo a Verona.
Proprio in collaborazione con il Filarmonico veronese nasce questa produzione – realizzata nei laboratori novaresi ormai una splendida realtà produttiva – che arriva ora a Novara perdendo purtroppo molti degli elementi di punta delle recite veronesi ma riuscendo comunque a farsi apprezzare.
Lo spettacolo di Stefano Vizioli è di sobria eleganza. La vicenda è trasporta agli anni 50 del Novecento per quanto riguarda i costumi mentre l’immaginario delle scene tra Modigliani e Man Ray parla il linguaggio delle avanguardie parigine degli anni dieci e venti che sono poi il contesto in cui l’opera nasce. Scene essenziali, uso raffinato del colore – con numerosi effetti di bianco e nero dal gusto optical – ottimo lavoro di recitazione sugli attori. Vizioli lavora di cesello riuscendo a dare unità alle anime a volte contrastanti che agitano la vicenda, in particolar modo si apprezza il lavoro sulla coppia Prunier- Lisette con il loro gioco umoristico che allenta gli eccessi un po’ retorici delle parti più melodrammatiche. Bravi i ballerini nel rendere i tratti violenti e brutali delle dance apache per cui era noto Bullier, locale alquanto malfamato al tempo. Il terzo atto ci porto in un alberghetto di terz’ordine, lontano da ogni lusso ma ben coerente con le difficoltà economiche della coppia la cui attrattiva è data solamente dalla passione degli amanti.
La parte musicale conta soprattutto su un musicista raffinato come Jordi Bernàcer capace di far rendere al meglio una compagine di serio professionismo ma non di livello assoluto come Orchestra Filarmonica Italiana. Direttore di solidissima esperienza pucciniana valorizza la qualità della scrittura, evidenziando al meglio la modernità di un linguaggio che sa ormai non solo integrare le più avanzate esperienze europee ma comincia a guardare interesse verso le nuove realtà della musica di consumo d’oltre-oceano. Bernàcer lavora di cesello sui pesi sonori, sui contrasti ritmici ed espressivi della partitura dandone una lettura estremamente equilibrata ed efficacie. Buona la prova del Coro Sinfonico di Milano nell’impegnativo secondo atto. Il cast è nel complesso valido, senza convincere però pienamente. Valentina Varriale (Magda) è un soprano lirico dalla voce ricca di armonici e assai valida sul piano tecnico. Parte un po’ prudente – forse il tono svagato e leggero del primo atto forse non le è del tutto congeniale – ma la sua prova va in crescendo e nel terzo mostra considerevoli doti espressive e talento drammatico. Delle varie anime di Magda – parte assai complessa proprio per questa stratificazione espressiva – la Varriale spicca nel lato più drammatico e intenso del personaggio
Galeano Salas era l’unico con una certa esperienza nel ruolo avendolo già cantato a Verona. Salas è un cantante dal timbro delicato e dall’emissione morbida ed elegante. Gli acuti sono sicuri e l’ottima musicalità gli permette di esaltare il lato più lirico del personaggio. Sul piano espressivo è forse un po’ monocorde ma bisogna ammettere che il personaggio non concede molto al riguardo almeno fino al finale dove trova una bella intensità espressiva.
Nofar Yacobi (Lisette) è un soprano “soubrette” dalla voce non grande ma brillante e sicura e scenicamente è attrice convincente mostrando la giusta brillantezza e verve comica. Il canto è facile e preciso, sicuro su tutta la gamma. Solo il volume la penalizza un po’ nei pezzi d’insieme. Prova alterna per il Prunier di Enrico Casari. Ottimo attore e interprete sensibile coglie bene tutte le sfumature del personaggio ma la voce ci è parsa un po’ anonima come timbro e soprattutto carente di quel canto elegantemente svagato che dovrebbe caratterizzare il personaggio. Marcello Rosiello ha una buona autorevolezza negli interventi di Rambaldo che – eseguendosi la versione tradizionale – si riducono a poca cosa. Ben centrate le parti di fianco con particolare rilievo del trio femminile ma merita una menziona anche la sonora voce di basso di Daniele Cusari. Buona presenza di pubblico anche se la sala non era gremita. Calorosissimo successo di pubblico per tutti gli interpreti.
Romaeuropa Festival 2024
LA FEROCIA
dal romanzo di Nicola Lagioia
ideazione VicoQuartoMazzini
regia Michele Altamura, Gabriele Paolocà
adattamento Linda Dalisi
con Michele Altamura, Leonardo Capuano, Enrico Casale, Gaetano Colella, Francesca Mazza, Marco Morellini, Gabriele Paolocà, Andrea Volpetti
«Raccontare mondi al contrario per riuscire a comprendere il nostro, stimolare il surreale per non giustificare il presente». Così si presenta la compagnia pugliese VicoQuartoMazzini, fondata da Michele Altamura e Gabriele Paolocà e impegnata in un percorso di indagine in cui si fondono teatro, drammaturgia, radio, video e installazione. Già al REF nel 2018 con il tagliente Vieni su Marte, la compagnia torna al festival per portare in scena uno dei più acclamati romanzi degli ultimi anni, Premio Strega nel 2015: La Ferocia di Nicola Lagioia.
Nella ricca periferia barese, la morte di Clara Salvemini, figlia di un influente costruttore edile, apre una finestra sulla mancanza di affettività e sui rapporti di potere all’interno della buona borghesia. Il ritratto delle contraddizioni e della violenza del Sud Italia si schiude allo sguardo di Michele, il fratellastro di Clara, tornato a ricostruire la vita della sorella per scoprire le cause della sua morte. È la sua vicenda a racchiudere la storia di una famiglia, di una città, delle colpe dei padri che si specchiano nelle debolezze dei figli e nella ferocia del potere e del denaro che marchia il tempo che stiamo vivendo. Nutrendosi delle atmosfere noir e gotiche del romanzo, Altamura e Paolocà danno vita ad uno spettacolo dall’estetica dirompente e tagliente che, con medesima lucidità e ironia, restituisce un ritratto del nostro paese. “Nel pensare la regia dello spettacolo abbiamo scelto di mettere al centro, nella sua assordante assenza, il corpo di Clara, chiuso nello sguardo di tutti quelli che hanno creduto di poterlo possedere. Intorno, l’abissale e cruenta vanità del potere rappresentata dagli altri membri della famiglia e da tutti coloro che sono coinvolti nei loro affari. A fare da contraltare un figliastro tornato come un Oreste contemporaneo a gridare vendetta e un giornalista ossessionato da una frenetica fame di verità e da un amore sconfinato per la terra in cui è nato. Con La Ferocia ci concediamo la possibilità di raccontare il Sud non come un’eccezione ma come la regola. E di conseguenza ci chiediamo: il Sud può essere una sineddoche? Può assurgere al ruolo di protagonista del dramma di un mondo fuor di squadra, dove il crollo economico dell’occidente e l’incomunicabilità tra sostenibilità ambientale e progresso siano soltanto alcuni dei sottotesti che ci rifiutiamo di interpretare? In fondo il Sud conosce bene questa parte, l’ha imparata a memoria molti secoli fa, ripetendola sottovoce, e ora è pronta a rivelarla a un’umanità che ha smesso di allungare i suoi tentacoli per avvinghiarsi attorno a narrazioni di sistemi economici, sociali e politici stantii, incapaci ormai di tradurre i cambiamenti del presente.” VicoQuartoMazzini nelle sue note di regia.
Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Andrés Orozco-Estrada
Richard Strauss: “Der Rosenkavalier” op.59. Suite dall’opera. Igor Stravinskij: “L’oiseau de feu”, Suite dal balletto op.20. Versione 1919 Maurice Ravel: Bolero
Torino, 25 settembre 2024.
Domenica 25 settembre 1994 alle 10.30, nell’auditorio torinese del Lingotto, George Prêtre teneva a battesimo la neonata Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI con un programma identico a quello che ci ha fatto ascoltare, la sera di giovedì 25 settembre, a trent’anni esatti di distanza, Andrés Orozco-Estrada. La circostanza era felice ma nel medesimo tempo anche molto incresciosa: la neonata formazione seguiva allo scioglimento delle altre tre orchestre RAI d’allora: Milano, Roma e l’Alessandro Scarlatti di Napoli. La musica classica, nei fatti, non è mai stata considerata dalla RAI come un core business per cui, a ogni sofferenza di bilancio, è lì che, operati tagli dolorosi, si tenta un riequilibrio dei conti. Il sacrificio delle tre orchestre, che seguiva a quello precedente dei cori stabili, se fu particolarmente doloroso per i molti musicisti che non ebbero la possibilità di trasferirsi a Torino, non lo fu meno per il pubblico che fu costretto, in alcune città, a rinunciare ai concerti “dal vivo” e, in generale, a programmi meno variati e più asfittici. l’OSN RAI ha poi comunque raggiunto una buona stabilità e la si può collocare, ormai con sicurezza, tra le formazioni musicali sinfoniche più prestigiose del continente, conta infatti su solisti e file con qualità indiscutibili. Le formazioni, che si alternano settimanalmente, sono in effetti due ed entrambe contano su un’efficacissima sezione di archi che si appoggia rispettivamente ad Alessandro Milani e a Roberto Ranfaldi, violini di spalla. Le sezioni dei legni, degli ottoni e delle percussioni, come più volte rilevato in queste note, godono di prime parti e file di assoluta eccellenza. Andrés Orozco-Estrada ne è l’attuale Direttore Principale e a lui sono affidati, nella stagione 2024-25, ben nove appuntamenti, compresi i due fuori abbonamento d’avvio, in ricordo del trentennale. Questo primo, celebrato senza fiori e senza retorica, in puro understatement subalpino, constava della Suite sinfonica dallo straussiano Cavaliere della Rosa, a cui seguivano la Suite sinfonica dall’Uccello di Fuoco e il raveliano Bolero. Chi ci fosse stato trent’anni fa e si ricordasse dell’interpretazione di Prêtre forse ne sarebbe uscito deluso e con parecchi dubbi. La quadratura che Orozco-Estrada dà all’orchestra è l’opposto della flessuosità e dello sfumato che vi apportava il direttore francese. L’attacco del Cavaliere della Rosa è stato assolutamente risoluto con un suono quasi urtante nel fortissimo d’avvio. È pur vero che vi domina il tema dello sbrigativo Barone Ochs che, seppur rozzo cultore di birra e di prezzolate grazie femminili, rimane un membro della corte di Maria Teresa. Molto meglio si mette con la scena della Presentazione della Rosa e con i finali Terzetto e congedo della Marescialla, qui le prime parti dei legni, con un gran carico di sensuale sensibilità, sussurrano languide melodie sul magico e traslucido tessuto degli archi. Stravinskij, nell’Uccello di Fuoco, si conferma, pur componendo per un’orchestra in buca, supporto dello spettacolo sul palcoscenico, il geniale allievo di Rimskij-Korsakov e l’erede di Čaikovskij,. Il racconto della fiaba si dispiega netto e chiaro e Orozco-Estrada, con esemplare acribia tecnica, si fa perdonare l’eccessivo marasma sonoro di un finale confusamente strepitante. Lo stesso Direttore, nell’intervista rilasciata in diretta alla commentatrice RAI nel corso dell’intervallo, paventa il rischio di una eccessiva ripetitività ritmica e motivica nel Bolero. C’è stata tutta, il rischio non è stato schivato. L’orchestrazione straordinariamente variata e l’eccelsa sensibilità dei solisti hanno miracolosamente evitato la noia ma, su un ostinato sempre presente ed eguale del tamburino, si è conformata una teutonica ossessività interpretativa. Lontanissima la sinuosità danzante di Prêtre carica di erotismo e di incantevole sadica violenza. L’Auditorio scontava un gran bel “tutto esaurito”, a promuoverlo, oltre alla notorietà del programma e alla fama degli interpreti, la gratuità della serata. Un pubblico festante ha salutato tutti i pezzi e gratificato tutti gli interpreti, direttore, solisti e file, con l’eccitante entusiasmo di applausi scroscianti.
Martedì 1 ottobre
Ore 10.00
“LA BATTAGLIA DI LEGNANO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Nello Santi
Regia Walter Pagliaro
Interpreti: Giorgio Cebrian, Elisabete Matos, Cesar Hernandez, Manrico Signorini, Luciano Leoni, Angelo Nardinocchi, Ezio Maria Tisi
Catania, 2001
Mercoledì 2 ottobre
Ore 10.00
“L’ELISIR D’AMORE”
Musica Gaetano Donizetti
Direttore Niels Muus
Regia Saverio Marconi
Interpreti: Valeria Esposito, Aquiles Machado, Erwin Schrott, Enrico Marrucci, Roberta Canzian
Macerata, 2002
Giovedì 3 ottobre
Ore 10.00
“OTELLO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Zubin Mehta
Regia Valerio Binasco
Interpreti: Fabio Sartori, Marina Rebeka, Luca Salsi…
Firenze, 2022
Venerdì 4 ottobre
Ore 10.00
“IL BORGOMASTRO DI SARDAAM”
Musica Gaetano Donizetti
Direttore Roberto Rizzi Brignoli
Regia Davide Ferrario
Interpreti: Giorgio Caoduro, Juan Francisco Gatell, Andrea Concetti, Irina Dubrovskaya, Aya Wakizono…
Bergamo, 2017
Ore 21.15 replica Domenica 6 ottobre ore 18.40
“TURANDOT”
Musica Giacomo Puccini
Direttore Michele Spotti
Regia Franco Zeffirelli
Interpreti: Ekaterina Semenchuk, Yusif Eyvazov, Mariangela Sicilia, Riccardo Fassi…
Verona, 2024
Sabato 5 ottobre
Ore 10.40
“Miró, l’uccello luce”
Musica Sylvano Bussotti
Direttore Gianpiero Taverna
Coreografia Joseph Russillo
Interpreti: Marga Nativo, Giuseppe Arena
Venezia, 1981
Domenica 6 ottobre / Sabato 12 ottobre
Ore 10.00
“IL BARBIERE DI SIVIGLIA”
Musica Gioachino Rossini
Direttore Carlo Maria Giulini
Regia Franco Enriquez
Interpreti: Rolando Panerai Nicola Monti Antonietta Pastori Marcello Cortis Franco Calabrese Fernanda Cadoni
RAI, 1954
Ore 12.15 – replica Sabato 12 ottobre
Ore 12.15
“LE CAMPANE”
Musica Renzo Rossellini
Direttore Antonio Pedrotti
Regia Margherita Wallman
Interpreti: Rolando Panerai, Nicola Rossi Lemeni, Mario Carlin.
RAI, 1959
Lunedì 7 ottobre
Ore 10.00
“ATTILA”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Riccardo Muti
Regia Jerome Savary
Interpreti: Samuel Ramey, Cheryl Studer, Kaludi Kaludov, Giorgio Zancanaro…
Milano, 1992
Martedì 8 ottobre
Ore 10.00
“LES VEPRES SICILIENNES”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Daniele Gatti
Regia Valentina Carrasco
Interpreti: John Osborn, Roberta Mantegna, Roberto Frontali, Michele Pertusi…
Roma, 2019
Mercoledì 9 ottobre
Ore 10.00
“LA FANCIULLA DEL WEST”
Musica Giacomo Puccini
Direttore Christian Badea
Regia Bruce Beresford
Interpreti: Anne-Marie Antoine, Benito di Bella, Maurice Stern, Jonathan Green, Gregory Stapp, Charles Damse…
Giovedì 10 ottobre
Ore 09.59
“TRISTAN UND ISOLDE”
Musica Richard Wagner
Direttore Daniele Gatti
Regia Pierre Audi
Interpreti: Andreas Schager, Rachel Nicholls, John Relyea, Brett Polegato, Michelle Breedt, Andrew Rees.
Venerdì 11 ottobre
Ore 10.00
“FINALE DI PARTITA” (Fin de partie)
Musica György Kurtág
Direttore Markus Stenz
Regia Pierre Audi
Interpreti: Frode Olsen, Leigh Melrose, Hilary Summers, Leonardo Cortellazzi…
Milano, 2018
Ore 21.15
“DON CARLO”
Musica Giuseppe Verdi
Direttore Riccardo Chailly
Regia Lluis Pasqual
Interpreti: Francesco Meli, Michele Pertusi, Luca Salsi, Anna Netrebko, Elina Garanca…
Milano, 2023
Arianna Mortelliti, nipote del celebre Andrea Camilleri, ha saputo, sin dal suo esordio, ritagliarsi uno spazio di rilievo nella narrativa italiana contemporanea, grazie a una prosa che coniuga delicatezza emotiva e profondità psicologica. Il suo primo romanzo, “Quella volta che mia moglie ha cucinato i peperoni”, e il più recente “Quel fazzoletto color melanzana”, offrono un’immersione nelle dinamiche familiari, esplorando i segreti, i silenzi e le complessità dei legami che tengono unite, ma allo stesso tempo dividono, le generazioni. “Quella volta che mia moglie ha cucinato i peperoni” narra la storia di Arturo Baldi, un uomo di novantacinque anni che, ridotto in uno stato di coma profondo, resta tuttavia vigile e cosciente all’interno di una realtà sospesa. Mentre i suoi familiari si susseguono al suo capezzale, confessando timori, speranze e desideri mai espressi, Arturo è testimone silenzioso di un dialogo interiore che attraversa le generazioni. Al centro di questi ricordi affiora la figura di Dado, il fratello ribelle e talentuoso, che, nonostante la sua assenza, continua a essere una presenza ingombrante nella vita della famiglia. La narrazione, pur essendo confinata nell’immobilità fisica di Arturo, si apre a un universo di emozioni e memorie che percorrono un secolo di vita, ripercorrendo amori, affetti e fratture che non si sono mai del tutto rimarginate. Con “Quel fazzoletto color melanzana”, Mortelliti amplia il suo sguardo, passando da un microcosmo domestico e intimistico a una narrazione che coinvolge una comunità intera. Lara, la protagonista, ritorna nel paese natale, Castel Cielo, dopo la morte improvvisa dei genitori, per scoprire che il passato che credeva di aver lasciato alle spalle continua a perseguitarla. Il romanzo si sviluppa attorno al mistero della morte dello “zio” Rocco e alla rete di segreti che sembra avvolgere l’intera cittadina, dove ogni figura, dal fotografo Franco al sacerdote Don Alfonso, custodisce frammenti di una verità mai del tutto rivelata. In questo contesto, la narrazione assume i toni di un’indagine psicologica e sociale, dove il lato oscuro della comunità si intreccia con i ricordi e le paure personali della protagonista. Se “Quella volta che mia moglie ha cucinato i peperoni” si distingue per l’approccio intimista e introspettivo, con una forte concentrazione sulla coscienza del protagonista, “Quel fazzoletto color melanzana” si configura come un romanzo più dinamico e corale, in cui i segreti della famiglia si mescolano ai pettegolezzi e alle tensioni che serpeggiano in una piccola comunità provinciale. L’autrice, in entrambi i romanzi, dimostra una notevole abilità nel costruire personaggi complessi, attraversati da sentimenti contrastanti e da una profondità emotiva che traspare in ogni dialogo, in ogni gesto, in ogni silenzio. Il suo stile si caratterizza per una prosa elegante e sobria, che si nutre di dettagli emotivi e psicologici, evitando eccessi descrittivi per concentrarsi sull’essenziale. In “Quella volta che mia moglie ha cucinato i peperoni”, la tensione si sviluppa principalmente all’interno della mente di Arturo, attraverso un flusso di pensieri e ricordi che si snodano con lentezza e precisione. In “Quel fazzoletto color melanzana”, al contrario, il ritmo della narrazione è più serrato, scandito dalle rivelazioni e dalle scoperte che Lara compie man mano che si addentra nel suo passato. Nonostante le differenze strutturali tra i due romanzi, entrambi condividono un tema centrale: la memoria e il modo in cui essa modella e influenza le relazioni umane. In “Quella volta che mia moglie ha cucinato i peperoni”, la memoria di Arturo, pur essendo confinata in uno stato di incoscienza apparente, diventa un luogo di rifugio, di confronto e, in ultima analisi, di riconciliazione. In “Quel fazzoletto color melanzana”, invece, la memoria è un fardello da cui Lara tenta di liberarsi, ma che alla fine si rivela essere la chiave per comprendere appieno la sua identità e il suo ruolo all’interno della famiglia. Arianna Mortelliti, con entrambe queste opere, dimostra una notevole maturità narrativa, capace di affrontare con delicatezza temi complessi come l’eredità familiare, il peso dei segreti e l’inesorabile potere del tempo. La sua capacità di creare atmosfere ricche di tensione emotiva e di dare voce a personaggi tormentati e vulnerabili, la pone tra le autrici più interessanti della scena letteraria contemporanea. La forza della sua scrittura risiede nella capacità di rendere universali le storie intime e personali, di trasformare i piccoli gesti quotidiani e i ricordi più privati in simboli di esperienze umane condivise. Entrambi i romanzi rappresentano un’esplorazione profonda dell’animo umano, delle sue fragilità e delle sue forze, offrendo al lettore un viaggio emozionale ricco e coinvolgente, dove ogni pagina svela una nuova sfaccettatura della complessità dei legami che ci uniscono e ci dividono. A tal proposito, le parole di Marcel Proust risuonano con eloquente profondità: “Il ricordo delle cose passate non è necessariamente il ricordo di come sono state.” Mortelliti ci guida con elegante maestria attraverso l’inestricabile rapporto tra ciò che abbiamo vissuto e l’influenza di questi vissuti sul presente, dimostrando come la nostra identità sia plasmata da una memoria che, lungi dall’essere mera testimonianza del passato, continua a scolpire il nostro essere nel mondo.
La scomparsa del grande maestro e il suo De Profundis di Oscar Wilde, l’opera che non ha potuto debuttare al Teatro Vascello.
Glauco Mauri, uno dei più grandi maestri del teatro italiano, ci ha lasciato con un vuoto profondo, e la sua scomparsa è avvenuta in un momento di grande attesa per un altro dei suoi capolavori teatrali. Nato nel 1930, Mauri ha dedicato la sua vita all’arte della recitazione, distinguendosi non solo per il suo talento interpretativo, ma anche per la sua capacità di trasmettere i grandi dilemmi esistenziali che attraversano l’opera umana. Con una carriera che abbraccia più di sei decenni, è riuscito a incarnare la tragedia e la commedia con una naturalezza rara, spaziando da Shakespeare a Beckett, da Pirandello a Ionesco. Fondatore della Compagnia Mauri Sturno, insieme a Roberto Sturno, Glauco Mauri ha dato vita a innumerevoli spettacoli che hanno esplorato i temi dell’amore, della sofferenza e della condizione umana. Era noto per le sue interpretazioni di Re Lear, Aspettando Godot e Sei personaggi in cerca d’autore, portando sulle scene italiane e internazionali la sua visione profonda e appassionata del teatro. Ogni sua interpretazione si distingueva per l’intensità emotiva e l’attenzione al dettaglio, elementi che lo rendevano non solo un attore, ma un vero e proprio “filosofo del palcoscenico”. Nel 2024, all’età di 94 anni, Mauri era pronto a presentare una sua nuova versione di De Profundis, la celebre lettera di Oscar Wilde, che l’autore scrisse durante la sua prigionia nel carcere di Reading. Questo testo, considerato una delle opere più intime e struggenti di Wilde, riflette il tormento interiore dell’autore inglese, vittima della società e delle sue scelte personali. Mauri, con il suo talento e la sua sensibilità, aveva adattato De Profundis per il teatro, spogliandolo delle parti più letterarie per renderlo più accessibile al pubblico moderno. Il suo obiettivo era quello di riportare in scena una parabola universale della sofferenza, della redenzione e dell’amore, temi che avevano caratterizzato l’intera carriera di Wilde e, in fondo, anche quella di Mauri. Lo spettacolo doveva debuttare al Teatro Vascello di Roma a fine settembre 2024, ma il destino ha voluto che Mauri non riuscisse a calcare per l’ultima volta quel palcoscenico a cui aveva dedicato tutta la sua vita. In De Profundis, Mauri avrebbe interpretato il dolore e la sofferenza di Wilde come mai prima, dando vita a un’opera che, per il grande attore, rappresentava una sintesi perfetta tra arte e vita. La sua morte non rappresenta solo la fine di una carriera straordinaria, ma anche la conclusione di un percorso esistenziale e artistico che ha arricchito il teatro italiano e mondiale. Mauri ha lasciato un’eredità fatta di passione, dedizione e una visione profonda dell’arte teatrale come strumento di riflessione e comprensione del mondo.
Es erhub sich ein Streit BWV 19 è la seconda in ordine di tempo delle 5 cantate destinate alla Festa di San Michele e di tutti gli angeli (29 settembre). Eseguita la prima volta a Lipsia il 29 settembre 1726 la Cantata si basa sulla elaborazione di un inno di Christian Friedrich Henrici in onore dell’Arcangelo Michele pubblicato nel 1724-25. Un testo che consta di 7 strofe, 4 delle quali utilizzate in questa Cantata con modifiche più o meno consistenti, ma i primi due numeri della partitura sono liberi testi madrigalistici ispirati al passo dell’ Apocalisse (cap.2 vers.7-12): “E ci fu una battaglia nel cielo: Michele e i suoi angeli combatterono contro il dragone. Il dragone e i suoi angeli combatterono, ma non vinsero, e per loro non ci fu più posto nel cielo. Il gran dragone, il serpente antico, che è chiamato diavolo e Satana, il seduttore di tutto il mondo, fu gettato giù; fu gettato sulla terra, e con lui furono gettati anche i suoi angeli.
Allora udii una gran voce nel cielo, che diceva: «Ora è venuta la salvezza e la potenza, il regno del nostro Dio e il potere del suo Cristo, perché è stato gettato giù l’accusatore dei nostri fratelli, colui che giorno e notte li accusava davanti al nostro Dio. Ma essi lo hanno vinto per mezzo del sangue dell’Agnello e con la parola della loro testimonianza; e non hanno amato la loro vita, anzi l’hanno esposta alla morte. Perciò rallegratevi, o cieli, e voi che abitate in essi! Guai a voi, o terra, o mare! Perché il diavolo è sceso verso di voi con gran furore, sapendo di avere poco tempo», mentre il numero finale è classico Corale. La lotta contro il dragone è l’immagine dominante con il furioso combattimento fra chi impersona i princìpi del bene e chi rappresenta quelli del male. Il poeta ricava l’invocazione all’angelo pietoso perché non abbandoni il fedele e lo accompagni alla salvezza eterna. Sono 2 i punti cardine della composizione i nr. 1 e 5 anche se non si può trascurare la bella aria bipartita del soprano con 2 oboi d’amore. Il coro iniziale (nr.1) nutrito dalla presenza di un’ampia orchestra che, oltre agli archi aggiunge 3 trombe, sempre presenti in tutte le cantate bachiane per la festa di San Michele, con l’appoggio dei timpani e poi ben 5 oboi, tra cui 2 d’amore e 3 da caccia. Questo coro è un poderoso mottetto tripartito con una prima sezione in stile fugato, senza un preambolo strumentale e caratterizzato da un vertiginoso processo motorio, da una travolgente sequenza di semicrome per disegni ostinati, mentre la sezione centrale, omofona, sfrutta su un diverso piano, specialmente nel basso continuo, le figure “ostinate” della fuga. Il nr.5 è un’aria per tenore un “adagio”, sostenuta dagli archi in ritmo di “Siciliana” con la presenza di una tromba alla quale viene affidata la melodia del Corale Herzlich lieb hab ich dich, O Herr su testo di Martin Schalling del 1569 su musica di Anonimo, già presente alla fine della Johannes Passion e che utilizzerà ancora come finale per l’ultima delle Cantate dedicate alla festa di San Michele, la Nr.149.
Nr.1 – Coro
Scoppiò una battaglia.
Il serpente furioso, l’infernale dragone
si scagliò contro il cielo con rabbia vendicativa.
Ma Michele prevalse,
e le schiere degli angeli che lo circondano
abbatterono la crudeltà di Satana.
Nr.2 – Recitativo (Basso)
Dio sia lodato! Il dragone giace sconfitto.
L’immortale Michele
e le sue schiere di angeli
lo hanno vinto.
Ora giace nelle tenebre
incatenato
e non troverà più posto
nel Regno dei Cieli.
Restiamo fiduciosi e sicuri,
e anche se i suoi ruggiti ci terrorizzano,
il nostro corpo e la nostra anima
saranno protetti dagli angeli.
Nr.3 – Aria (Soprano)
Dio ci invia a Macanaim;
sia che restiamo sia che partiamo
possiamo stare tranquilli e sicuri
di fronte ai nostri nemici,
che sia vicino o lontano, è accampato
intorno a noi l’angelo del Signore,
con i cavalli ed il suo carro di fuoco.
Nr.4 – Recitativo (Tenore)
Cos’è questo misero uomo, figlio della terra?
Un verme, un povero peccatore.
Ma guardate quanto il Signore lo ama,
tanto da non disprezzarlo
e da mettere i figli del cielo,
l’esercito dei serafini,
per vegliarlo e proteggerlo,
alla sua difesa.
Nr.5 – Aria (Tenore)
Restate, angeli, restate con me!
Guidatemi stando ai miei fianchi,
cosicché il mio piede non possa inciampare!
Ma insegnatemi anche qui
a lodare la vostra grande santità
e a rendere grazie all’Altissimo!
Nr.6 – Recitativo (Soprano)
Adoriamo il volto
degli angeli santi
e con i nostri peccati
non li allontaniamo né rattristiamo.
Così essi saranno, quando il Signore
ci imporrà di dire addio al mondo,
per la nostra beatitudine
anche il nostro carro verso il Cielo.
Nr.7 – Corale
Fa che i tuoi angeli mi trasportino
sul rosso carro di Elia
e proteggano la mia anima
come quella di Lazzaro dopo la morte.
Fà che essa riposi nel tuo seno,
riempila di gioia e di consolazione,
finchè il mio corpo risorgerà dalla terra
per ricongiungersi a lei.
Traduzione Emanuele Antonacci
La seconda, delle due Cantate destinate alla Diciottesima domenica dopo la Trinità è Gott soll allein mein Herze haben BWV 169 eseguita la prima volta a Lipsoa il 22 ottobre 1726. Si tratta di una cantata solistica per voce di contralto che trae 2 dei 7 brani che la compongono dai primi 2 movimenti di un concerto, forse per oboe, scritto a Kothen e andato perduto nella versione originale ma conservato nella rielaborazione per clavicembalo e archi con il numero BWV 1053, posteriore al suo impiego nella Cantata in questione e nella nr.49 dove, il 3° movimento di quel concerto forma la sinfonia d’apertura. Il primo dei 2 brani in oggetto dalla parodia viene utilizzato come sinfonia con organo concertante e con l’aggiunta, nell’organico strumentale, di una coppia di oboi e di un oboe da caccia, generalmente in funzione di raddoppio degli archi. Il 2° movimento, “Siciliana” da vita a un’aria dal contenuto dolente e funebre, ma che con l’utilizzo di un ritmo di danza, così morbido e inusitato coglie bene l’essenza del testo che invita i fedeli a ripudiare la superbia, la ricchezza la concupiscenza degli occhi e della carne. Alla prima lettera di Giovanni, cap.2 versetti 15-16:”Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo”. Accanto a questo concetto vi è l’invito all’amore di Dio, elemento espresso in particolare nella prima aria tripartita (nr.3) che vede ancora l’impiego dell’organo obbligato sostenuto da pochi strumenti, impegnandolo in un vivace gioco virtuosistico. Dall’amore di Dio è facile passare a quello per il prossimo e questo viene affermato negli ultimi 2 brani, un recitativo secco (Nr.6) e il Corale, che vede la terza strofa tratta da “Nun bitten wir den Heiligen Geist” di Martin Lutero (1524).
Nr.1 – Sinfonia
Nr2 – Arioso (Contralto)
Dio solo deve avere il mio cuore.
Io vedo bene che il mondo,
Che considera il suo sudiciume come inestimabile,
Mi tratta con tanta amicizia
Perchè vorrebbe essere
Il prediletto della mia anima.
Ebbene no: Dio solo deve avere il mio cuore.
In Lui trovo il bene più prezioso.
Certo, noi vediamo
Qua e là, sulla terra,
Un rivoletto di contentezza,
Che sgorga dalla bontà dell’Altissimo;
E’ Dio, infatti, la sorgente, traboccante di fiumi,
Là io attingo ciò che mi può dare
Un vero ristoro per l’eternità:
Dio solo deve avere il mio cuore.
Nr.3 – Aria (Contralto)
Dio solo deve avere il mio cuore,
In Lui trovo il bene più prezioso.
Egli mi ama nel tempo della sventura
E mi ristorerà nella beatitudine
Con l’ abbondanza della Sua casa.
Nr.4 – Recitativo (Contralto)
Che cosa è l’amore di Dio?
Pace dello spirito,
Delizia della mente,
Paradiso dell’anima.
Chiude le porte dell’inferno
E spalanca il paradiso;
E’ il carro di Elia,
Che ci condurrà in paradiso
Nel seno di Abramo.
Nr.5 – Aria (Contralto)
Muori in me,
Mondo, con tutto il tuo amore,
Così che il mio cuore
Qui sulla terra, sempre più,
Possa praticare l’amore di Dio;
Morite in me,
Superbia, ricchezza, bramosia degli occhi,
Voi abietti desideri della carne!
Nr.6 – Recitativo (Contralto)
Questo vuole anche dire
Essere fedeli al vostro prossimo!
Perchè così dicono le scritture:
Tu amerai Dio ed il prossimo tuo.
Nr.7 – Corale
O dolce amore, donaci la tua benevolenza,
Facci sentire il fuoco dell’amore,
Affinchè noi ci amiamo di cuore l’un l’altro
E rimaniamo concordi nella pace.
Signore pietà.
Traduzione Alberto Lazzari
Opera in tre atti su libretto di Antonio Sommo da “Gustave III, ou Le bal masqué” di Eugène Scribe. Freddie De Tommaso (Riccardo), Lester Lynch (Renato), Saioa Hernández (Amelia), Kevin Short (Samuel), Adam Lau (Tom), Elisabeth Kulman (Ulrica), Annika Gerhards (Oscar), Jean-Luc Ballestra (Silvano), Samy Camps (Il primo giudice, un servo d’Amelia). Transylvania State Philharmonic Choir, Cornel Graza (Maestro del coro), Orchestre Philharmonique de Monte-Carlo, Marek Janowski (direttore). Registrazione: Giugno 2021 Auditorium Ranieri III – Monte Carlo e Novembre 2021 Radio Studio Cluj. 2 CD Pentatone PTC5187 048
Incidere oggi “Un ballo in maschera” è una sfida non di poco conto e mettere in programma una registrazione in studio lo è ancor meno. Quando poi le condizioni sfidano il buon senso diventa quasi una prova di coraggio. E’ quello che si può dire per la nuova registrazione PentaTone il quale è in primo luogo un miracolo tecnico compito dagli ingegneri del suono. L’opera è stata, infatti, registrato in due sezioni distinte e autonome e poi montata in post-produzione. L’orchestra e i solisti impegnati a Montecarlo mentre il coro registrava nella lontana Cluj, nella Transilvania romena, e poi i due piani sono stati ricomposti con risultati bisogna ammettere impressionanti tanto che sarebbe impossibile immaginare al solo ascolto la complessità dell’operazione.
Il prodigio è tecnico ma purtroppo non musicale. Quella che si ascolta è un’esecuzione nel complesso valida ma incapace di lasciare un segno nella ricca discografia dell’opera. Prima registrazione in studio dopo alcuni recital per Freddie De Tommaso, il tenore italo-britannico che si è rivelato con forza negli ultimi anni, non convince proprio per la scelta del titolo. La voce di De Tommaso è sicuramente ragguardevole, ampia, robusta, ricca di armonici e l’interprete ma manca di sensibilità e gusto – non si può che apprezzare la scelta di evitare inutili risate in “è scherzo od è follia” ma Riccardo non è ci pare nelle sue corde. Nonostante l’impegno manca di autentica eleganza, invano in lui si cercherebbe quella nobile eleganza che del personaggio è la cifra più autentica. De Tommaso ci pare più portato per il repertorio “verista” e forse tra quei titoli sarebbe stato opportuno scegliere per il debutto discografico.
Lester Lynch è un Renato sottotono, nonostante l’impegno giunge appena a scalfire la superficie del personaggio. La voce e anonima e mancano sia l’abbandono dolente sia lo scatto protervo sostituiti da una generica correttezza che non risulta sufficiente in questo contesto.
Le cose vanno decisamente meglio sul versante femminile. Saioa Hernández è una notevole Amelia. Forse un po’ vecchio stile nel puntare tutto sulla prestanza vocale ma è innegabile che il materiale è ragguardevolissimo e nel complesso ben controllato – qualche sbavatura solo nei gravi. Parte forse un po’ prudente ma la grande aria del II atto e ancor più quella del terzo sono di grande impatto. L’ampiezza della cavata e la ricchezza degli acuti colpiscono innegabilmente e fanno perdonare un’interpretazione un po’ superficiale.
Sorprende positivamente come Ulrica Elisabeth Kulman, ricordavamo il mezzosoprano austriaco in ruoli più leggeri mentre qui sfoggia una voce ampia e sicura con gravi ricchi e sonori – solo una piccola forzatura – e un accento pulito e rigoroso con un’apprezzabile volontà di risolvere il personaggio nel canto senza inutili effetti. Voce un po’ piccola e personalità non così evidente ma la giusta dose di brillantezza per l’Oscar di Annika Gerhards. Tutte ben centrate le parti di fianco con una nota di merito per la voce ricca e sonora di Jean-Luc Ballestra come Silvano.
Marek Janowski si dimostra invece scarsamente a suo agio con la scrittura verdiana. Non dirige male, anzi, le qualità musicali sono innegabili e i suoni orchestrali spesso molto belli ma non riesce mai a essere autenticamente espressivo, a cogliere la giusta atmosfera dei singoli momenti. Nel complesso ci è parso più a suo agio nei momenti brillanti, di un gusto spumeggiante quasi francese rispetto a quelli più drammatici in cui più palese è apparsa una certa superficialità espressiva. Buona la prestazione dell’Orchestre Philharmonique de Monte-Carlo compagine di sicura affidabilità e da sottolineare la qualità e la perfetta idiomaticità del Transylvania State Philharmonic Choir.
Venezia, Palazzetto Bru Zane, Festival “Passione violoncello”, 21 settembre-24 ottobre 2024
“IL BEETHOVEN FRANCESE”
Quatuor Dutilleux
Violini Guillaume Chilemme, Matthieu Handtschoewercker
Viola David Gaillard
Violoncello Thomas Duran
Altro violoncello Victor Julien-Laferrière
George Onslow: Quintette avec deux violoncelles n° 21 en sol mineur, op. 51; Théodore Gouvy: Quintette avec deux violoncelles n° 3 en ré mineur
Venezia, 25 settembre 2024
Prosegue con successo il Festival d’autunno del Palazzetto Bru Zane, che quest’anno indaga il violoncello nelle sue diverse sfaccettature. Nel concerto, di cui ci occupiamo, sono stati presentati due quintetti, nei quali al canonico violoncello, presente nel quartetto per archi, se ne aggiunge un altro, che svolge prevalentemente la funzione di primo strumento. Aleggiava, nella deliziosa sale dei concerti del Palazzetto veneziano, la figura di George Onslow, a suo tempo definito da un editore il “Beethoven francese”. Fu l’interesse per le forme “classiche”, rivisitate dal maestro di Clermont-Ferrand nelle sue composizioni, a collocarlo vicino a Beethoven e, più in generale, al mondo tedesco. Una posizione, che lo distinse nel panorama musicale francese dell’epoca. Per altri versi, certe combinazioni strumentali utilizzate da Onslow – in primis i numerosi quintetti con due violoncellli – attirarono degli emulatori, tra cui addirittura Franz Schubert con il suo Quintetto D. 956. Più tardi, Théodore Gouvy seguì le orme del suo conterraneo con sei quintetti per archi composti tra il 1869 e il 1880, anche se, nel frattempo, l’influenza proveniente da oltre Reno era diventata inaccettabile. Onslow e Gouvy erano gli autori dei due quintetti con violoncello, in programma nella serata, davvero intrigante, che ha visto come esecutori i solisti del Quartetto Dutilleux, insieme al violoncellista Victor Julien-Laferrière. Purezza del suono, assoluta intonazione, varietà di accenti, perfetta intesa hanno reso veramente straordinaria l’interpretazione offerta dagli strumentisti. Per quanto riguarda il Quintetto di Onslow (1834), senza dubbio una delle sue opere più riuscite ed eseguite – che risente dell’insegnamento di Reicha e richiede notevole abilità nella ditteggiatura –, impeto ed energia hanno caratterizzato l’esecuzione del primo movimento, che ha prodotto un senso di eccitazione, interrotta solo da una parentesi lirica. La frenesia, che ha percorso il primo movimento è cresciuta con lo Scherzo: presto, il cui rapido staccato ha dato l’idea di una corsa mozzafiato, che è rallentata solo nel Trio dal carattere corale. Nel movimento seguente, Andante non troppo lento, si sono messi in luce il violoncello e la viola, per presentare una pacata melodia popolare, creando un senso di calma, che ha attraversato il movimento, con l’eccezione di due sezioni drammatiche. Un potente primo tema ha aperto l’emozionante finale, Presto agitato, composto da climax in successione e segnato dall’alternarsi di pianissimo e fortissimo, per sfociare in un Presto finale, costellato di momenti folgoranti. In puro piacere si è tradotto l’ascolto del Quintetto di Gouvy, terminato nel 1879, anche se il terzo movimento risale a sei anni prima. Piena di sfumature e finezze interpretative è risultata la performace offerta dai solisti, affrontando i vari movimenti: l’Allegro moderato di fattura tradizionale, che rivela un importante uso del cromatismo; l’ Andante patetico, un movimento dal tono di marcia funebre, il cui secondo tema si presenta in forma di canone; l’Intermezzo. Allegretto grazioso, una pagina adorabile, che si è fatta particolarmente apprezzare (ed è stata riproposta come bis); il Finale adagio e allegro con brio, aperto da un’introduzione lenta, seguita da una pagina frenetica e concisa. Scroscianti applausi con qualche “bravi!”
Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino – Stagione lirica “Autunno 2024”
“LA CENERENTOLA”
Melodramma giocoso in due atti su libretto di Jacopo Ferretti, dalle opere di Perrault, Étienne e Fiorini.
Musica di Gioachino Rossini
Don Ramiro PATRICK KABONGO
Dandini WILLIAM HERNANDEZ
Don Magnifico MARCO FILIPPO ROMANO
Clorinda MARIA LAURA IACOBELLIS
Tisbe ALEKSANDRA METELEVA
Angelina TERESA IERVOLINO
Alidoro MATTEO D’APOLITO
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Gianluca Capuano
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Manu Lalli
Scene Roberta Lazzeri
Costumi Gianna Poli
Luci Vincenzo Apicella (riprese da Valerio Tiberi)
Allestimento del Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, 24 settembre 2024
Aspettando una promettente stagione 2025, che vedrà anche il ritorno del balletto, “La Cenerentola” di Rossini inaugura la sezione d’opera della proposta autunnale. Se a inizio Ottocento la protagonista non avrebbe di certo potuto scoprire la caviglia per calzare la famosa scarpetta, da sempre non contemplata nell’opera, è altrettanto vero che gli spettatori arrivano in teatro con l’immaginario della Disney negli occhi. Così, la regia di Manu Lalli recupera sapientemente la componente magica della fiaba, senza ridurne il potenziale attuativo. Non è un caso che scintillanti fatine danzino intorno alla protagonista durante le sue letture; le stesse consegneranno ad Angelina la coppia di bracciali in vece delle scarpette o, al ballo, spingeranno il principe a imbattersi in lei, per poi prontamente ricordare lo scadere della mezzanotte. Fa da sfondo la barocca cornice francese delle scene di Roberta Lazzeri, plasmate con spezzoni di pareti rotanti, combinate a comporre i vari ambienti e abilmente dilatate da una fusione prospettica col pavimento a scacchiera del palco. Anche i costumi di Gianna Poli, in bilico tra Settecento e Ottocento, fanno la loro parte, mentre le luci di Vincenzo Apicella (riprese da Valerio Tiberi) ben enfatizzano il temporale che bloccherà la carrozza del principe davanti alla casa di Cenerentola. Un’atmosfera fiabesca che è ben lontana dall’essere fine a se stessa, poiché la componente magica è qui solamente il tramite per realizzare il trionfo delle virtù della protagonista, germogliate tra la luce fatata dei libri della biblioteca materna e progressivamente messe in pratica nel mondo reale, fino all’epilogo. Ed è qui che assistiamo a una piccola sorpresa: nel finale i riflettori sono puntati sul pas de deux dei due novelli sposi, ma appena prima della chiusura di sipario la giovane resta un attimo da sola, con lo sguardo rivolto verso il pubblico… ecco a voi una Cenerentola moderna ed emancipata: c’è davvero bisogno del principe? Complessivamente di buon livello anche la compagine musicale, a partire dalla direzione di Gianluca Capuano, che è parso piuttosto ferrato nella conduzione, a meno di qualche disomogeneità nell’agogica. Intensa la sinergia col motivato coro di Lorenzo Fratini e con l’orchestra del Maggio, che ha reso possibile suoni compatti e di notevole nitore, all’interno di una direzione vivace e spigliata negli inserti più buffi, impavida di fronte a fulminei sillabati e duttile nella ricerca di spunti coloristici. Nel ruolo principale, Teresa Iervolino dà prova di consolidata esperienza, restituendo appieno l’evoluzione del personaggio. Con particolare predilezione per gli staccati, il mezzosoprano esordisce con timidi toni flemmatici in “Una volta c’era un re”, per poi dare sfoggio del brunito timbro dei centri, un po’ meno robusto sui gravi, particolarmente malleabile nel risolvere le rapide volatine e le impervie agilità che saggiano l’intera gamma dell’estensione. Il portamento ben si distingue da quello delle sorellastre e più che presentarsi al ballo per “imprinciparsi”, i toni elegiaci ricercano una sincera predisposizione al rispetto, all’amore e alla bontà. L’impulso lirico e lo spirito interpretativo sbocciano nel rondò finale e nelle variazioni virtuosistiche della cabaletta, di spiccato senso ritmico, sebbene si avverta qualche suono acuto più sfuggente. Accanto a lei, faceva da protagonista il sensazionale Don Magnifico di Marco Filippo Romano, in strabiliante coesione col personaggio e capace di fiutare i più minuziosi appigli espressivi della parte. Lo scavo vocale e dinamico nell’alternanza di accenti, rimarchi, chiusure di frase, falsetti e rapidità di sillabati, è sorretto dalla dovuta gestione della respirazione e da un buon sostegno, che gli consentono un sicuro effetto sui rapidissimi sillabati. Decisamente a suo agio con la tessitura, il cantante mantiene il caldo colore timbrico e la perlopiù nitida ed efficace proiezione anche sulle frasi di maggiore spinta e tenuta, per un’interpretazione davvero a tutto tondo. A chiudere il quartetto familiare, Aleksandra Meteleva (Tisbe) e Maria Laura Iacobellis (Clorinda) sono due sorellastre scenicamente goffe e credibili, chiamate a fare i conti con coreografie impegnative, che (al pari dei loro colleghi) sono costate loro qualche asincronia. Se per la prima il riscatto da un registro grave talora ristretto non è contemplato in partitura, la seconda ha potuto esibire il suadente timbro sopranile e le proprie doti virtuosistiche nel suo momento solistico, costellato da pirotecniche variazioni di squillante sonorità. A palazzo, il “falso” principe di William Hernandez ben si confà a una certa difficoltà del baritono nel sostenere i tempi ampi delle frasi più aristocratiche, dove l’emissione risulta meno limpida, dimostrandosi più conforme ai panni del cameriere, risolto con brillantezza di fraseggio e verve comica. Più controverso, invece, l’Alidoro di Matteo d’Apolito, che si conferma un deus ex machina molto abile nell’interagire con le danzatrici incantate, ma a tratti un po’ approssimativo nell’uso della parola e sui passi di coloratura, a fronte di un’emissione non sempre a fuoco. Chiudeva il quadro il Don Ramiro di Patrick Kabongo, il cui soave timbro di tenore lirico-leggero, unito a una certa equilibratezza nel porgere le frasi, tratteggia con gusto il carattere del “vero” principe, anche se rimane un po’ sullo sfondo nei momenti di maggiore impeto, sfogati in un registro acuto sicuro, ma poco svettante. Caloroso l’applauso del pubblico in sala al termine della lunga rappresentazione. Foto Michele Monasta
Roma, Parco Archeologico del Colosseo
CYPREA: LA RETE DI AFRODITE
curata da Giorgio Calcara
direzione artistica Stefania Pennacchio
La mostra internazionale “Cyprea: La rete di Afrodite”, ospitata dal Parco archeologico del Colosseo dal 26 settembre al 26 novembre 2024, rappresenta un evento di straordinaria importanza culturale e artistica. Il titolo stesso richiama alla mente la conchiglia Cypraea, simbolo della dea Afrodite, divinità della bellezza, dell’amore e della fertilità nel pantheon greco, e richiama i profondi legami tra il Mediterraneo e la figura mitologica della dea. Afrodite è una figura centrale della mitologia greca, associata alla bellezza, all’amore e alla seduzione, con radici che affondano nell’antica religione della Mesopotamia e dei culti fenici. La leggenda vuole che sia nata dalla schiuma del mare vicino a Cipro, e non sorprende che proprio questa isola, crocevia di influenze culturali e commerciali tra Oriente e Occidente, sia stata eletta luogo di culto primario per la dea. Cipro, da sempre nodo strategico nel Mediterraneo, rappresenta un punto cardine nella storia antica, e il culto di Afrodite riflette l’importanza dell’isola nel tessuto culturale del mondo antico. Il mito di Afrodite non è solo legato alla bellezza fisica, ma anche al concetto di kalokagathia, tema centrale dell’esposizione, che unisce l’ideale di bellezza (kalos) a quello di bontà ed eccellenza morale (agathos). Questo concetto, nato nella cultura greca classica, ha attraversato i secoli influenzando la filosofia, l’arte e la morale dell’antica Grecia fino ai giorni nostri. L’elemento innovativo di questa mostra risiede nell’incontro tra l’arte contemporanea e l’archeologia. Il curatore, Prof. Giorgio Calcara, e la direttrice artistica, Stefania Pennacchio, hanno orchestrato un dialogo fra antiche iconografie e moderne interpretazioni del mito di Afrodite. L’obiettivo è esplorare come i valori estetici e morali incarnati dalla dea abbiano influenzato non solo l’antichità, ma anche la cultura visiva contemporanea. Gli artisti partecipanti, italiani e ciprioti, sono stati selezionati per la loro capacità di esplorare, attraverso vari media, temi come l’amore, la bellezza e la fertilità, con un approccio che combina la tradizione artistica classica con la sensibilità moderna. Tra questi troviamo Nicola Verlato, noto per le sue opere di iperrealismo che uniscono una rigorosa tecnica pittorica con tematiche mitologiche e simboliche, e Rosa Mundi, le cui installazioni riflettono la complessità delle emozioni umane attraverso l’uso di materiali e simboli antichi e moderni. La partecipazione di artisti provenienti da due regioni geograficamente e culturalmente legate come l’Italia e Cipro rafforza il messaggio della mostra, sottolineando la continuità culturale e l’influenza reciproca tra questi due paesi. L’Italia, con la sua eredità romana e rinascimentale, e Cipro, con la sua posizione storica come avamposto della cultura greca nel Mediterraneo orientale, diventano protagonisti di un dialogo simbolico che trascende il tempo e lo spazio. La mostra non si limita a un’esposizione circoscritta, ma si estende a creare una rete culturale che unisce simbolicamente città come Roma, Taormina/Naxos, Pafos e Nicosia, luoghi che condividono una forte eredità classica e mitologica. Roma, centro del potere e della cultura nell’antichità, e Taormina, con le sue radici greche e il famoso teatro antico, diventano nodi essenziali di questa rete mediterranea. Allo stesso modo, Pafos, luogo di culto primario di Afrodite a Cipro, e Nicosia, capitale dell’isola, rappresentano l’altro polo di questo legame culturale e storico. Questo percorso geografico sottolinea il concetto di kalokagathia, che non è solo un’idea astratta, ma una filosofia di vita incarnata nelle opere d’arte, nell’architettura e nella letteratura delle città coinvolte. Il viaggio ideale tra queste città invita i visitatori a riflettere su come la bellezza del passato continui a influenzare le interpretazioni contemporanee dell’arte e della vita stessa. La mostra si inserisce anche in un contesto più ampio: quello della rinascita culturale del bacino del Mediterraneo, visto non solo come crocevia di popoli, ma come fucina di idee, filosofie e valori. Questo mare, che unisce e separa allo stesso tempo, ha sempre rappresentato un legame simbolico tra le civiltà europee, africane e asiatiche. Attraverso i millenni, il Mediterraneo è stato teatro di incontri culturali, scambi commerciali e scontri militari, ma anche di fioriture artistiche e filosofiche che hanno plasmato la nostra identità culturale. La mostra “Cyprea: La rete di Afrodite” vuole sottolineare questa dimensione storica e culturale del Mediterraneo, proponendo una riflessione su come i valori e le estetiche classiche possano essere rigenerati e reinterpretati nell’arte contemporanea. Coniugando il passato con il presente, l’eterno con il temporaneo, l’esposizione rappresenta una celebrazione della bellezza e dei valori che uniscono l’umanità attraverso il tempo. Questo evento dunque non è solo un omaggio ad Afrodite, ma un invito a riflettere sulla continuità culturale e sulla rilevanza del mito nella nostra società contemporanea. La kalokagathia, l’ideale di bellezza morale e fisica, emerge come un concetto atemporale che continua a ispirare artisti e pensatori, dimostrando come l’antico e il moderno possano convivere e arricchirsi reciprocamente.
Cinquant’anni di storia, di musica e opera. 1975-2025. Fondazione Arena di Verona festeggia mezzo secolo di storia al Teatro Filarmonico. E celebra con la città l’anniversario della riapertura del Teatro Filarmonico, ricostruito dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
Il cartellone 2025 offre una proposta raffinata e varia, tanto per le 6 opere liriche quanto per i 12 concerti sinfonici con solisti di fama internazionale. Ben 3 le nuove produzioni, numerosi anniversari, appuntamenti straordinari e collaborazioni con i principali teatri del Veneto, per oltre 50 alzate di sipario. Dal 1° ottobre si potranno rinnovare gli abbonamenti, confermate le tariffe 2024.
Il cartellone della Stagione Lirica prenderà il via in gennaio (dal 19 al 26), con un allestimento tutto nuovo di Falstaff di Antonio Salieri, l’opera che riaprì il Teatro cinquant’anni fa. Alla guida della nuova produzione, inserita nel Festival Mozart a Verona, sarà Paolo Valerio. Dal 16 al 23 febbraio per la prima volta nell’ultimo mezzo secolo di spettacoli al Teatro Filarmonico: La Wally del poco ricordato ma valoroso Alfredo Catalani, nell’allestimento dei teatri lirici emiliani, con interpreti di pregio quali Maria José Siri, Carlo Ventre, Youngjun Park. Dal 16 al 23 marzo tornerà Elektra di Richard Strauss. Una nuova produzione, a ventitré anni dall’unica programmazione nei cartelloni di Fondazione Arena, firmata da Yamal Das Irmich, con Lise Lindstrom, Ewa Vesin e Anna Maria Chiuri. Dopo la primavera sinfonica e il 102° Festival areniano, dal 26 ottobre al 2 novembre proseguirà la riscoperta dei titoli meno noti di Giacomo Puccini: anche Le Villi sarà una prima volta per le scene di Fondazione Arena, qui nell’allestimento del Regio di Torino. Dal 16 al 23 novembre, altro debutto, il pubblico scoprirà un capolavoro buffo di Rossini, Il Turco in Italia, nell’applaudita coproduzione guidata da Rovigo con Carlo Lepore e Sara Blanch. Infine, dal 14 al 21 dicembre, il Verdi giovanile (anch’esso rappresentato una sola volta al Filarmonico, e una sola in Arena nel ‘72) con Ernani, in una nuova produzione di Stefano Poda con Amartuvshin Enkhbat, Angelo Villari e Alexander Vinogradov. I cast vocali e i team creativi coinvolgeranno il meglio dei giovani e del panorama attuale, offrendo prestigiosi debutti al Filarmonico. Fra i direttori, ritorneranno i maestri Antonio Pirolli, Michael Balke, Francesco Ommassini, Alessandro Cadario, Lü Jia, Paolo Arrivabeni.
La Stagione sinfonica conferma ben 10 appuntamenti in abbonamento, a cui si aggiungono due concerti straordinari. La programmazione abbraccerà oltre tre secoli di musica, inaugurando il 31 gennaio con la Grande Messa in do minore di Mozart e proseguendo con importanti anniversari di grandi compositori come Šostakovič, Ravel e lo stesso Antonio Salieri, a cui sarà dedicato il concerto straordinario di Pasqua nel 200° della morte, che sarà eccezionalmente replicato anche a Legnago, città natale del maestro. Proseguiranno le integrali intraprese negli ultimi anni da Fondazione Arena: i concerti di Rachmaninov (il leggendario Terzo), le composizioni di Richard Strauss, le sinfonie di Beethoven (la Pastorale) e quelle di Mahler (la Settima, complessa e affascinante, mai eseguita dai complessi veronesi).
In allegato tutti la stagione in dettaglio
Venezia, Palazzetto Bru Zane, Festival “Passione violoncello”, 21 settembre-24 ottobre 2024
“VIOLONCELLI IN CORO”
Violoncelli Anne Gastinel, Xavier Phillips, Lila Beauchard, Leonardo Capezzali
Marie-Joseph Erb: Trois Pièces pour quatre violoncelles, op. 63; Jacques Offenbach: Cours méthodique de duos pour deux violoncelles, op. 53 (extraits); Quatuor pour quatre violoncelles; Auguste Franchomme: Trois Préludes de Frédéric Chopin transcrits pour quatre violoncelles; Hélène-Frédérique de Faye-Jozin: Suite sylvestre pour quatre violoncelles (extraits); Florent Schmitt: Andante religioso pour quatre violoncelles
Venezia, 22 settembre 2024
Secondo appuntamento nell’ambito del Festival “Passione violoncello”, che il Palazzetto Bru Zane dedica al nobile strumento, focalizzandosi soprattutto sul periodo storico – l’Ottocento, ma anche oltre –, in cui raggiunge il culmine della sua evoluzione, sia sul piano tecnico che su quello espressivo, divenendo, anche grazie alla sua timbrica, una delle “voci” più espressive del romanticismo musicale in Francia e non solo. Inizialmente legato alle esigenze didattiche, come testimoniano i brani per ensemble di violoncelli di Jacques Offenbach e di Auguste Franchomme, il corpus di partiture si è un po’ ampliato a cavallo del Novecento, uscendo dai confini della scuola. Non furono, peraltro, insegnanti o virtuosi dello strumento a comporre questi brani, ma artisti, come Marie-Joseph Erb, Hélène-Frédérique de Faye-Jozin o Florent Scmitt, che utilizzano un ensemble di violoncelli per esplorare nuove sonorità. A proporre i brani in programma erano quattro validi strumentisti: Anne Gastinel e Xavier Phillips – entrambi concertisti affermati a livello internazionale –, insieme a Lila Beauchard e Leonardo Capezzali – già loro rispettivi allievi –, all’inizio di un carriera decisamente promettente. Nella loro esecuzione si è apprezzato, in particolare l’affiatamento, quel guardarsi l’un l’altro, che ha loro permesso di interpretare i vari brani in prefetta sintonia, traendo dai loro strumenti sonorità armoniose e un’articolazione del discorso musicale nitida e coerente, nel loro dialogare, di volta in volta pacato o concitato, sussurrato o gridato. L’ensemble si è fatto apprezzare a partire dai Tre pezzi per quattro violoncelli di Marie-Joseph Erb (Ave Maria – Menuet – Berceuse), pubblicati nel 1903, la cui fonte d’ispirazione è l’Ave Maria di Schubert, come attesta, nella seconda battuta, una citazione delle prime note della celebre preghiera schubertiana, seguita da variazioni di stampo neopalestriniano, a parte un passaggio contrastante, che guarda al corale tedesco. I violoncellisti hanno sfoggiato le loro doti in Ave Maria come nel pomposo Minuetto, che ha una sezione costellata di pizzicati, e nella Berceuse, improntata alla semplicità di una melodia popolare. Più oltre nella serata, Anne Gastinel e Xavier Phillips hanno affrontato autorevolmente due pagine dal Cours méthodique de duos pour deux violoncelles di Jacques Offenbach che, essendo un eccellente violoncellista, fu autore di vari cicli di opere didattiche per il proprio strumento. I pezzi del Corso, che sono stai proposti – dalla lettera E: n. 2 (Duo – Andante – Allegro) e n. 3 (Duo – Andante – Rondò) –, si segnalano per l’inesauribile flusso melodico, che già preannuncia il compositore di melodie di successo, ma anche per il trattamento equilibrato dei due strumenti, che assegna a maestro ed allievo parti di uguale difficoltà. Sempre di Offenbach è stato eseguito il Quartetto per quattro violoncelli – composto nel 1849 – formato da un movimento in tempo Moderato seguito da uno Scherzo. Una certa teatralità si è colta nel primo movimento, dove il primo violoncello ha reso da par suo il tema cantabile d’apertura, accompagnato da interventi sincopati degli altri tre strumenti. Dopo una minorizzazione, il secondo violoncello ha preso la parola, per esporre col giusto accento un tema più tormentato, sostenuto da un accompagnamento dal ritmo agitato. Poi i primi due violoncelli hanno suonato all’ottava nel registro acuto , creando un surplus di tensione. E ancora successivamente un tema cantabile è stato degnamente intonato dal terzo e dal quarto violoncello. Estroverso lo Scherzo d’ispirazione popolare, caratterizzato da agitazione ritmica, contrasti di colori armonici, pizzicati, imitazioni ravvicinate, scrittura omofonica. La giusta leggerezza, unita ad adeguate scelte di tempi, si è colta nei Tre Preludi di Chopin, trascritti per quattro violoncelli da Auguste Franchomme. Rimasti sotto forma di manoscritto non datato, gli arrangiamenti dei tre Préludes op. 28 di Chopin furono probabilmente realizzati da Auguste Franchomme dopo la morte del compositore polacco, per rendergli omaggio come peraltro fece con analoghe trascrizioni. Dei ventiquattro Preludi dell’op. 28, Franchomme ne sceglie tre relativamente lenti, da eseguire ricorrendo al rubato. Al brevissimo Preludio n. 9 seguiva il celebre n. 15, meglio conosciuto come “della goccia d’acqua” per il suo ostinato, quest’ultimo affidato al terzo violoncello. Che anche nel n. 13 ha sostenuto ritmicamente i compagni, mentre intonavano una melodia lenta e querula. Intensamente espressiva – tra “estasi” ed “esaltazione”,“sospiri e “singhiozzi” come prescrive l’autrice – è risultata l’esecuzione della Suite sylvestre per quattro violoncelli di Hélène-Frédérique de Faye-Jozin – emozionata rievocazione della foresta di Rambouillet in autunno, percorsa da un sentimento panico –, di cui si sono ascoltati il primo, il terzo e il quarto pezzo: Salut au bois, Bourrasque en forêt, Adieux au bois, che sembrano delineare un percorso, lungo il quale la musicista entra in comunione con la natura. Le quattro parti sono di pari difficoltà e solo occasionalmente il primo violoncello ha svolto un ruolo solistico. Suggestive in Bourrasque en forêt le folate del vento brillantemente imitate dai violoncelli scandendo, a turno, una serie di terzine: un effetto rafforzato da passaggi in glissando del primo strumento. La serata si è conclusa con l’Andante religioso per quattro violoncelli di Florent Schmitt. Un pezzo intriso di misticismo – risalente all’immediato dopoguerra –, che è la trascrizione, ad opera dell’autore stesso, di un movimento del suo Quartetto per tromboni e tuba op. 109, datato 1946. Encomiabile il coordinamento tra gli esecutori nell’affrontare questa partitura, in cui si concentra l’arte polifonica di Schmitt e dove l’elementare cromatismo di una sequenza discendente di tre note – come un rapido sguardo nelle profondità dell’anima – è sostenuto armonicamente dalle voci più basse, prima che il movimento segua una linea ascendente, per proseguire tra affannosi respiri. Reiterati applausi soprattutto a fine serata.